27 agosto 2016

A futura memoria, se la memoria ha futuro – di Leonardo Sciascia

Un intellettuale è tale perché ha il coraggio di intestarsi battaglie su diritti civili lontane dal conformismo comune, idee che possono essere scomode, in direzione ostinata e contraria, per usare le parole di Fabrizio de Andrè.
Un intellettuale, uno vero intendo, deve sentirsi libero di portare avanti le sue idee, scomode, fuori dal coro, anticonvenzionali, senza che gli venga addossata l'accusa di fare il gioco di qualcuno.
Come dopo il finto suicidio di Calvi a Londra, dove Sciascia scrisse della tragedia di un uomo fragile sostenendo la tesi del suicidio e fu accusato da altri giornalisti di essere alleato oggettivo della mafia e della massoneria:
questa trovata delle “alleanze oggettive” mosse in accusa a chi difende certi diritti civili che si vogliono dimenticare o a chi discorda da opinioni che si vogliano totalitarie, è uno dei ricatti che più pesa nella vita italiana, che di ricatti non si può dire povera”.

In questo volume sono raccolti tutti gli interventi di Leonardo Sciascia pubblicati su Il corriere e su l'Espresso tra il 1979 e il 1988, tra il delitto del giudice Cesare Terranova e la fine del maxi processo di Palermo (che in Sicilia la storia si deve purtroppo misurare con eventi criminali).
Storie di delitti eccellenti (Dalla Chiesa, Terranova, Calvi), storie di (cattiva) amministrazione della giustizia e storie di mafia : “spero che venga letto con serenità” si augurava nella prefazione.

L'autore de “Il giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo” è stato uno dei primi scrittori di mafia in Italia, gli fu appiccicata l'etichetta di mafiologo (che contestava):
Non c'è nulla che mi infastidisca quanto l'essere considerato un esperto di mafia o, come si usa dire, un “mafiologo”. Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone.Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfara: a livello delle cose viste e sentite, delle cose vissute e in parte sofferte. E non amo le interviste ex abrupto: preferirei rispondere per iscritto ad ogni domanda, tranquillamente, ponderatamente”.

Come un insegnante paziente col suo alunno, ha cercato di spiegare la sua visione di questa struttura criminale (non una struttura unitaria, ma piuttosto tante mafie locale talvolta in lotta tra loro). Il passaggio dalla mafia agricola (quella di Germi e del suo film “In nome della legge”) alla mafia che entra negli appalti pubblici per la cementificazione di Palermo. Fino all'ultima evoluzione della mafia produttrice di droga e che (ai tempi in cui scriveva questi articoli negli anni '80) non si sentiva non più protetta dallo Stato: questo spiega la qualità eversiva degli ultimi delitti della mafia.
Dalla Chiesa, Mattarella, Boris Giuliano, Gaetano Costa, Cesare Terranova, Pio La Torre.
.. tra Portella della Ginestra e l'assassinio del generale Dalla Chiesa corre un grosso divario. Il rapporto di reciproca protezione tra uno stato in sclerosi di classe e una mafia in funzione di sottopolizia e avanguardia reazionaria, cui veniva lasciata a compenso l'esazione di determinati tributi, si è certamente infranto. Per due ragioni. Una, perché lo Stato – disordinato, inefficiente, disfatto quanto si vuole – non è più in sclerosi di classe. Ragione politica, dunque. L'altra – ragione che si potrebbe dire morale, anche se nasce da precauzione e da calcolo – che la gestione della droga, pur essendo fonte di redditi ingenti, ha spaventato quegli uomini politici che, ormai appagati di quel già che avevano in potere e in beni, non volevano correre ulteriori e meno protetti rischi.”

La polemica attorno alla morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il 3 settembre 1982 viene ucciso il prefetto dalla Chiesa mandato a Palermo con pieni poteri (ma solo sulla carta) per combattere la mafia.
L'omicidio, secondo lo scrittore, era sintomo di una mafia in crisi, perché costretta a portare avanti una lotta allo Stato, con metodi eversivi (come le Brigate Rosse). Erano gli anni in cui venivano uccisi magistrati, presidenti di regione, sindaci e infine il super prefetto Dalla Chiesa, assieme alla giovane moglie. Nemmeno la moglie è stata risparmiata dai killer di Cosa Nostra.

Sciascia, commentando l'agguato, non si unisce al coro del “povero generale”, ma sottolinea la spavalderia di Dalla Chiesa suscitando nuovamente le polemiche di altri giornalisti e del figlio del generale, Nando Dalla Chiesa:
Sospetto che proprio questa ipotesi a Bocca non piaccia, così come certamente non gli piace sentir dire che il generale Dalla Chiesa non si proteggeva sufficientemente e accortamente. Nulla di più evidente: il generale Dalla Chiesa andava per le strade di Palermo senza protezione e precauzione; ma pare che il dirlo venga considerato un'offesa alla memoria del generale e una remora della lotta alla mafia”.

Anche per questi articoli arriveranno addosso le accuse di aver fatto “il gioco della mafia”: in realtà
Sciascia sottolinea non solo l'assenza di precauzioni ma anche il non aver compreso, da parte del generale “ la mafia nella sua trasformazione in 'multinazionale del crimine', in un certo senso omologabile al terrorismo e senza più regole di di convivenza e connivenza col potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere dei siciliani.”

Non solo, lo scrittore fu molto scettico anche nei confronti dei super poteri che, se anche Dalla Chiesa avesse avuto, non gli avrebbero permesso di sconfiggere da solo la mafia: per contrastare le mafie serviva più diritto, non maggiori poteri, spesso discrezionali dati alle forze dell'ordine e ai magistrati.
.. debbo, a chi crede di poter dire quello che vuole, dire quel che certamente non ama sentire. Ed è questo: che l'accusare e il drammatizzare sui poteri che in Sicilia non sono stati dati al generale Dalla Chiesa, il far credere che appena avuti certi poteri il generale avrebbe tirato fuori dalla manica una radicale panacea contro la mafia, è una mistificazione”.

Questo dei diritti civili è un fil rouge che attraversa tutto il libro e che spesso ritorna: diritti che devono essere concessi perfino ai mafiosi.

Il caso Tortora
Nella prefazione, Sciascia anticipa già diversi temi poi presenti nella raccolta: tra questo il tema della giustizia giusta, dopo lo scoppio del caso Tortora, per cui aveva anche scritto una lettera al presidente Pertini senza aver avuto risposta:
Il sacrificio personale di Tortora era però servito a dare agli italiani il senso che i giudici potevano fare quel che volevano, distruggere una persona innocente nella reputazione e negli averi e, principalmente, privarla della libertà. L'inquietudine del paese fu maggiormente sentita da socialisti e radicali, che promossero un referendum popolare per una legge che, in casi come quello di Tortora, rendessero responsabili i giudici …”

Enzo Tortora, a seguito delle rivelazioni di un pentito di Camorra, fu arrestato e sbattuto come mostro in prima pagina. Condannato a dieci anni in primo grado, fu poi assolto in Appello. La battaglia di Sciascia non parte da un principio di difesa di casta, nei confronti di un personaggio noto.
Le accuse dei camorristi pentiti a Tortora non sono state, prima dell'arresto, accuratamente e scrupolosamente vagliate, perché gli ottocentocinquantasei mandati di cattura trovavano apice, davano misura della vastità e intransigenza dell'operazione, proprio in quello contro Tortora.De resto – come è stato detto, ripetuto e non smentito – se su ottocentocinquantasei ordini di cattura ben duecento erano sbagliati e le persone arrestate per errore sono state rimesse in libertà nel giro di pochi giorni [..], è facile immaginare che in tanta fretta e confusione il nome di Tortora, fatto con sicurezza dai pentiti, appunto sia apparso come il più sicuro, oltre che il più eclatante.”

Sciascia puntava il dito contro quei magistrati che non venivamo mai chiamati a rispondere dei loro errori: una battaglia che portò poi ad un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, in parte applicato dalla politica (o in parte disatteso, a seconda dei punti di vista).
Un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera, che automaticamente percorrerà fino al vertice, anche se non con funzioni di vertice”.

La soluzione, drastica e quanto mai improponibile, era quella di mandare in carcere i magistrati prima di mandarli a ruolo:
Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d'esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l'Ucciardone o Poggioreale”.

Mafia e fascismo
C'è un libro che Sciascia cita spesso nei suoi articoli: Christopher Duggan “La mafia durante il fascismo”. In questo libro si racconta della percezione della mafia, e di come questa fu combattuta negli anni del fascismo, dai metodi repressivi e anti democratici usati dagli uomini del prefetto Mori negli anni '20.
il fascismo aveva soltanto anestetizzato la mafia, e spesso facendo più o meno volontaria confusione tra il dissenso politico e la criminalità associata; ma in quanto ad estirparla ci voleva altro.Forse ci voleva anche più tempo, a far sì che la generazione mafiosa presa nella rete di Mori naturalmente si spegnesse e non tornasse in auge al crollo della dittatura; ma soprattutto ci voleva, per dirla semplicisticamente, più diritto: nel senso che bisognava mettere i siciliani nella condizione di scegliere, appunto, tra il diritto e il delitto e non tra il delitto e il delitto”.

Mafia e fascismo, spiega Sciascia, erano concorrenti sul piano politico, in quanto entrambe forze reazionarie:
L'idea e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei confronti della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo”.

Continua, l'autore:
Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercitanti delle zolfare, costoro dovevano – a garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine pubblico – liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi “mafiosi”): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto”.

I professionisti dell'antimafia
La polemica contro l'uso dell'antimafia per fini politici (e di carriera), nasce dalle considerazioni di cui scriveva sopra: anche il fascismo combattè la mafia, ma la sua antimafia “è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile”.

E venne poi la promozione del giudice Paolo Borsellino a procuratore capo a Marsala: promozione basata non su criteri di anzianità (come poi avvenne per silurare Falcone a Palermo), ma in base al fatto che Borsellino avesse portato avanti processi contro la mafia:

Notiziario straordinario numero 17 (10 settembre 1986)
Il dottor Borsellino [..] possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare”I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale di più, in Sicilia per fare carriera nella magistratura, del prendere parte a processi di stampo mafioso.

Polemica non contro Borsellino in se, ma contro quella che secondo Sciascia era una discriminazione nei confronti degli altri candidati a quel posto.
Polemica a mio avviso basata su presupposti in parte giusti (il procuratore Meli fu poi promosso al posto di Falcone usando il principio di anzianità) ma che non considerava l'eccezionalità del fatto che si era in Sicilia, terra di mafia.
Ma Sciascia se la prendeva anche con l'antimafia fine a sé stessa, quella delle manifestazioni in strada senza che si spingesse gli studenti a leggere libri di mafia.
Se la prendeva contro la cultura del sospetto, un veleno che poteva colpire anche persone poi innocenti.
Il fenomeno del pentitismo, dei non pentiti di mafia come Buscetta (di cui lo scrittore non condivideva nemmeno il suo teorema sulla mafia unitaria e verticistica).
Queste le ragioni dei suoi articoli sul Corriere, a partire da quello del 10 gennaio 1987.
Alle critiche che gli furono rivolte dagli articoli di Pansa, di Scalfari e la lettera del Coordinamento antimafia di Palermo, rispose con queste precise parole, che danno la cifra del suo garantismo
Io – finché non si troverà una soluzione tecnica che non contravvenga all'idea del diritto – preferirò sempre che la giustizia venga danneggiata piuttosto che negata.Questa è la mia eresia: gli inquisitori mi diano la condanna che vogliono. Ma ci sono tanti eretici, per fortuna, in questo nostro paese; benché non sembri.E in conclusione, che in Italia l'amministrazione della giustizia – e non soltanto in ordine alla mafia – riesca, come spero, ad uscire dall'impasse in cui si è cacciata”.

Strano destino quello di Sciascia: trovarsi sempre contro corrente, mafiologo per i suoi libri sulla mafia quando questa non era considerata come un'emergenza (e veniva persino negata):
Io ho dovuto fare i conti da trent'anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all'esistenza della mafia e ora con coloro che non vedevano altro che mafia.Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via.


La rivelazione sul capitano Bellodi.
No, non era all'allora capitano Dalla Chiesa (comandante alla stazione di Corleno negli anni in cui veniva ucciso da Liggio il sindacalista Placido Rizzotto).
Ad aver ispirato Sciascia per il personaggio del capitano Bellodi era il maggiore Renato Candida
Non solo per Il giorno della civetta, ma per ogni mio racconto in cui c'è il personaggio di un investigatore, la figura e gli intendimenti di Renato Candida, la sua esperienza, il suo agire, più o meno vagamente mi si sono presentati alla memoria, all'immaginazione”.

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