08 ottobre 2014

Io, killer mancato: Il giornalista cresciuto con i mafiosi, di Francesco Viviano

"Il giornalista cresciuto con i mafiosi"


Era il 26 marzo 1966, avevo compiuto da poco diciassette anni ed ero lì in via Buonriposo con quel ferrovecchio in mano per uccidere l’uomo che nel 1950 aveva ammazzato mio padre”.
Francesco Viviano, giornalista di punta di Repubblica, racconta in questo libro la sua storia: quella di un ragazzo che, cresciuto in un quartiere di periferia a Palermo, l’Albergheria, è stato capace di ribaltare un destino che sembrava segnato, studiare da autodidatta e diventare il grande giornalista che è, autore di scoop incredibili sulla mafia, sull'immigrazione e sui casi di cronaca giudiziaria per il suo giornale.
È la storia del ragazzino che aveva preso il nome del nonno paterno, che era rimasto orfano del padre ad un anno, e che viveva in quell'unica stanza col pavimento in cemento.
Un ragazzino che era rispettato da tutti, non solo perché accompagnato dal nonno, una persona perbene rispettata in tutto il quartiere (“Tutti lo ossequiavano e si rivolgevano a lui per chiedere giustizia per i soprusi subiti”), ma perché Francesco era il «figlio della buonanima».
Come era morto il padre, Francesco lo scoprì molti anni più tardi, quando incontrò dei vecchi amici, che gli raccontarono la verità: il padre era stato sparato alle spalle durante un tentativo di furto ad una pelletteria.
A solo 22 anni. Il padre era un ladro, conosciuto nel quartiere.


L'autore racconta della volontà della madre ad andare avanti da sola a crescere il suo figlio senza l'aiuto dell'uomo che aveva sparato al marito, «Il sangue di mio marito non si vende».
Una donna estremamente determinata e coraggiosa, la signora Enza: per dare un futuro diverso al figlio si trasferisce al Villaggio Ruffini abbandonando la stanza in comune all'Albergheria.
Per far studiare il figlio accetta di lavorare come donna delle pulizie nelle stanze dell'Ansa di Palermo.



Dice Viviano, sul quartiere in cui si era trasferito: “Crescendo cominciai a rendermi conto che esistevano i cosiddetti «uomini d’onore». Al Villaggio Ruffini la loro presenza si percepiva molto di più che all’Albergheria.”
Ma la sua vita ha preso una direzione diversa: mentre gli amici dell'infanzia entrano nel giro grande della criminalità, Francesco trova prima lavoro in un laboratorio e poi come fattorino all'Ansa:
Quando sentivo qualcuno dire che la predisposizione alla delinquenza è genetica mi veniva da strangolarlo. Io ero figlio di un ladro ammazzato a ventidue anni, che andava a rubare per sfamare me e mia madre”.
Il bivio della vita ha portato Francesco ad abbandonare la pistola del nonno con cui avrebbe dovuto uccidere l'assassino del padre, a studiare per prendersi un diploma, ad imparare a battere a macchina, a collaborare con Radiostampa, a collaborare col «Giornale di Sicilia» e a «L’Ora» di Palermo.


Francesco ha conosciuto o visto boss mafiosi del calibro di Michele Greco “il papa”, Gaspare Mutolo, l'amico Totino Micalizzi con cui era cresciuto al Villaggio che era diventato vice di Rosario Riccobono.
Ma anche giornalisti coraggiosi e capaci come Mario Francese, con cui scrisse il primo pezzo sull'omicidio del pretore Ugo Triolo che iniziava così: «Ho sentito al citofono che mio marito moriva».


Viviano ha visto la Palermo del sacco (di Ciancimino, del costruttore Vassallo, del ministro Gioia), della prima guerra di mafia per gli appalti e della seconda guerra da parte dei corleonesi di Riina per prendere il predominio sulle famiglie palermitane dei Bontade - Inzerillo.
Sono gli anni in cui la prima pagina dell'Ora contava i morti per le strade: era il 1982, l'anno orribile in cui furono uccisi Pio La Torre e il prefetto Dalla Chiesa.
Sono gli anni in cui si forma il pool antimafia di Caponnetto, con i giudici Borsellino e Falcone, che Francesco Viviano ha conosciuto di persona: “Incrociavo spesso Borsellino in bici sulla litoranea dell’Addaura, che collega l’Acquasanta con Mondello.”
Mentre Falcone lo conobbe frequentando la piscina dove il giudice nuotava ogni mattina, mentre Francesco accompagnava la madre per delle cure.

Nel corso della sua carriera, prima all'Ansa (dove fu assunto nel 1984) e poi a Repubblica (dal 1998) Viviano è riuscito a piazzare diversi scoop: la morte del collega Mauro De Mauro raccontata dal boss Francesco Di Carlo.
La scomparsa del poliziotto Emanuele Piazza, uno degli agenti assunti dal Sisde per dar la caccia ai latitanti mafiosi e lasciati allo sbaraglio. Le carte del processo Andreotti (con cui litigò con Bolzoni che realizzò un suo articolo con Peppe D'Avanzo).
L'iscrizione nel registro degli indagati del governatore Lombardo, per concorso in mafia.
L'operazione alla prostata di Bernardo Provenzano a Marsiglia.
Le telefonate di Berlusconi all'AGCOM per far chiudere la trasmissione di Santoro, Annozero.
Tutti scoop realizzati grazie alle buone fonti che è riuscito a coltivare negli anni, ma che talvolta gli hanno pure causato dei problemi: per le perquisizioni subite, per le denunce da parte degli interessati, per i mal di pancia che creavano nelle procure quando si rendevano conto che le carte erano uscite all'esterno.
E' il mestiere del giornalista bellezza, e tu non puoi farci niente.



Ad emergere chiaramente dalle pagine del libro e il clima che si respira (e si respirava) a Palermo: un mondo dove il confine tra buoni e cattivi era molto labile, perché era molto facile ritrovarsi a fianco di mafiosi o di amici di mafiosi.
Un mondo dove a preoccupare gli investigatori non era solo la mafia, ma i collusi con la mafia, le talpe, i traditori nella polizia, nella magistratura, nelle questure e nelle prefetture:
“A farci tremare non era la mafia, erano gli amici della mafia: traditori, spie, maggiordomi, talpe, esperti nel doppiogioco. Uomini in divisa, qualche magistrato, qualche prefetto.”
Beppe Montana aveva confessato a Bolzoni, prima di essere ucciso “A Palermo siamo poco più di una decina a costituire una reale minaccia per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti”.
Ma quanto si conosceva della mafia in città? L'ultima radiografia della mafia l'aveva fatta l'allora colonnello dei carabinieri Dalla Chiesa nei primi anni '70.

Poi l'incredibile lavoro del pool, la montagna di carte per il maxi processo contro il gotha mafioso del 1986.
La svolta: finalmente lo stato mandava a processo i boss mafiosi e i colletti bianchi con l'imputazione di concorso esterno in mafia.
Ma poi le stragi mafiose del 1992 che aprirono la stagione alla trattativa tra pezzi dello stato e cosa nostra: i pizzini ai carabinieri per catturare Riina, il papello con le richieste allo stato, il ruolo di Ciancimino come postino del boss.
Un altro scoop di Viviano ha riguardato proprio il papello: “Ciancimino mi aveva dato il suo testamento, nel quale autorizzava il suo legale di fiducia a consegnare a me il papello in caso fosse stato ucciso.”


Anche questo, racconta Francesco: del dover vivere con la paura che qualcuno, dentro cosa nostra te la faccia pagare per il tuo lavoro. Ecco allora dover stare attenti ad ogni battuta che ti viene fatta, al tono con cui si dice quella cosa.
“Sei tu quel Viviano che scrive sui giornali?” (
Totò Davì, amico di Viviano e capomafia, durante il maxiprocesso di Palermo).
Il doversi guardare le spalle, ogni sera, all'uscita dal lavoro.
Questo è il prezzo del dover fare il lavoro di giornalista in terra di mafia, dove la pallottola può arrivarti alle spalle in ogni momento.
Io killer mancato è forse la storia di un miracolo, perché anche a Palermo possono succedere i miracoli: il ragazzo che doveva diventare mafioso, che stava per diventare come tutti gli altri, è diventato un giornalista che scrive i fatti e racconta le storie che succedono nel paese.

Un giorno, un amico d'infanzia del Villaggio Ruffini incontrato per caso in un bar gli confidò:
“Ma lo sai che anche tu dovevi diventare come a noialtri? Be’, ti è andata bene, altrimenti avresti passato la vita in galera, oppure saresti già sottoterra.”

La scheda del libro sul sito di Chiarelettere.

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