Viviamo tutti in riva al mare dicono le due biologhe marine Mariella Raisotto e Laura Airoldi, intervistate da Marco Paolini nella scorsa puntata de La fabbrica del mondo.
Significa che se alteriamo il mare le alterazioni le ripaghiamo anche noi che viviamo in città: perché stiamo avvelenando le falde, come successo in Veneto con l'avvelenamento col PFAS.
Perché la nostra rete idrica è un colabrodo, perde il 40% dell'acqua immessa, con un costo per l'ambiente e un costo per noi cittadini.
Perché tutta la plastica che gettiamo nel mare, nell'ambiente, poi forma quella “zuppa di plastica” di cui parla l'esploratore Alex Bellini, che sta distruggendo l'ecosistema marino.
Significa minore biodiversità, tra le altre cose e la biodiversità delle specie vuol dire essere meno protetti dai virus.
Siamo i secondi consumatori al mondo di acqua in bottiglia, eppure l'acqua dei nostri rubinetti è quasi ovunque buona: cosa stiamo facendo per ridurre l'impatto della plastica sui mari?
Di questo passo, lo raccontava sempre la trasmissione di Paolini e Telmo Pievani, nel 2050 in mare avremo più plastica che pesci.
Dobbiamo convincerci che ogni cosa che facciamo, ogni scelta deve essere fatta in modo sostenibile, pensando all'ambiente di domani e alle persone che lo abiteranno domani: è quel rispetto della natura, di cui facciamo parte, di cui parlava la biologa Barbara Mazzorai, che sta lavorando ad un progetto di robot ispirati alle piante.
Eppure per muoverci, noi, i nostri governi, serve una emozione, serve uno scossone: c'è voluto il crollo del ponte di Genova affinché Anas (e le società in concessione) iniziassero a fare in modo sistematico le verifiche sulla rete autostradale e sui ponti perché “senza emozione, il cda non si preoccupa della manutenzione” - la battuta di Paolini, dove ogni riferimento ai Benetton non è casuale.
Degli inquinanti chimici con cui stiamo appestando l'ambiente non sappiamo ancora abbastanza, come sapevamo poco tanti anni fa degli effetti malevoli del DDT, irrorato sulle persone e nelle campagne per anni, prima che si scoprisse la sua potenziale cancerogenicità.
Questi cocktail finiscono poi nel mare, dalle acque di scarico delle industrie poi gettate nei fiumi, dalle acque reflue: il mare sembra sempre uguale, ma sotto la superficie le cose cambiano e gli impatti li pagheremo tutti.
Siamo tutti in riva al mare, ci ha insegnato la scorsa puntata de La fabbrica del mondo: dobbiamo essere tutti consapevoli di cosa si rischia quando un ghiacciaio si scioglie (il funerale dei ghiacciai di cui ha parlato lo scrittore Andrei Magnason), quando un fiume si avvelena, quando ci cementificano le coste, quando si continua ad autorizzare la pesca a strascico.
Eppure questi cambiamenti non fanno rumore, perché non provocano emozioni, perché vengono raccontati in modo asettico, perché si parla di date molto in la con gli anni.
Ci stiamo adattando a questi cambiamenti, le temperature che salgono nel mare e nell'aria, gli eventi meteorologici disastrosi, le montagne che perdono i ghiacciai, i campi coltivati avvelenati dai fanghi industriali.
Ma non è normale: non siamo in guerra, la metafora della guerra non va bene a spiegare quello che sta succedendo, nessuno ci ha dichiarato guerra, nemmeno il virus della SarsCov2. La guerra, semmai, l'abbiamo iniziata noi.
Dobbiamo ascoltare quello che dicono gli scienziati e iniziare ad affrontare questi temi da adulti, non da persone che hanno bisogno della “scossa emotiva”.
L'agenda del 2030 riporta degli obiettivi ambiziosi ma importanti, perdere questo treno vorrebbe dire perdere questo pianeta: dobbiamo riuscirci “o con le buone o con le cattive” .
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