23 marzo 2008

Il ladro di merendine di Andrea Camilleri


Il picciliddro non piangeva, gli occhi erano fermi, taliavano al di là da Montalbano.
“Je veux maman” disse.
Vide arrivare Livia di corsa, si era infilata una sua camicia, la fermò con un gesto, le fece capire di tornare a casa. Livia obbedì.
 
Il commissario pigliò il picciliddro per mano e principiarono a caminare a lento a lento. Per un quanto d'ora non si dissero una parola. Arrivati a una barca tirata a sicco, Montalbano s'assitò sulla rena, Francois gli si mise allato e il commissario gli passò un braccio attorno alle spalle. 
“Iu persi a me matri ch'era macari cchiù nicu di tia” esordì. 
E iniziarono a parlare, il commissario in siciliano e Francois in arabo, capendosi perfettamente.Gli confidò cose che mai aveva detto a nessuno, manco a Livia. 
Il pianto sconsolato di certe notti, con la testa sotto il cuscino perché suo padre non lo sentisse; la disperazione mattutina quando sapeva che non c'era sua madre in cucina a preparargli la colazione o, qualche anno dopo, la merendina per la scuola.
Ed è una mancanza che non vien mai più colmata, te la porti appresso fino in punto di morte.
Questo dialogo rappresenta il punto centrale del libro: la delicata confessione tra padre e figlio dei ricordi, dei pianti, del dolore della perdita.
Forse sta proprio in questo il successo del personaggio Montalbano: la grande umanità, nei confronti dei più deboli. Ma anche il suo volersi mettere nei panni di un Dio in terra.
Un Dio che non si ferma di fronte alle soluzioni di comodo, di facciata: un Dio investigatore capace di mettere assieme l'omicidio di un pensionato (il poviro signor Lapecora) con quello di un pescatore tunisino imbarcato su un peschereccio in acque internazionali. Due omicidi, che diventarono tre con la morte della sorella del tunisino, la prostituta tunisina (Karima, scritta con la kappa). E un ladro di merendine, il piccolo Francois.In una storia che mette assieme terrorismo, servizi (che per le loro malefatte “scaricano la colpa sui colleghi deviati, che non esistono. Sono sempre loro, per natura e costituzione ad essere deviati”), avidità e gelosia.

Con anche punte di umorismo alla Camilleri:

«Gli spararono?» 
«No.» 
«Lo strangolarono?» 
«No.» 
«E come fecero ad ammazzarlo in ascensore?» 
«Coltello.» 
«Di cucina?» 
«Probabile.»
Forse l'indagine che tocca Montalbano nell'intimo più di altre: perché si ritrova padre di un picciliddro senza esserne pronto. Perché rivede nel dolore del piccolo Francois, il proprio, quando perse la madre da piccolo.
“Quando si deciderà a crescere, Montalbano” lo accusa un un certo punto un professore nel finale del libro.

Anche in questo sta il fascino del Montalbano commissario: evitare la realtà quotidiana, il peso dei drammi di tutti i giorni, il fastidio di dover sentire dei servi (in tutti i sensi) dello stato parlare di “Ragion di Stato”.
“Se lo metta in culo ..Non ho capito.Ripeto, il nostro Stato comune, se lo metta in culo. Io e lei abbiamo concezioni diametralmente opposte su cosa significhi essere servitori dello Stato, praticamente serviamo due stati diversi.”
E allora ecco la fuga, il rifugiarsi nelle sue inchieste, nel suo mondo, il piccolo mondo perfetto (o imperfetto) del commissariato di Vigata.
Il centro più inventato della Sicilia più autentica.


La scheda del libro sul sito di Sellerio.
Il link per ordinare il libro su
internetbookshop e Amazon
Il sito del fan club di
Vigata.
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