20 ottobre 2023

L'artiglio del tempo, di Anna Vera Viva

 


PROLOGO

Napoli, 24 aprile 1943

Il suono delle sirene fu quasi contemporaneo al boato del primo ordigno che cadde al suolo. Vicino, così vicino che il tremare della terra li fece vacillare.
Samuele aveva appena smesso di baciarla e allentato il suo abbraccio. Miryam restò così, sospesa in un attimo che sapeva ancora delle sue labbra e di paura, stordita e immobile.
Sentì una mano che l’afferrava e uno strattone che la costringeva a correre.
Dov’erano, dove si erano fermati? Il mare, erano vicini al mare. Ma da quale lato?
Qual era il rifugio più vicino? Aveva la mente annebbiata e, mentre correva, non vedeva altro che immagini sfocate, sconosciute. Ma era il suo quartiere, doveva esserlo, non avevano camminato tanto.

Intorno a lei, grida, respiri affannosi, a volte uno strano silenzio.
La decisione con cui Samuele quasi la trascinava la confortò. Lui sapeva dove stavano andando.
Correvano tutti, come un gregge impazzito. Ognuno inseguendo la propria speranza di salvezza. Urtarono contro una massa di persone che si accalcava all’ingresso del rifugio. Li riconobbe pur non conoscendoli: madri livide, neonati al seno, bambini irrequieti e curiosi. Fagotti col cibo, abiti approssimativi, coperte sottobraccio, gavette con i residui del pasto interrotto. Tutti abituati, eppure colti alla sprovvista. L’umanità da esodo che incontrava ogni volta.

Questo secondo romanzo di Anna Vera Viva conferma tutte le buone impressioni che mi aveva lasciato il suo primo romanzo, come quest'ultimo ambientato nel rione Sanità di Napoli, la "Terraferma al centro del mare" con protagonista il prete investigatore don Raffaele Annunziata.

Dentro le pagine di questo romanzo si sente l'eco dei romanzo di Maurizio De Giovanni, l'odio, l'amore e tutte le passioni che si sentono vibrare per i vicoli di Napoli. Ma, anche di Luciano De Crescenzo, altro figlio illustre di Napoli, di cui si coglie un riferimento, volontario o meno, nella storia di Samuele Serravalle, il personaggio al centro di tutta la storia.
Specie per chi come me ha letto “Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”, si coglie una forte similitudine tra le storie raccontate dallo scrittore filosofo e la vita di questa persona, figlia di un guantaio che è costretto ad abbandonare la città per le bombe che gli alleati scaricavano sulla città nell'estate del 1943.

Come in “Questioni di Sangue”, anche in questo secondo c’è un delitto: ma questo è come una porta che ci porta indietro nel tempo, per raccontarci fatti avvenuti negli anni tragici alla fine della seconda guerra mondiale in Italia.
Gli anni in cui in Italia vengono approvate le leggi a difesa della razza che misero le persone ebree ai magini della società. Sono gli anni in cui, dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione nazista dell’Italia, iniziano i rastrellamenti delle persone ebree, anche a Roma considerata ipocritamente città aperta, dove nell’ottobre del 1943 squadre di SS e di repubblichini circondarono il ghetto catturando più di mille persone, che furono poi spedite ad Auschwitz. Dei mille e ventitre deportati, solo 16 sopravvissero e tornarono in Italia, segnati per sempre da quella tragedia, da quello che avevano visto e subito.
L’annientamento della dignità umana, vivere o morire a seconda del capriccio della persona che ti stava davanti, l’essere ariano.

Samuele Serravalle era uno di loro: non finì ad Auschwitz perché catturato durante il rastrellamento, ma fu catturato a seguito della delazione di un traditore, un italiano che per 5000 lire vendeva la vita delle persone ai nazifascisti.

Il viaggio. Quello che Samuele Serravalle era costretto a rivivere in tutti i suoi incubi era il viaggio. E nonostante fosse stato superato in orrore da una miriade di avvenimenti che gli erano succeduti, pareva il più profondamente incastrato nella sua anima

[..] La mano stretta a quella di Miryam, gli occhi che cercano risposte ignote a tutti, il vagone che apre le fauci per inghiottirli. E un nome dipinto su un cartone, Auschwitz, senza significato.

Tornato a casa, dopo aver perso tutto, la famiglia, la fidanzata Miryam, passata subito per il camino il giorno dell’arrivo, avendo perso anche l’azienda di famiglia (perché data in gestione a dei prestanome italiani che poi ne hanno approfittato), Samuele è tornato in Italia senza riuscire a raccontare a nessuno di quello che ha vissuto. Nemmeno ai figli.

Soltanto ad un ragazzino, Antonino, Samuele ha raccontato la sua storia: assieme hanno passato delle giornate intere nel negozio di cappelli e guanti, dove ormai nessuno mette più piede (chi usa più i cappelli? Solo le persone veramente eleganti), a parlare di quanto successo agli ebrei. Della dignità persa.

Ad un incontro sull’Olocausto, a cui Samuele deve partecipare, seppur riluttante, succede un fatto strano: all’improvviso, appena entrati nella sala. qualcosa o qualcuno turba a tal punto l’anziano guantaio tanto da farlo gridare

«Non è possibile!» continuava a urlare il vecchio. «Non è possibile», e delirava parole incomprensibili. «E’ lui. E’ lui» e borbottii insensati, poi «Miryam. Miryam».

Il giorno successivo, il signor Samuele Serravalle, viene trovato morto nel suo negozio dalla domestica che era venuta a fare le pulizie nella casa.
Un malore, secondo il medico chiamato dalla famiglia. Ma qualcuno non è d’accordo: si tratta di Antonino, forse l’unico amico di Samuele, sicuramente la persona con cui era più in confidenza, forse perché certe storie terribili per essere comprese devono essere raccontate saltando una generazione..

Antonino è certo che si tratti di un omicidio, Samuele non l’avrebbe mai lasciato così, senza dargli un saluto e poi il giorno prima era arrabbiato. Gli aveva chiesto di leggergli dei vecchi articoli dove si parlava di quel traditore che l’aveva venduto ai tedeschi. E così, Antonino chiede aiuto all’unica persona nel rione di cui può fidarsi, quel prete alto e grosso che in un incontro ha detto a tutti i ragazzini presenti che non bisogna rassegnarsi all’ingiustizia.

«Sam è morto», disse soltanto, e i lacrimoni si liberarono per tutto il viso. Assuntina si precipitò ad abbracciarlo mentre Raffaele lo guardava inquieto.

Inizia così, per l’ostinazione di un bambino che diventa poi quella del parroco di Santa Maria alla Sanità, o Monacone, un’indagine nel tempo passato, andando ad ascoltare i pochi superstiti della persecuzione ebraica ancora in vita, i parenti di Samuele, le persone presenti a quel convegno dove Samuele aveva visto qualcosa che lo aveva turbato nel profondo.

«Una vicenda orrenda», disse poi, «che c’insegna una cosa però: gli strascichi della storia hanno tentacoli lunghi.»

Strano investigatore questo don Raffaele e anche strano prete: uno di quelli che interpreta la sua missione pastorale in un modo molto personale, andando anche oltre le regole, pur di raggiungere i suoi obiettivi. Forse dentro scorre il sangue degli Annunziata, lo stesso del fratello Peppino, piccolo boss della “bassa Camorra”, un uomo capace di ordinare delitti contro i suoi nemici ma con un suo codice etico. Erano fratelli Raffaele e Giuseppe: sono stati separati tanti anni prima dopo la morte della madre, Raffaele portato via dagli assistenti sociali, adottato da una famiglia che gli ha voluto bene. Peppino passo dopo passo, costruendosi una posizione dentro la criminalità.

Era un uomo che s’impegnava, come meglio poteva, a svolgere una missione che riteneva importante. Completamente sicuro che la strada fosse quella giusta, ma molto meno convinto di essere, lui, giusto per quella strada.

Ma il motivo per cui vale davvero la pena leggersi questo libro è il racconto della storia di Samuele, che è poi la STORIA di tanti, come lui perseguitati perché considerati inferiori.
Quanto vale la dignità di una persona? - questa è la domanda che consentirà ai nostri investigatori, un prete, un ragazzino troppo piccolo per comprendere l’odio razziale e una perpetua forse un po’ impicciona ma col cuore grande, di risolvere il caso.
Quella dignità che ottanta anni fa, in questo paese come nel resto dell’Europa, degli uomini si arrogavano il diritto di strappare ad altre persone: persone strappate dalle loro case, depredate dei loro beni, messi su treni come bestie, anzi, come “cose”.
Persone destinate ad essere sfruttate, umiliate, uccise, secondo una selezione macabra che a volte era perfino lasciata al caso

«.. a un certo punto in quel campo incominciò un nuovo tipo di selezione», riprese l’uomo, «sbrigativa, diciamo. Una specie di roulette russa, all’insaputa dei prigionieri. Così, a volte, quando arrivava il treno con il suo carico di deportati, i soldati sceglievano un lato dei vagoni e si piazzavano lì. Una volta aperte le porte, tutti quelli che scendevano da quella parte erano immediatamente falcidiati con i mitra..»

Un giallo, dunque, un romanzo che parla della Storia, la storia della Shoà in Italia, dei tanti piccoli eroismi di quanti cercarono di salvare comunque le persone ebree, facendo la scelta giusta. E dei tanti che preferirono non vedere il male, per codardia, per ignavia. O forse perché i napoletani, abituati a tante dominazioni, sono disposti ad accettare di tutti, “Basta ca ce fanno sta’ quieti”. Quieti fino alla 4 giornate di Napoli, quando il popolo partenopeo, studenti, operai, scugnizzi, tutti scesero in strada per cacciare i tedeschi.
Ma è anche la storia di un uomo che per tanti anni si è portato dentro quel grande dolore per essere sopravvissuto al suo amore.

Camminava, e ogni passo cedeva il suo coraggio al terreno gelato. Odiava Dio per quello che provava, per quel vergognoso senso di salvezza. Quei sentimenti vili erano la violenza suprema che gli veniva inflitta. Sapeva che il peso che si stava addossando era per sempre.
Quegli occhi gli bruciavano la schiena.
Camminava. Ed era già dannato.
Non si era mai voltato.

La scheda del libro sul sito di Garzanti

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