Prologo Adua, 1896
«Stiamo sbagliando strada.» Non si seppe mai chi era stato il primo a parlare, ma a un certo punto la voce cominciò a spargersi e percorse l’intera colonna in pochi istanti: quelli davanti la ripetevano a quelli dietro, quelli dietro a quelli più indietro ancora. Tutti si guardavano intorno smarriti. C’era chi si fermava, chi spingeva e chi veniva a sua volta spintonato da quelli che lo seguivano.
Immaginate che l’esercito Regio abbia, anche per un fortuito caso, vinto la battaglia di Adua. E che nel corso della prima guerra mondiale il governo italiano e il re avessero tenuto l’Italia in una situazione di neutralità.
Nessun massacro sul Carso, nessuna Caporetto. E nessuna crisi post bellica che avrebbe spalancato poi le porte al fascismo: per anni l’Italia forse avrebbe avuto un governo di colore diverso. Forse il rosso dei governi socialisti del deputato Matteotti (che non sarebbe stato ucciso a Roma nel giugno del 1924) che avrebbero cercato di cambiare il volto del regno, in Italia e anche nelle colonie in Africa, con delle riforme.
Per poi lasciare il passo ad una serie di governi conservatori, di cui l’ultimo in cui ritroviamo un Mussolini come ministro delle colonie.
Ecco, ci saremmo trovati di fronte ad un’altra storia, come dice il titolo, una storia diversa da quella che invece abbiamo studiato sui libri di storia. Il romanzo di Luca Ongaro, di professione agronomo e attivo per anni nella cooperazione internazionale, parte da questi presupposti per raccontarci dell’Italia del 1956, portandoci nella colonia africana in Eritrea, dove è ambientata la storia, più di mezzo secolo dopo la battaglia di Adua, raccontata nel prologo
1956 Il commissario Francesco Campani fu svegliato, come quasi tutti i giorni, dal solito picchiettare alla finestra. «Francesco!» lo chiamava una voce femminile da fuori.
«Buongiorno, Kobeb»rispose.
«Buongiorno, Francesco».
Scese dal letto, si infilò le ciabatte e uscì in veranda, dove lo attendeva la colazione preparata da Kokeb: ambasha, bombolino, burro, miele..
Sono passati tanti anni da quella battaglia e nella colonia eritrea il rapporto tra gli italiani e la popolazione locale si è sempre mantenuto su un certo equilibrio frutto di una politica di tolleranza, di non segregazione voluta dai precedenti governi socialisti. Ma qualcosa, dopo tanti anni, sta cambiando: i nuovi governi conservatori, dove troviamo a fianco Fanfani con Mussolini, stanno portando avanti politiche che vanno in direzione contraria, non solo agli eritrei l’accesso alle alte cariche pubbliche è ostacolato, ma italiani e locali devono frequentare classi diverse.
Da Roma arrivano segnali precisi, allarmi verso focolai di insurrezione da parte di gruppi di indipendentisti, appoggiati (così raccontavano le veline) dagli etiopi e dagli inglesi, che vorrebbero mettere le mani sulle colonie italiane per allargare la loro influenza in Africa.
E così i politici di Roma, per paura di trovarsi per le strade di Roma e Milano libici, somali ed eritrei, chiedono ai rappresentanti del regno in Africa la mano dura. Non sapendo che così si sarebbe andato solo a gettare altra benzina sul fuoco ..
“.. a qualche ministro in Italia fa comodo gridare al lupo per distrarre gli elettori dai problemi veri. Solo politica, ecco cos’è.”
Ma questi discorsi di politica, che oggi agli occhi dei lettori possono avere un effetto strano, non interessano al commissario di polizia di Macallè (capitale della provincia meridionale della Colonia Eritrea) Francesca Campani. Perché lui in Africa c’è nato, orfano di genitori, è stato cresciuto dai nonni che si erano stabiliti a Wukro, un piccolo paesino dove il nonno (dopo il congedo ottenuto dalla battaglia di Adua) aveva costruito l’albergo Fiesole. In Italia c’era stato solo per studiare legge e prendersi la laurea, a Firenze. Ma in Italia non aveva legato con nessuno, troppo diverso dai suoi coetanei che lo guardavano con diffidenza, per il suo essere taciturno, per quella sua parlata strana. Italiano fuori, ma tigrino, dentro.
Così, presa la laurea, era tornato nella sua terra, nel suo albergo, che aveva lasciato in gestione a Salvatore, una specie di fratello per il commissario, anche lui orfano, anche lui cresciuto dal nonno.
Un giorno, al suo ufficio a Macallè si presenta un archeologo che sta seguendo degli scavi nella zona di Romanat, luogo sacro per gli eritrei, dove sono seppellite le spoglie dei primi santi cristiani venuti da Roma.
Nella necropoli è stato rinvenuto un teschio molto particolare:
«Quel foro in mezzo alla fronte?»
«È il primo motivo per cui abbiamo deciso di portarlo qui. Non è un teschio molto antico, al massimo poche decine di anni. Il resto dello scheletro non l’abbiamo trovato».
La particolarità del teschio sta nel fatto che si tratta di un cranio di un italiano, perché si vede l’otturazione di un dente. E poi per quel foro, che sembra prodotto da un colpo di fucile a bruciapelo, che però non è passato da parte a parte.
Inizia così la “strana” indagine del commissario Campari, con un teschio che gli sta raccontando una brutta storia, e basta. Ma Campari tanto è un poliziotto poco servile nei confronti dei superiori (specie per l’ossessione contro gli eritrei) quanto è un poliziotto che non molla una sua indagine senza aver battuto tutte le strade possibili. Senza aver provato a dare un nome a quel morto, o morta. Un nome e una storia.
E ci arriverà a dare un nome ed una storia a quel teschio, una brutta storia di soprusi e di violenza, negli anni in cui nella colonia i nuovi padroni potevano fare quello che volevano, non c’erano leggi per tutelare i più deboli, specie se avevano la pelle scura. E, come nella storia che scoprirà Campari, nemmeno se avevi la pelle bianca.
Ad aiutarlo in questa indagine, oltre al suo braccio destro, l’ispettore Araya, uno dei pochi graduati eritrei, ci sarà anche una brava geologa italiana, la dottoressa Emma Giunti che lavora all’istituto Agricolo Coloniale, diretto da un inetto nipote del segretario del ministro.
Una donna molto spigliata per la mentalità bigotta dell’epoca che non vedeva di buon occhio l’emancipazione femminile. Ma sarà proprio questo a conquistare il timido commissario.
Un omicidio di cinquant’anni prima che si intrecciava con le ricerche degli antropologi a Romanat, la geologia di un villaggio abbandonato, i valdesi e chissà che altro ancora.
Un giallo che segue il filone dei romanzi distopici, come Fatherland o Fahrenheit 451 e che ci porta dentro un mondo, quello del continente africano, visto con gli occhi degli occupanti italiani.
Fa strano sentir parlare di strade, case, della civiltà che abbiamo, o avremmo portato in quelle terre, come fanno anche riflettere le parti in cui i protagonisti commentano la politica di Roma: dopo anni in cui si era dimenticata delle colonie, Mussolini aveva ideato un piano per fare nuovi investimenti, “infrastrutture, nuove strade, l’aeroporto internazionale, la nuova ferrovia per Shire”.
Una pioggia di soldi per nuovi cantieri che però non avrebbero cambiato la vita della popolazione locale,
Invece di fare il piano a Roma in base al sentito dire, mandateci i soldi qui in colonia e lasciate che siamo noi a decidere cosa farne, molto semplicemente. Le priorità della colonia sono altre. Le trade del piano Mussolini saranno bellissime, ma resteranno senza traffico. L'aeroporto c'è già, e [..] basta e avanza. A noi servono scuole, serve l’elettricità nelle campagne, servono strade sterrate fatte bene..
Nel corso del racconto, assieme ai protagonisti gireremo per gli altopiani dell’Eritrea, impareremo a conosceremo i cibi “tigrini” un po’ troppo speziati, il loro caffè, diverso dal nostro espresso.
Visiteremo con loro le chiese rupestri, scavate dentro la roccia, dei veri capolavori come quella di Mariam Korkor o Hilsha con i suoi dipinti tra cui uno che darà la svolta per risolvere quel misterioso omicidio avvenuto tanti decenni prima.
Attenzione: leggendo le pagine di questo libro si può avere la sensazione che l’autore indulga nelle sue considerazioni del colonialismo italiano. Si tratta di un romanzo distopico, dove tutti gli eventi sono raccontati col l’occhio degli invasori, occupanti, i portatori di civiltà.
E purtroppo non solo di quella.
PS: a fine romanzo, viene da chiedersi ancora una volta, e se ad Adua la battaglia avesse preso un’altra piega, e se nel 1915 non ci fossimo schierati con Francia e Inghilterra e se ...
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