«Fino a tutto il 1860 io fui avvocato patrocinante in Ivrea. Con Regio Decreto 17 dicembre 1860, fui nominato sostituto avvocato dei poveri a Modena coll'annuo stipendio di lire 3000. Con decreto 25 maggio 1862, fui nominato Sostituto Procuratore Generale del Re presso la corte d'Appello di Palermo collo stipendio di lire 5000».
Il breve saggio di Leonardo Sciascia
ripercorre l'inchiesta del Sostituto Procuratore Generale Guido
Giacosa sul “fatto criminale” 1 ottobre 1862 : 13 persone
in 13 diversi punti della città accoltellate da sicari vestiti nella
stessa maniera (così li descrissero le vittime nei primi resoconti).
“Alla stessa ora, in diversi punti della città tra loro quasi equidistanti, una stella a tredici punte sulla pianta di Palermo, tredici persone venivano gravemente ferite di coltello, quasi tutte al basso ventre. «I feriti dànno tutti gli stessi contrassegni dei feritori, i quali vestivano a un solo modo, erano di pari statura, sicché vi fu un momento che si poté credere fosse un solo. Fortunatamente ...»”
La
contemporaneità degli eventi e la descrizione degli assalitori
portarono subito gli inquirenti ad ipotizzare una congiura, un
delitto organizzato per tempo, un “attentato contro l'attuale forma
di governo”.
Quale
lo scopo? Gettare nel caos la città, creare discredito
nell'amministrazione della città? Eravamo nei primi anni dell'Unità
d'Italia e già succedevano storie di delitti politici, che poi
avremmo rivisto negli anni della strategia della tensione.
Il
libro, infatti, racconta attraverso le lettere, gli
atti, le relazioni del procuratore Guido Giacosa, dell'inchiesta sui
pugnalatori. Di come si fosse arrivato quasi da subito ad arrestare i
responsabili degli accoltellamenti.
Di come uno di questi arrestati, Angelo
D'Angelo, in cella, avesse confessato ai magistrati i nomi dei tre
reclutatori, Castelli, Masotto e Calì.
E, infine, anche della persona che in
alto loco, aveva pagato i “tarì” per compiere i delitti: il
senatore (per censo, perché ancora non valeva il suffragio
universale) Sant'Elia.
Principe di Sant'Elia, senatore per censo: aveva cariche dal governo borbonico, col ritorno dei Borboni sull'isola nel 1849, allontanato dalle cariche, fu esule per pochi mesi nel 1860.«Costretto dalla polizia borbonica ad esulare nell'aprile del 1860», non sappiamo dove, si ritrovò in Sicilia nel maggio: e la tempestività e il poco prezzo con cui si conquistò il titolo di esule, che molto poi gli valse, può anch'essere casuale; ma noi crediamo s'appartengano alla peculiare disposizione della sua classe – in lui magari più pronta e affinata – a mutar tutto, e anche se stessa, per non mutar nulla, e tanto meno se stessa: e rimandiamo a I vicerè di Federico De Roberto e a Il gattopardo di Giuseppe Tomasi.
Borbonico
prima e poi uomo della rivoluzione coi Savoia e con Garibaldi, che
aveva salutato l'unità nazionale e per questa investito parte dei
suoi averi. Politico, dunque, capace di sentire dove soffia il vento
e di mettere le vele nel verso giusto.
Lo
scrupolo del Giacosa nel compiere le indagini, che sono
complesse anche per i depistaggi della polizia, perché coinvolgono
un esponente del Senato che aveva avuto cariche dal governo, emerge
dai suoi scritti. Le accuse di D'Angelo sono vere oppure è solo una
calunnia? E perché il Sant'Elia avrebbe organizzato questo “crimine
contro il governo”?
“.. perché il principe di Sant'Elia si metteva a cospirare contro un governo che non gli era avaro di cariche e onori? E la risposta che si erano dati, che Castelli si dava parlando col Mattania, non era diversa di quella che se ne dava il procuratore Giacosa. Era una risposta, diciamo, di specie storica e, si direbbe oggi, sociologica. «Quelli che sanno leggere e scrivere ed hanno denaro» diceva Castelli «non sono mai contenti, cospirano sempre per guadagnare da tutti; e noi che siamo poveri esponiamo la vita e dobbiamo soccombere, ché non li accuseranno mai, non siamo infami come D'Angelo ..»”
Ma
questa è solo una risposta generale, sullo spirito gattopardesco
della classe politica siciliana (di ieri, e anche di oggi?).
Ma,
spiega Sciascia, c'erano anche altre questioni, legate al malcontento
del governo sabaudo in Sicilia:
“C'erano altre ragioni d'ordine generale e che ci avvicinano a capire quelle particolari, personali del Sant'Elia. Per queste ragioni, a dispiegarle, il richiamo di Castelli al 1848 è assolutamente pertinente: e si vedano le ritrattazioni, le giustificazioni, le richieste di perdono, le profferte di eterna devozione alla dinastia dei Borboni che quasi tutti i nobili siciliani indirizzarono a quel re Ferdinando di cui nel parlamento «rivoluzionario» - da pari, da deputati – avevano entusiasticamente proclamato la decadenza.[..]Leggendoli è facile immaginare come la stessa classe, le stesse persone, fossero dopo quattordici anni disponibili a risalutare la restaurazione borbonica, a chieder perdono a Francesco II dei loro brevi errori [..] garibaldini e savoiardi.In quel 1862 le condizioni della Sicilia dovevano apparire del tutto eguali a quelle del 1849: tali cioè che sarebbe bastato lo sbarco di qualche reggimento borbonico in un qualsiasi punto della costa a far sì che tutta la Sicilia violentemente insorgesse contro i piemontesi.[..]La delusione per i Savoia era enorme: le tasse, la leva obbligatoria, la predazione della borghesia fondiaria e infine il problema dell'ordine pubblico”.
Giacosa
e Mari (procuratore e giudice istruttore) procedono con gli arresti e
le perquisizioni delle persone coinvolte, sia il Sant'Elia che altri
preti dell'arcivescovado palermitano.
Arrivano
anche a reclutare un “undercover”, Orazio Mattania, un
criminale uscito dalla galera, che viene fatto avvicinare in carcere
ai tre reclutatori e successivamente infiltrato dentro la struttura,
per acquisire altre prove di colpevolezza contro i mandanti di alto
livello.
Ma
le prove dell'accusa, le confessioni di Angelo D'Angelo, sufficienti
a portare alla ghigliottina i tre reclutatori e a decine d'anni di
lavori forzati i pugnalatori, non sono sufficienti per arrivare così
in alto.
Troppo
in alto.
I
due giudici avevano in mano solo indizi e mancavano loro le prove per
chiudere l'inchiesta e per procedere contro il Senatore che, nel
frattempo, veniva difeso dai suoi colleghi in commissione e veniva
pure visto sfilare, in processione alla Cappella Palatina, in
rappresentanza del re, il venerdì santo.
Continua
Sciascia, su Giacosa e Mari
“.. chiedevano di poter trattare il principe come qualsiasi altro cittadino indiziato di un così grave reato; come quegli altri che erano già in carcere. «Scindere questo processo» scrive Guido Giacosa «non si può. Conservar ciò che si riferisce agli altri, eliminare ciò che si riferisce al Sant'Elia, è impossibile. Accusare, giudicare, forse condannare gli uni, mentre l'altro, confuso nelle stesse prove, menzionato negli stessi documenti, oppresso dagli stessi argomenti, se ne va libero, onorato, potente, sarebbe tale un fatto che pregiudicherebbe in modo troppo pernicioso ogni sentimento di giustizia e screditerebbe la magistratura e le patrie istituzioni»”.
Nella
relazione al Guardasigilli scritta da Giacosa (prima del suo ritorno in Piemonte) traspare tutta la sua
delusione, lui uomo di legge chiamato ad amministrare la giustizia,
di una legge da applicare in ugual modo per tutti. E dove invece si è trovato di fronte a depistaggi dall'interno della stessa "amministrazione":
«.. che alla prima cospirazione tendente a gettare il paese nell'anarchia, ora si è sostituita una seconda che ha per iscopo di eliminare ad ogni costo tutto ciò che potrebbe condurre allo scoprimento della prima; e la sparizione del primo rapporto da me compilato, sparizione che non si può credere casuale, ne è la prova luminosa».
L'autore che, evidentemente parteggia per il lavoro scrupoloso del procuratore:
Credeva di dovere la sua sconfitta, la sconfitta della legge, la sconfitta della giustizia, alla Sicilia: alle «abitudini, le tradizioni, l'indole, lo spirito di questo disgraziato paese, assai più ammalato di quanto si presuma». La doveva invece all'Italia.
Come in molti altri saggi di Sciascia, il finale lascia un amaro in bocca, con la sensazione che il nostro paese non sia mai stato innocente, nemmeno nei primi anni dell'Unità:
Ad un certo punto del suo intervento sull'interpellanza La Porta, Francesco Crispi aveva detto: «Penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come veramente sono avvenute».Si preparava così a governare l'Italia.
La scheda del libro sul sito di
Adelphi.
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