Una buona parte delle dei deportati moriva nei primi giorni perché non conosceva alcuna parola del tedesco parlato dalle guardie, coi loro ordini urlati in faccia.
Nessuno ti spiegava cosa dovevi fare, cosa i guardiani si aspettavano da te: il linguaggio era un problema principalmente per gli italiani, specie quelli catturati dopo il 1943, Primo Levi ricorda in uno dei capitoli de I sommersi e i salvati quanto per lui sia stato fondamentale per sopravvivere avere un minimo di conoscenza del tedesco, grazie ai suoi studi di chimica.
Noi abbiamo vissuto l’incomunicabilità in modo piú radicale. Mi riferisco in specie ai deportati italiani,[..] Per noi italiani, l’urto contro la barriera linguistica è avvenuto drammaticamente già prima della deportazione..
Ma anche superati i primi giorni, all'interno delle baracche, sui luoghi di lavoro, non c'era alcuna forma di comunicazione "civile" tra i deportati.
Si imparavano a memoria il proprio numero, quello tatuato sul braccio, il numero della persona prima di te nella fila per il rancio, per non perdere il posto.
Anche l'assenza di qualsiasi forma di comunicazione, il passaggio ad un linguaggio "da animali" è stato un altro passaggio verso l'abbrutimento dell'uomo.
Nessuna forma di comunicazione, di discussione, la fine dell'uomo come essere pensante.
Tutto questo si ricollega ad un altro tema, che chi ha letto Orwell ha ben compreso: nelle dittature si tende a ridurre l'espressività del linguaggio, il ragionamento deve essere binario, senza sfumature, senza alcuna concessione alla complessità del mondo.
Da qui l'osservazione che fa Levi: quando muore per inedia la discussione, dilaga l’ignoranza delle opinioni altrui, trionfano le opinioni imposte
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