Il rapimento e la morte del segretario DC Aldo Moro, per opera delle Brigate Rosse. Dopo 46 anni il mistero della prima repubblica ancora resiste, essendo ormai consolidata come verità la versione delle BR (e della DC).
Un servizio sarà dedicato allo sfruttamento dell’oro in Ghana e infine un aggiornamento della vicenda del quadro posseduto da Sgarbi, molto simile ad un’opera rubata anni fa.
Il mistero della prima repubblica
Dopo 46 anni la verità che che si è consolidata sul “caso Moro” è quella dei brigatisti, che non crea mal di pancia alla DC, non crea problemi coi nostri alleati oltre oceano e nemmeno problemi ai brigatisti su eventuali influenze esterne. Moro fu rapito dalle BR, non ci furono interferenze esterne e alla fine fu deciso di ucciderlo, decidendo di lasciare il cadavere in centro Roma, con la Renault 4 che avrebbe attraversato la capitale e i tanti posti di blocco con dentro un cadavere.
Perché dovremmo credere a questa versione che lascia irrisolti tanti punti?
Il caso Moro rappresenta per l’Italia ciò che l’omicidio dei fratelli Kennedy ha rappresentato per gli Stati Uniti, leader politici uccisi perché poco alla volta volevano lasciarsi alle spalle la logica del patto di Yalta che alla fine della seconda guerra mondiale e fino al 1991 ha diviso il mondo in campi di influenza contrapposti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Immaginare un mondo libero dalla stretta appartenenza ad un campo è stata la loro fine. 46 anni dopo la morte del presidente della DC Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse, dopo 4 processi e due commissioni di inchiesta ora sappiamo che c’è stata raccontata una verità di comodo: la fine di Moro rappresenta il più grave trauma politico della storia repubblicana, uno choc da cui l’Italia non si è mai ripresa.
L’ex ministro DC Vincenzo Scotti assieme a Romano Benini hanno ricostruito in un libro la politica di Moro (Sorvegliata speciale – le reti di condizionamento della Prima Repubblica Rubettino), lentamente soffocata dalla guerra fredda, in particolare l’apertura al partito comunista italiano duramente contrastata dall’allora segretario di Stato Henry Kissinger.
“Kissinger
non nasconde mai la necessità di impedire qualsiasi iniziativa
politica che vedesse Moro assumere la responsabilità di governo”
racconta Scotti oggi al giornalista Paolo Mondani.
A
dar fastidio era anche l’apertura al mondo arabo portava avanti
negli anni ‘70: questa gli aveva portato una certa avversità dal
mondo israeliano: “Moro nel 1973 nega le basi Nato per essere
utilizzate dall’esercito americano in supporto ad Israele durante
la guerra della Yom Kippur” spiega Romano
Benini “ed
è lo stesso Moro che nel 1974 dice al Senato che il popolo
palestinese non ha bisogno di assistenza ma ha bisogno di una patria
..”.
Conclude il racconto l’ex ministro Scotti: “tutto
questo non poteva essere accettato in quel momento da quella
dirigenza americana e israeliana.”
Il
giornalista di Report ha intervistato l’ex ministro socialista
Claudio Signorile che, nei mesi della prigionia di Moro tra marzo e
maggio del 1978, fu mediatore tra il governo e le Brigate Rosse
tramite alcuni esponenti dell’Autonomia Operaia con l’obiettivo
di liberare il presidente DC.
“Il problema di cosa stessero
facendo i servizi che in qualche maniera rappresentavano gli
interessi di Yalta, me lo ponevo”.
Questi interessi – continua il servizio - entrarono direttamente nella gestione del rapimento Moro per tramite di Steve Pieczenik, consulente del Dipartimento di Stato USA mandato in Italia per seguire la vicenda, in quanto fu inserito nel comitato di crisi presieduto dal Francesco Cossiga, ministro dell’Interno. Alle riunioni avrebbe partecipato anche Licio Gelli, il gran maestro della Loggia P2. Nel 2014 il Procuratore Generale di Roma Ciampoli vista l’inerzia del magistrato applicato alle indagini su Moro, avoca a sé l’inchiesta e formula contro Steve Pieczenik l’accusa di concorso in omicidio dello statista democristiano.
Ciampoli racconta a Report che il presidente Obama il giorno dopo il deposito della requisitoria ha detto al Dipartimento di Stato di formulare un’accusa nei confronti di Pieczenik per omicidio volontario di capo di stato estero.
Alla
fine del 1977 il vicesegretario del PSI Signorile era negli Stati
Uniti per spiegare a molti soggetti istituzionali e governativi
perché l’Italia voleva un governo con i comunisti: “volevamo il
governo di unità nazionale ” racconta oggi a Report “e spiegammo
perché, motivi economici, motivi strategici..”
Dal National
Security Counsil recepisce un atteggiamento di attenzione, persino di
favore, il Pentagono aveva una posizione sospettosa, il dipartimento
di Stato aveva un atteggiamento più negativo ma con prudenza, la Cia
era in parte favorevole e in parte contraria – ricorda oggi
Signorile: “il Senato era in parte favorevole, il senatore Kennedy
era attento, D’Amato era contro (non so se Signorile si riferisca
ad Al D’Amato, che è stato eletto senatore nel 1981), senatore
degli Stati Uniti di estrema destra”.
Mondani ha chiesto a Signorile di quando, in commissione Moro, ebbe la sensazione che Mario Moretti fosse una figura di secondo piano nella struttura decisionale: “la struttura decisionale delle BR era teleguidata dall’esterno e Moretti era fattore di guida, partecipava [alle riunioni strategiche] come portatore di questi impulsi e di queste scelte. Qualcosa di più che esecutore, qualcosa di meno perché non aveva un’autonomia nelle decisioni.”
C’è poi tutto il filone dei punti che non tornano nella verità ufficiale, quella che si è consolidata fino ad oggi e che è basata in gran parte sulla versione dei brigatisti. Si corre il rischio di passare per complottisti – visto che ci sono processi conclusi con una sentenza: Moro è stato sempre tenuto nel “covo” di via Montalcini? Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Sergio Flamigni (l’ex senatore che sulla vicenda aveva dedicato un libro) ritiene che ci fosse un covo anche in prossimità di via Caetani, dove poi è stato rinvenuto il cadavere dentro la Renault 4.
“Come
abbiamo visto dalle perizie sul cadavere e anche dalla ricostruzione
relativa all’omicidio, Aldo Moro non può essere stato ucciso nel
cadavere di via Montalcini e poi portato in via Caetani ..”
Chi
potrebbe mettere una parola definitiva sulla vicenda sono gli ex BR
ancora in vita: Mondani ha sentito l’ex agente del Sisde (e poi
dirigente dell’AISE fino al 2013) Carlo Parolisi che nel 1993 aveva
raggiunto il brigatista Casimirri in Nicaragua: “Casimirri ci
racconta delle riunioni che si tenevano prima del sequestro Moro, ad
alcune delle quali lui partecipa e dalle quali trae la convinzione
che in realtà il destino di Moro sia segnato sin dall’inizio, lui
ci dice che l’impressione aveva tratto era che Moro sarebbe stato
comunque condannato a morte.”
Al momento sono disponibili sono alcuni spezzoni del servizio completo che andrà in onda stasera (e che sta suscitando tante reazioni sui social, con l’accusa di complottismo). Sull’etero direzione delle BR non esistono al momento prove, su questo punto è bene essere chiari, ma nemmeno possiamo nascondere il fatto che, nel mondo divisi a blocchi, l’Italia aveva una sovranità limitata nella sua politica estera e interna (ed energetica, vedi il caso Mattei, primo presidente dell’Eni), col blocco verso le opposizioni, a cui era impedito l’accesso al governo (nel governo di unità nazionale il pci avrebbe avuto accesso diretto al governo ma lo avrebbe appoggiato).
La scheda del servizio: IL MISTERO DELLE BRIGATE ROSSE
di Paolo Mondani
Collaborazione Goffredo De Pascale, Federico Marconi, Roberto Persia
È sui misteri più noti, quelli senza risposte, che la storia del nostro paese non smette di essere riscritta. Eppure, il più tragico degli eventi, l’agguato di via Fani e l’assassinio di Aldo Moro, per anni si è cullato su una verità rassicurante e riconosciuta, quella contenuta nel memoriale Morucci - Faranda. Partendo dalla verità dicibile e dalle contraddizioni contenute in quelle pagine torna alla luce il fantasma di Moro: dal rapimento ai 55 giorni di detenzione fino alla morte. Le domande politiche che 46 anni fa gravavano sull’azione del commando brigatista oggi si ripropongono in forma di risposte in un quadro geopolitico sgombro dalla cortina di ferro, ma ancora fortemente condizionato da scelte che vengono da lontano.
Lo sfruttamento dei beni del Ghana
Quante volte abbiamo sentito usare l’espressione “aiutiamoli a casa” come strumento per attaccare quei migranti che, dai paesi del sud del mondo, cercano una vita migliore venendo qui da noi nella civile Europa per essere rinchiusi nei lager?
Forse, se la smettessimo di sfruttare le loro risorse, in Africa, non affronterebbero quel viaggio di migliaia di chilometri col rischio di morire.
Questa
sera Report racconterà di come si sfruttano le risorse naturali
di cui abbonda il Ghana, senza che rimanga molto sul territorio per
le popolazioni locali: per esempio per l’estrazione dell’oro,
dove si usa il mercurio per aggregare la polvere d’oro in una sola
pepita. Come mostrerà il servizio, si mette il mercurio in una
bacinella assieme alla polvere d’oro e si inizia a mescolare, alla
fine viene fuori l’oro, che viene poi pesato e venduto. Alla fine
l’acqua con mercurio viene buttata via, come fosse solo acqua
sporca, con gravi rischi per la salute delle persone.
Persone
come Derrik, un ragazzino di 13 anni, uno dei tanti minatori illegali
nel paese: ogni giorno scava una buca, setaccia la terra con una
pentola con l’acqua per vedere se è presente polvere d’oro. Ogni
giorno guadagna circa 10 euro, in base al peso dell’oro trovato, se
guadagna meno soldi i genitori si arrabbiano e quindi deve tornare
alla buca per lavorare ancora.
Il
servizio racconterà di come il fiume Birim sia oggi inquinato per
l’arrivo dei tanti minatori per i rifiuti delle attività di
estrazione, mettendo a rischio la vita di oltre 5 mila persone che
vivono lungo le sue sponde. Perché oggi non si possono usare più le
sue acque nemmeno per lavare i vestiti: purtroppo le attività di
estrazione sono uno dei pochi business rimasti, non ci sono
alternative per sopravvivere in questo paese dove si registra il
paradosso di una grande ricchezza di risorse a fianco della profonda
povertà.
A causa dell’inquinamento del fiume le famiglie devono pagare l’acqua che viene presa da un serbatoio oppure, dalle pioggie.
La scheda del servizio: LA COSTA D’ORO
di Valerio Cataldi e Alessandro Spinnato
Il Ghana, prima colonia portoghese e poi inglese, era chiamato Costa d’Oro per la grande quantità di giacimenti presenti. Ancora oggi è il primo paese africano esportatore di quell’oro che arriva anche da noi, in Italia.
Gli inviati di Report sono entrati nel cuore della foresta Atewa, uno dei polmoni verdi più importanti dell’Africa occidentale, circondata da miniere d’oro, scavi per lo più illegali che producono due effetti devastanti: sottraggono, spesso con la forza, le terre alla coltivazione e quindi distruggono l’economia locale e lasciano centinaia di contadini senza terra e senza lavoro; e producono una catastrofe ambientale per l’inquinamento prodotto dal mercurio, quel minerale, che una volta trovavamo nei termometri, che è essenziale per processare l’oro e raffinarlo. Ed è proprio il mercurio che avvelena la terra e soprattutto l’acqua e i fiumi del Ghana, tra i più inquinati al mondo.
Un pugno di esperti, attivisti e giornalisti è impegnato ogni giorno in programmi di informazione ed educazione per aiutare i ghanesi a proteggersi. E proprio la radio è l’architrave del nostro racconto che non può non partire dagli sguardi e dalle voci dei minatori illegali.
La tela di Sgarbi
Diversamente dalla tela di Penelope, che nonostante il passare del tempo, non approdava a nulla, la storia della tela di Sgarbi sta portando sempre più imbarazzo nei confronti del sottosegretario: nei precedenti servizi il giornalista di Report Manuele Bonaccorsi assieme a quello del Fatto Quotidiano avevano raccontato del furto di una tela di Manetti, pochi mesi prima del ritrovamento “per caso” di una tela in un vecchio casale comprato dalla madre del sottosegretario Sgarbi. Si tratta della stessa opera o di due quadri diversi, come sostiene il critico d’arte?
Questa sera Report racconterà del confronto fatto tra il lembo di tela rimasto attaccato alla cornice e una foto in alta definizione del quadro si Sgarbi: le opere sarebbero le stesse.
La
scansione (per conto dello stesso Sgarbi) in HD è stata fatta a
Correggio dalla GLAB del signor Samuele De Pietri, azienda
specializzata in scansioni e in stampe di precisione: nell’opera
che gli viene consegnata appare una fiaccola. Lo stesso
sottosegretario avrebbe molto apprezzato la riproduzione in alta
definizione del quadro, nelle due visite all’azienda di cui
esistono anche dei video.
Lo scanner della GLAB va ad analizzare
tutti i dati significativi del quadro, comprese le crepe sull’opera:
tutto il quadro è pieno di crepature dovute al tempo, escluso il
punto dove si trova la candela. Le crepature dovrebbero mostrarsi
uniformemente in tutta la superficie, ma attorno alla candela
(l’unico particolare in cui differiscono le tele, quella rubata e
quella in possesso del sottosegretario), non ci sono crepe. Non solo,
si vede ancora la pennellata della candela e questo lascerebbe
intendere che fosse stata fatta in tempi più recenti.
Report
ha poi confrontato, sovrapponendole, le due immagini: il quadro di
Sgarbi e quello rubato, fotografato dal restauratore Mingardi, che è
pieno di buchi. Sovrapponendo le immagini – racconta il servizio –
si vede come in coincidenza dei buchi spariscano completamente le
screpolature e si vedono anche i contorni delle toppe. Nell’opera
rubata si vede anche una piega orizzontale, la stessa imperfezione si
trova sulla tela di Sgarbi.
Il
servizio aggiungerà un altro tassello alla storia: alla GLAB, a
partire dalla scansione sulla tela, effettuarono una copia
dell’opera, che però presentava delle imperfezioni, delle righe
perfettamente orizzontali non bene visibili ad occhio nudo. Queste
righe sarebbero presenti anche nel quadro di Sgarbi esposto a Lucca,
come emergebbe da una foto fatta al quadro da un visitatore della
mostra. Se effettivamente la foto è stata scattata a Lucca, questo
dimostrerebbe che il sottosegretario sta esponendo una copia del
quadro – raccontano i due titolari della GLAB a Report.
Venerdì
il giornalista del Fatto Quotidiano Thomas
Mackinson ha pubblicato una anticipazione del servizio:
Il quadro di Manetti “scoperto” da Sgarbi è lo stesso rubato al Castello di Buriasco. Lo suggeriscono un’infinità di dettagli che combaciano, lo confermano gli esperti. Nel 2021 Vittorio Sgarbi mette in mostra a Lucca la “Cattura di San Pietro”, una preziosa tela che presenta come “inedito” di Rutilio Manetti di sua proprietà. Dice di averla trovata nella sua villa di Viterbo “per un colpo di culo”. Il Fatto scopre però che un identico dipinto era stato rubato al Castello nel 2013, e il testo curatoriale della mostra che ne indicava la provenienza faceva acqua da tutte le parti. “Sono diversi, nel mio c’è una candela, l’altro è solo una copia”, replica il sottosegretario. Quello che non dice, però, è che le copie le faceva fare lui. Ma c’è di più. Proprio il confronto tra la scansione utilizzata per quella riproduzione dell’opera e le foto del restauratore cui l’affidò tre mesi dopo il furto, indica con ragionevole certezza che si tratti proprio della stessa: tela, pigmenti, lacerazioni, rattoppi. Ma la prova regina è il frammento rivenuto sul luogo del furto: si incastra “a pennello” nella versione esposta a Lucca. Tutto questo si vedrà nella seconda puntata dell’inchiesta “Il ritratto di Vittorio” realizzata dal Fatto insieme Report, in onda domenica sera su Rai3.
L’indagine riparte da un piccolo laboratorio nella zona industriale di Correggio, mezz’ora d’auto da Reggio Emilia, in grado di sfornare una sorprendente riproduzione su tela della “Cattura di San Pietro”. Una è stata fatta proprio per Vittorio Sgarbi, che utilizzò lo stabilimento come la sua personale “fabbrica dei cloni”. Lo raccontano foto, video e fatture. Eccolo, infatti, Sgarbi che si aggira nel laboratorio tra il vero Rutilio Manetti e la riproduzione fresca di stampa, ne scruta i dettagli con una torcia. Ma che ci faceva lì? Quali altre opere ha riprodotto e a che scopo? E perché ha taciuto tutto questo?
Rimaniamo
in attesa di un chiarimento del ministro che, come vedremo nel
servizio che andrà in onda stasera, ha scelto di non rispondere in
altro modo alle domane, forse farà una sua perizia, ma nel frattempo
ha fatto identificare i due giornalisti alla polizia (perché non vi
conosco.. non avete appuntamento con me, vi caccio a
pedate).
Bonaccorsi e Mackinson sono stati denunciati per
stalking: fare domande e chiedere conto ad un politico su una vicenda
chiara, dove sono state raccontate tante bugie, da oggi è diventato
stalking.
Tutto questo arriva da un governo che, per bocca del presidente della commissione Cultura Mollicone (quello di Peppa Pig) vuole istituire una commissione per la veridicità delle notizie.
La scheda del servizio: IL VALZER DELLA CANDELA
di Manuele Bonaccorsi
Collaborazione Thomas Mackinson
Il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi possiede una preziosa opera del Seicento che risulta simile a una rubata dal castello di Buriasco (Torino) nel 2013. Dopo l'inchiesta, andata in onda a metà dicembre, il noto politico e critico d’arte ha smentito categoricamente: “il dipinto rubato e quello di mia proprietà sono due opere diverse”. Ma Report è entrata in possesso della scansione ad alta risoluzione del dipinto di Sgarbi, effettuata per conto del sottosegretario da un’azienda di Correggio (Reggio Emilia), la GLab. E dall’analisi della scansione a 16k dell’opera emergerebbero prove difficilmente confutabili. L’opera di Sgarbi, esposta a Lucca nel dicembre 2021 e quella trafugata - consegnata al restauratore Gianfranco Mingardi nel 2013 - sarebbero la stessa opera. Non solo: anche un frammento ritrovato al castello di Buriasco, rimasto incastrato nella cornice dopo il furto, dimostrerebbe che il dipinto rubato e quello restaurato coincidono. L’unica differenza visibile con l’opera rubata è una fiaccola in alto a sinistra, presente nell’opera di Sgarbi. La scansione, visionata da esperti di altissimo livello, dimostrerebbe che sarebbe stata aggiunta in un secondo momento, in quanto l'area è priva delle crepe tipiche di un dipinto vecchio. Toccherà ora ai Carabinieri del Nucleo di Tutela, che da settimane indagano sulla vicenda, trovare e visionare l’opera per chiarire in modo inconfutabile se un sottosegretario alla Cultura abbia o meno nella sua collezione un’opera d’arte rubata.
Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.
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