25 dicembre 2024

Il sequestro e la morte di Aldo Moro di Paolo Morando


Sono sempre stato interessato dalle uscite di nuovi libri sul sequestro e sulla morte del segretario della DC Aldo Moro: come scrisse lo storico De Lutiis (autore del libro “Il golpe di via Fani”, titolo non casuale), quanto avvenuto in quei 55 giorni tra il sequesto in via Fani, il 16 marzo del 1978 e la sua morte per mano delle BR il 9 maggio, rappresenta un momento centrale della nostra storia politica. Il declino della prima repubblica, culminato poi con mani pulite iniziò quella mattina.

Per questo ho voluto leggere quest’ultimo “Il sequestro e la morte di Aldo Moro”, primo volume di una serie dedicata al terrorismo italiano del Corriere della Sera, scritto da Paolo Morando, giornalista e scrittore che recentemente ha pubblicato per Feltrinelli un libro sulla strage di Bologna (“La strage di Bologna, Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito”, ancora una volta un titolo non casuale).

In queste 160 pagine non troverete che una sintesi di quanto già raccontato in altri voluminosi libri: l’autore ha fatto però una scelta, secondo me azzeccata, nel voler dedicare la prima parte del racconto a come si è arrivati a quel 16 marzo: quel 16 marzo Moro si stava recando in Parlamento dove si sarebbe svolta la discussione per la fiducia ad un nuovo governo, a cui il Partito Comunista di Berlinguer avrebbe dovuto dare la sua fiducia.

Tutto venne interrotto dal rapimento del presidente e dalla strage dei membri della sua scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti.

Come si era arrivati a quell’avvicinamento tra i due grandi partiti di massa della prima repubblica, la DC e il PCI? Cosa aveva spinto la DC, il partito designato a governare l’Italia da Jalta e dagli accordi con gli alleati dopo la seconda guerra mondiale (come fece ininterrottamente fino al 1992) a stringere un accordo col più grande partito comunista dell’Europa occidentale?
C’era stato il golpe in Cile, racconta Paolo Morando e l’intuizione di Berlinguer, già segretario del PCI nel 1973 che al suo partito, sebbene in crescita nelle elezioni, non sarebbe mai stato concesso di arrivare al governo da solo. Affidò i suoi pensieri, e i suoi timori, ad una serie di articoli pubblicati su Rinascita e anche nel corso di discorsi pubblici:

È chiaro che noi comunisti abbiamo sempre lavorato e lavoreremo per accrescere la forza elettorale delle sinistre. Puntare alla conquista massima dei voti alle sinistre (51 per cento e anche di più!) rientra fra gli obiettivi che anche noi perseguiamo.

La nostra critica quindi non è diretta contro la conquista del 51 per cento in sé e per sé, bensì contro una duplice illusione.

La prima illusione è quella di affidare la soluzione dei problemi italiani a una maggioranza di sinistra da raggiungersi essenzialmente per via elettorale, sommando le percentuali via via ottenute, di elezione in ele­zione, dalle varie liste di sinistra, e non anche attraverso la lotta di classe, le lotte di massa sociali e politiche, le iniziati­ve concrete volte a spostare, nel paese e nella società (e poi, quindi, nelle urne e nel Parlamento), i rapporti di forza reali a favore delle sinistre.

Ecco il “compromesso storico”, l’avvicinamento a quella DC che anni di governo, di lotta interna tra le correnti, di scandali anche, avevano in parte logorato.

Attenzione, ricorda Morando, l’idea di Moro non era quella di far entrare al governo i comunisti, ma di renderli partecipi delle scelte di maggioranza, con l’idea anche di fermare la loro crescita. Di fatto, tutti i ministri del nascente governo Andreotti IV erano stati scelti centellinando il peso delle correnti DC, nessuno dei tecnici di area della sinistra inizialmente candidati, erano stati nominati. Cosa che aveva irritato notevolmente Berlinguer, a cui questa notizia era arrivata solo all’ultimo momento.
Le BR, il partito armato nato a sinistra del PCI, a cui la strage di Piazza Fontana, l’illusione del boom economico (che boom non era stato per tutti gli italiani), aveva rafforzato l’idea di uno stato che si abbatte e non si cambia dal suo interno, avevano individuato in Moro l’emblema del “potere” da processare nel carcere del popolo.

Aldo Moro, per usare le parole di Pasolini scritte nel 1975 prima di essere a sua volta ucciso, era sì il meno implicato negli scandali e nelle ruberie, ma era comunque l’uomo degli omissis: quelli che avevano silenziato la vicenda del piano Solo, il tintinnar di sciabole durante l’esperienza dei governi di centro sinistra col PSI di Nenni.

Come anche il diniego alla magistratura che chiedeva informazioni su Guido Giannettini, il giornalista che era anche agente del SID che si riteneva fosse coinvolto nella strage di Milano del dicembre 1969 (ma poi ci pensò Andreotti a togliere il segreto su Giannettini, con una delle sue mosse spregiudicate).

Le BR non erano più quelle dei colpi mordi e fuggi, dei volantinaggi e dei sabotaggi, dei sequestri lampo: nel 1974 c’erano già stati i primi morti, i due esponenti missini padovani, Giralucci e Mazzola. Due morti che Curcio, uno dei fondatori, definì un “disastro politico”.
Il 1977 era stato l’anno del piombo, dei morti per strada, delle gambizzazioni, dell’attacco al cuore dello Stato: lo aveva annunciato, a voler fare un po’ di dietrologia, il generale Miceli al giudice Tamburino (che stava indagando sull’organizzazione golpista Rosa dei Venti a Padova, struttura creata in ambito Gladio in funzione anticomunista), “D'ora in poi non sentirete più parlare del terrorismo di destra, ma soltanto degli altri”.
Gli altri erano le BR che, nell’inverno primavera del 1978, scelsero Aldo Moro come obiettivo da colpire.

Meno azzeccata ma comunque interessante, a mio modesto avviso, la seconda parte, dove l’autore si dedica al sequestro, agli avvenimenti (non ancora del tutto chiariti) di quei 55 giorni nella prigione del popolo culminati col cadavere del presidente lasciato nel centro di Roma, in via Caetani.
Qui l’autore ha cercato di smitizzare il “caso Moro”, come è stata definita questa dolorosa vicenda, smontando tutti punti aperti che poi hanno portato alle varie teorie che, partendo dai buchi della versione ufficiale (tra l’altro basata sul racconto dei terroristi), hanno cercato di arrivare ad una diversa ricostruzione dei fatti.
Nemmeno io voglio seguire la strada del complottismo, ma la verità storica che si è consolidata oggi è frutto dei vari processi celebrati, culminati con condanne all’ergastolo. Verità che si basa però sulla ricostruzione, non sempre verificata, fatta dagli stessi brigatisti nelle deposizione e nel famoso memoriale Morucci – Faranda. Memoriale fatto arrivare al presidente Cossiga nel 1990, all’indomani del crollo del Muro.

Possiamo fidarci di quanto raccontano, anche considerando che nessuno degli esponenti di quelle BR si è mai pentito? Alcuni hanno fatto un percorso di dissociazione, solo Moretti ha scelto non collaborare né dissociarsi.

Lo stesso Moretti, che dopo la cattura di Franceschini e Curcio, divenne il capo delle BR, in una intervista a Bocca si lamentò “l’Italia ufficiale non si è mai rassegnata ad ammettere che l’azione era stata progettata da quattro operaiacci”.

Ecco, come è possibile che quattro operaiacci (le cui armi automatiche si erano pure inceppate quella mattina) hanno organizzato e gestito un sequestro lampo da soli?

Intendo, quell’operazione militare in cui hanno sterminato poliziotti e carabinieri addestrati, hanno potuto muoversi lasciando i loro comunicati in giro per Roma, in una Roma blindata coi posti di blocco per le strade?
Morando riporta poi ricostruzioni fatte da Paolo Persichetti, ex brigatista, che riprende dichiarazioni di Antonio Savasta, altro esponente del terrorismo, ma nessuno dei due era presente in via Fani.

C’erano altri osservatori sopra o attorno alle BR?

C’è ancora qualcosa da chiarire oppure e tutto limpido e trasparente?

Mi riferisco ad alcuni aspetti specifici, già documentati in altri libri, come ad esempio “Complici il patto segreto tra DC e BR” di Stefania Limiti e Sandro Provvisionato, dove si ipotizza un patto tra i brigatisti e i vertici della DC per concordare una verità di comodo

- l’auto dei servizi parcheggiata in via Fani all’incrocio in via Stresa

- il covo di Moretti in via Gradoli, scoperto per una infiltrazione d’acqua perché, così viene spiegato nel libro, Barbara Balzerani avrebbe lasciato la doccia aperta (possibile?)

- il falso comunicato numero 7, fatto da Toni Cucchiarelli: un messaggio alle BR da parte di pezzi dello Stato (lo stesso giorno della scoperta del covo di via Gradoli, in uno stabile dove molti appartamenti erano di proprietà di una società riconducibile al Sisde)

- la dinamica dell’agguato: se tutti i colpi sono venuti da sinistra, da dove sparavano le BR, come mai Leonardo, il capo scorta, con anni di esperienza, non è uscito dalla macchina per rispondere al fuoco?

- c’è poi tutto il tema degli scritti di Moro: le BR aveva dichiarato in uno dei primi comunicati, che tutto il materiale raccolto dall’interrogatorio di Aldo Moro, sarebbe stato pubblicato. Come mai poi hanno scelto di agire diversamente?

- Il memoriale trovato in via Monte Nevoso: ancora una volta, come è possibile che dopo la prima perquisizione fatta ad ottobre 1978 nel covo di Milano (vicino alla casa di Fausto Tinelli, un ragazzo ucciso assieme all’amico Lorenzo Jannucci “Iaio” da assassini rimasti sconosciuti, il suo omicidio fu poi citato in un altro comunicato delle BR), i carabinieri di Dalla Chiesa si siano persi quel tramezzo dove poi, nel 1990, è stato poi recuperato il memoriale di Moro (fotocopie di lettere e degli interrogatori fatti nel carcere)

- Il cadavere fatto ritrovare in via Fani: se è impossibile, come scrive l’autore, che le BR abbiamo cambiato più volte la prigionia di Moro per non essere scoperti, è altrettanti difficile accettare che, in quel 9 maggio 1978, abbiano attraversato Roma con una R4 con dentro un cadavere.

- totalmente assente nel racconto, il ruolo di Pieczenick (il consulente del Dipartimento di Stato a supporto della commissione del Viminale), la presenza della P2 nei vertici dei servizi..

Ben vengano, in ogni caso e comunque la si pensi, libri come questo che cercano di raccontare quegli eventi così importanti, anche con una luce diversa (che vanno anche a ribattere alle dichiarazioni “ballerine” dell’ex ministro Signorile, al centro di un servizio di Report che ha fatto molto discutere). Quello che conta e non rassegnarsi all’oblio: non è dietrologia, o quanto meno non è solo quello, che ci deve spingere a voler cercare altre strade per comprendere cosa è successo.

Cosa è successo nell’Italia in cui il mondo era diviso in blocchi, dove le decisioni sulla nostra politica (e anche sulla linea della fermezza, che portò alla morte di Moro) venivano prese anche fuori dall’Italia, dove la nostra democrazia era a sovranità limitata.

Una democrazia dove la sorte di Moro era al centro di altri tavoli, non solo quello delle BR.

Non creda la DC di avere chiuso il suo problema, liquidando Moro. lo ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della DC si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito.

Aldo Moro, lettera al segretario della DC Benigno Zaccagnini, recapitata il 24 aprile 1978

La scheda del libro sul sito di RCS dove potete trovare gli altri libri della collana sul terrorismo italiano.


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