Antonio Sisca, il giornalista che ha dato vice ai fantasmi.
Le minacce, per antonio Sisca, giornalista de La gazzetta del sud, a Filadelfia in Calabria, sono arrivate per aver voluto dare voce ai fantasmi.
Ovvero, aver voluto parlare nei suoi articoli, delle vittime, spesso giovani, sparite per lupara bianca.
Ragazzi come Santo Panzarella, sparito dalla faccia della terra (senza un corpo su cui piangere per i familiari) probabilmente perché era l'amante della moglie di un boss.
Nel triangolo della morte della zona di Filadelfia, sono circa 50 i casi di scomparsi; oltre a questi casi, Sisca si è occupato degli altri reati legati all'attività dei clan.
Il pizzo agli esercenti, il traffico di droga, gli appalti gestiti dalle ndrine per la Salerno Reggio Calabria.
La tassa della ndrangheta: che paghiamo tutti noi, alla fine.
Storie che non sempre arrivano alle cronache nazionali per colpa del cono d'ombra che copre Reggio: in questa città infatti non c'è la sede dell'ansa, la sede di un quotidiano nazionale, della Rai.
Sono circa 400 i giornalisti sotto minaccia tra il 2009 e il 2011, come riportato dal sito Ossigenoinformazione: di questi 160 lavorano in Calabria.
Giornalisti come Pietro comito che ha la colpa di parlare di storie di pizzo e di operai che chiedono alla propria azienda di pagarlo, per evitare ritorsioni contro di loro. "Certe cose è meglio non scriverle", è stata la minaccia rivolta al giornalista al telefono.
Giuseppe Baldessarro ha ricevuto una lettera pina di pallettoni. Come ha spiegato ci sono le minacce della ndrangheta ma anche quelle dei poteri politici. Perchè quando scrivi una storia entri dentro un interesse che tocca tanti interlocutori a cui da fastidio che certe cose vengano scritte.
Lucio Musolino si è trovato una bottiglia piena di benzina sulla veranda. "Smettila con la ndrangheta", il bigliettino. La sua colpa? Scrivere dei rapporti tra i capi delle ndrine e la politica, come il presidente della regione Scopelliti.
Oggi, grazie a tutta la precarietà nel mondo del giornalismo, specie tra i giovani, è molto più facile fare pressioni su chi scrive, per farlo desistere. Per fare paura. Per fargli abbassare la testa.
Con Giovanni Tizian, non ci sono riusciti. Lui ha scritto un libro che si chiama Gotica (il link su ibs per ordinarlo), dove parla degli affari della ndrangheta e dei casalesi. Ma non al sud, al nord, nella sua Modena. Per questo vive sotto scorta: in una intercettazione, la polizia ha ascoltato due indagati che pianificavano un attentato contro di lui.
La sua famiglia ha avuto già a che fare con la criminalità: il nonno ha avuto la fabbrica bruciata. Il padre, funzionario di banca a Locri, è stato ucciso: perché era uno che voleva fare bene il suo lavoro, rispettando le regole.
Giovanni ha parlato del radicamento dentro in Emilia dei clan: anche grazie all'aiuto di banche e di professionisti che hanno aiutato i gruppi criminali ad entrare nelle società, a fare affari, a crearsi delle relazioni.
Quello che vorrebbe fare Tizian non è la rivoluzione, un giornalista non può cambiare la società, ma risvegliare le coscienza, quello sì.
E' questa la differenza che passa tra i giornalisti impiegati e i giornalisti giornalisti, come diceva Giancarlo Siani (un altro che ha pagato con la vita il suo voler raccontare dei clan e dei loro affari). Quelli che rispondono alle loro coscienze e quelli che invece rispondono a chi sta al potere, a chi comanda, a chi è più forte.
Lucarelli ha terminato la puntata citando due film: "L'ultima minaccia" con Bogart che al telefono dice al boss ".. è la stampa bellezza".
E "I tre giorni del condor" e la frase che chiude il film "ma sei sicuro che la pubblicheranno?".
Perchè alla fine non conta solo quello che si scrive, ma conta che venga pubblicato, che venga letto e che la gente inizi lei a farla, la rivoluzione.
La prima parte della puntata.
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