Me lo ricordo, quel giorno. Anche se ero molto piccola me lo ricordo benissimo, come fosse adesso. Come se ancora piovesse forte, come chissà ancora dalle finestre socchiuse entrasse l'odore della terra bagnata e delle galline.
Come se ancora sentissi le donne che, chiacchierando, sussurravano come fossero in chiesa.
Come se ancora ci fosse quel grosso moscone che cercava la strada per l'esterno, picchiando sulla lastra e, istupidito dalle testate, provando a capire perché gli alberi le foglie flagellate dall'acqua, che furono erano lì davanti, fossero invece per lui irraggiungibili.
Me lo ricordo bene quel giorno. Anzi credo sia il primo vero ricordo che ho, preceduto da lampi che forse ho soltanto immaginato.
Eccoci arrivati a dove, da lettori appassionati di Maurizio De Giovanni e del commissario Ricciardi, non avremmo mai voluto arrivare, all’ultimo capitolo della serie dove abbiamo visto il nostro commissario con quegli occhi verdi così enigmatici passare attraverso le quattro stagioni, poi le stagioni del cuore per abbattere quel muro che si era costruito attorno per impedirsi di amare. Come posso stare accanto ad una persona, io che ho questo maledetto dono, il “fatto” come lo chiamava, ovvero il vedere gli ultimi istanti di vita dei morti.
Dovrei ricordare i primi morti che ho incontrato, che hanno popolo gli incubi di un giovane che credeva di essere pazzo. Un giovane che mai avrebbe immaginato di condividere la propria follia con qualcuno e, invece, come sai, alla fine lo ha fatto, scoprendo che nessun peso è così schiacciante da non poter trovare conforto nella dolcezza di chi ama.
Invece l’amore, quello che “quando arriva arriva” e che invece nel caso di Ricciardi e di Enrica, la dolce ragazza che ha amato sin dal momento che l’ha vista dalla finestra della sua camera, ha fatto fatica a crescere, ha vinto anche quel dolore che si portava dietro.
Sin da quando, era ancora un bambino di sei anni nella sua casa in Cilento, a Fortino, aveva conosciuto per la prima volta il “fatto”. Un uomo ucciso con un colpo di pugnale dentro la vigna dei baroni di Malomonte che ripeteva quella parole “perdio, nemmeno l’ho toccata la tua donna..”
In quest’ultimo romanzo, Maurizio De Giovanni fa compiere al suo personaggio la sua ultima indagine, proprio a Fortino, questo paese del basso Cilento, tra Campania e Basilicata: un’indagine alla radice del proprio male.
Ma come mai Ricciardi si trova a Fortino: siamo nel luglio del 1940 e l’Italia ha dichiarato guerra alle democrazie occidentali, perché l’ora del destino era scattata. Così aveva gridato alla folla plaudente il dittatore bravo a soggiogare gli italiani tirando fuori le glorie dell’antica Roma.
Quelle poche centinaia di morti, per sedersi poi al tavolo della pace si erano tradotti anche in sempre più fame e miseria per quel popolo che della guerra non aveva alcun interesse, già ne aveva di problemi. Ma aveva portato, sin dalle maledette leggi razziali, anche una cattiva aria per le persone di religione ebraica.
Ecco perché, per tutelare i genitori di Enrica, morta nel parto della piccola Marta, Ricciardi ha deciso di trasferire tutta la sua famiglia nel suo paesino, al riparo dalle brutture del mondo.
Ricciardi, i genitori di Enrica, e poi Nelide, la domestica che ha preso il posto della tata Rosa nel sorvegliare il piccolo barone prima e ora la baroncina Marta.
Una bambina intelligente, con un suo dono, non la maledizione del padre per fortuna: una bambina che qui a Fortino passa le ore assieme ad una anziana donna, zi Filumena, la sorella di Rosa
Era una donna assai anziana, appollaiata su una sedia ben piantata nel terreno. La testa avvolta in un fazzoletto, teneva il capo chino su un recipiente in cui finivano i fagioli che sbucciava rapida, prendendoli da una cesta poggiata ai suoi piedi. I gesti veloci e precisi avevano un effetto ipnotico, e Marta era rimasta a guardare a bocca aperta senza che la vecchia avesse mostrasse di aver notato la sua presenza.
Mentre Ricciardi comincia la sua indagine per quel morto, che l’ha ossessionato sin da piccolo, a Napoli sono rimasti gli altri protagonisti della storia.
Come il dottor Modo, non più medico nel suo ospedale ma solo attento osservatore di questo regime e della sua violenza: a lui, gli annunci trionfali sulla guerra hanno fatto venire in mente altri ricordi, della precedente guerra. Dove altri ragazzi, studenti, contadini, operai, furono mandati al massacro per conquistare un lembo di terra di cui nemmeno sapevano darne indicazione sulla cartina.
Moriranno figli, padri, fratelli e mariti in fronti lontani. Io lo so, l'ho già visto accadere. E vi porteranno la morte e la distruzione fin qui, proprio per il vostro bel porto, uno degli obiettivi strategici più importanti. Ma prima, e vedrete anche questo, diventerete sempre più poveri e affamati, perderete la dignità per la disperazione di sopravvivere, come i topi che infestano le vie e le case.
L'irritazione che provava per l'adesione ottusa e fiduciosa al regime lo spingeva a domandarsi il motivo di tanta affannarsi per cercare di salvarli. Valeva davvero la pena di rischiare la libertà, e forse persino la vita, contro quel maledetto piano inclinato che sembrava condurre un destino inevitabile?
Bisogna fare qualcosa e tocca a lui farlo, senza una moglie, una compagna, dei figli. Senza nemmeno più l’amicizia di Ricciardi andato via a Fortino. Tocca a lui compiere quel gesto dimostrativo per risvegliare le coscienze sopite degli italiani.
Ma a quale prezzo?
Anche Maione è rimasto a Napoli: come Modo, pure il brigadiere si sente straniero in questa città, nel proprio quartiere, perfino nella propria famiglia dove l’indottrinamento del regime fascista ha trasformato quelli che sono poco più che bambini nei giovani combattenti di domani.
Anche lui, come Ricciardi a decine di km di distanza, si troverà però a dover portare avanti una sua azione personale, con l’aiuto di Bambinella.
E Laura, ovvero Livia, partita da Napoli per lasciarsi alle spalle quegli occhi verdi che l’avevano fatta innamorare? Per lei è arrivato il momento di tornare. Come nei versi della canzone di Carlos Gardel e Alfredo Le Pera, Volver, anche la sia di anima è “aferrada”, aggrappata ad un dolce ricordo che non poteva cancellare.
L’indagine di Ricciardi, questa volta non in veste di poliziotto, lo metterà di fronte ad una storia del passato di cui ancora in tanti nel paese hanno memoria. Ma di cui pochi ne vogliono parlare, dal vecchio medico del paese, amico di famiglia, fino al maresciallo che condusse le frettolose indagini.
Cosa nasconde quell’omicidio? Come mai il morto, in sogno, gli chiede giustizia?
Nel sogno aspettò che gli parlasse, che gli dicesse come allora: perdio, non l’ho nemmeno toccata la tua donna. E invece l’uomo lo fissò con lo sguardo vuoto e gli disse: ti sembra giusto? Tutti quei morti ammazzati, e io ancora senza giustizia?
Giustizia per quel morto, a cui Ricciardi riesce a dare un nome e un cognome.
Ma giustizia anche per la sua coscienza, per il piccolo Luigi Alfredo Ricciardi:
Tutti quei morti ammazzati, e io ancora senza giustizia. Non era lui, a parlare. Era la coscienza stessa di Ricciardi. Era il commissario a chiedere giustizia. A voler sapere perché il piccolo Luigi Alfredo, un bambino di appena sei anni ignaro dei mali degli uomini, delle nebbie nere delle passioni e degli effetti che esse avevano sulle esistenze, aveva dovuto essere testimone di una sofferenza cieca e inaudita.
Ancora una volta, sperando non sia l’ultima, De Giovanni riesce a mettere assieme una storia che è allo stesso tempo dolce e tragica, dove si parla di fame, di odio e di amore, quello che “quando arriva, arriva”, anche tra persone che più distanti non potrebbero essere.
Si parla della ottusa violenza del fascismo e dell’atteggiamento di assuefazione, quasi rassegnazione, della povera gente, quella dei bassi, alle prese col problema di riempirsi la pancia ogni sera.
Il libro termina con la parola illusione e allora, per noi lettore, non rimane che l’illusione di un ritorno, un giorno, di Ricciardi. Chissà ..
La scheda del libro sul sito di Einaudi
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