04 settembre 2012

Ausmerzen di Marco Paolini

Ausmerzen: vite indegne di essere vissute.
Il 26 gennaio 2011
Marco Paolini raccontò, in prima serata su La7, la storia del progetto Aktion T4: lo sterminio di massa di circa 300000 persone, nella Germania nazista. Erano disabili, persone con disagi psichici, bambini nati con deformità: non sono i milioni di morti passati per il camino per la “soluzione finale” (zingari, ebrei, comunisti, gay). Tutto questo avvenne prima, col beneplacito di una legge di stato, di buona parte della comunità scientifica tedesca, col silenzio della popolazione. E continuò anche dopo la fine della guerra, quando tutto era finito.
Di questo sterminio, ci ha raccontato Paolini, se ne parla poco: forse perché qui a morire erano pazzi, persone deformi, persone con problemi. Forse anche perché le idee, le teorie scientifiche che portarono a questo sterminio non furono solo del nazismo e della Germania di Hitler.


No: dietro Aktion T4 ci sono le teorie dell'Eugenetica, nate alla fine dell'800 con la Belle Epoque, col progresso scientifico, con lo sviluppo delle grandi industrie (che finanziarono proprio le ricerche in ambito di Eugenetica), con la nascita di un primo benessere borghese, che poteva essere minacciato dalle masse di emigrati in cerca di una vita migliore.

Ausmerzen è una parola dal suono dolce, e anche l'Eugenetica stessa è una teoria nata per un principio etico, secondo alcuni nobile. Quello di decidere, sulla pelle altrui, cosa è normale e cosa non lo è. Cosa è curabile, e dunque può rimanere all'interno della società, da cosa non è recuperabile e dunque può essere eliminato. Ausmerzen: come i piccoli agnellini che per la transumanza di marzo andavano eliminati perché deboli. 

Questo libro è un approfondimento del racconto trasmesso in televisione, una sua riscrizione in cui si parte da Aktion T4, per arrivare al rischio di una nuova eugenetica sociale, nelle democrazie di oggi. Dove, pare, ancora si debbano selezionare quanti sono produttivi e competitivi per il mercato globale, da quanti non lo sono più e possono essere messi da parte.

Il libro di Paolini parte dalla belle epoque, epoca in cui i dottori sviluppano questa filosofia per migliorare il mondo e la società: Galton (che da la definizione di Eugenetica), Graham Bell (che fece degli studi sulla sterilizzazione dei sordomuti, per impedire che la malattia si espandesse), Konrad Lorenz e l'italiano Lombroso. Quello per cui dalla faccia, dai lineamenti di una persona si poteva capire quanto era disposto al crimine. E, dunque, se il tuo male è qualcosa che ti porti dentro e non è curabile, è giusto che tu non possa procreare.
Prima di Aktion T4, ci sono state le sterilizzazioni di massa in tanti paesi nel mondo: da Wikipedia

Germania: 1933-1941: oltre 400.000

Stati Uniti: 1899-1979: circa 65.000
Svezia: 1934-1976: 62.888
Finlandia: 1935-1970: 58.000
Norvegia: 1934-1977: 40.891
Danimarca: 1929-1967: 11.000
Canada: 1928-1972: circa 3.000
Svizzera: 1928-1985: meno di 1.000
Nel suo libro
Mein Kampf, Hitler cita espressamente gli Stati Uniti e la loro politica per la sterilizzazione, per la purificazione del paese. 

“ L’Unione americana rifiuta gli elementi cattivi dell’immigrazione, ed esclude semplicemente certe razze dalla concessione della cittadinanza – e con ciò professa già, in pronunciamenti ancora deboli, una mentalità che è propria del concetto nazionale di Stato.”

Come si vede, è facile passare da un principio apparentemente nobile (chi non vorrebbe avere attorno a se persone sane, senza malattie), all'orrore.

Basta assumersi l'onore di decidere per gli altri. Senza preoccuparsi del dolore che si crea, della condizione in cui stanno i più deboli.
D'altronde, per anni anche dopo la guerra si è continuato ad effettuare l'elettroshock sui matti (in Italia in anestesia solo dal 1963), e la lobotomia. 

I principi dell'Eugenetica furono l'alibi per la politica “purificatrice” di Hitler: nel 1933, quando arrivò al governo, usò l'arma della propaganda (il cinema soprattutto) per far passare nella società tedesca l'idea che gli anormali erano un peso per tutti. 
Una delle prime leggi è quella sulla sterilizzazione degli anormali (dopo aver sterilizzato gli altri partiti):
“persone affette da una serie di malattie ereditarie - o supposte tali - tra le quali schizofrenia, epilessia, cecità, sordità, corea di Huntington e deficienza mentale. Inoltre la legge prevedeva la sterilizzazione degli alcoolisti cronici.”

Furono create delle corti genetiche, composte da medici e giudici, col compito di applicare questa legge. 
Nel 1939 si arrivò all'Eutanasia di Stato: ovvero l'eliminazione fisica delle vite “indegne”. Si iniziò con in bambini. Qui nasce la struttura, in Tiergartenstrasse 4 a Berlino (da cui la sigla T4), dove si gestì l'intero ciclo di gestione dello sterminio: la gestione delle sedi dove procedere con l'eliminazione di bambini e adulti; la gestione degli elenchi di persone da “trattare”, che arrivavano dagli psichiatri consulenti dell'organizzazione; la gestione dei trasporti e infine la riscossione dei crediti.

Come si intuisce, molte delle cose apprese durante Aktion T4 furono poi messe a frutto quando lo sterminio divenne di larga scala. Come si uccide in modo più veloce? Col veleno, col gas, con la denutrizione?
Come si devono trattare i “malati” all'ingresso? 

Alle dipendenze della cancelleria personale di Hitler fu creato il «Comitato del Reich per il rilevamento scientifico di malattie ereditarie e congenite gravi» a capo del dottor Brandt: un modo elegante per indicare le persone che, secondo lo spirito della nuova nazione hitleriana, dovevano essere eliminati. Ovvero prelevati dalla famiglie, anche con l'aiuto dei medici di famiglia, per essere portati nelle strutture dove poi venivano uccisi.
Abbiamo il nome del primo bambino che subì questo trattamento, il figlio dei signori Knauer.
Non abbiamo però i nomi di tutti gli altri 5000 bambini, uccisi col falso consenso dei genitori (quale genitore non vorrebbe che il figlio venisse curato?) a Grafeneck, Bernburg, Hartheim, Sonnenstein, a Hadamar, a Kaufbeuren a Brandemburg.

La guerra, scoppiata nel 1939, rese più semplici queste operazioni di morte, la pretesa pietà nei confronti di bambini con handicap, anche per il principio portato avanti dalla propaganda per cui non è giusto che mentre i sani muoiono al fronte, i malati vengano curati nelle strutture sanitarie: come disse Hermann Pfannmüller, fervente nazista ed uno tra i medici coinvolti nell'Aktion T4,
“è per me intollerabile l'idea che i migliori, il fiore della nostra gioventù, debbano perdere la vita al fronte perché i deboli di mente ed elementi sociali irresponsabili possano avere un'esistenza sicura negli istituti psichiatrici”.

Nel 1941 si passa alla fase 2 di Aktion T4, con l'eliminazione degli adulti. Le sedi erano già pronte, la struttura statale (e in parte
esternalizzata in strutture private) già rodata: si calcola che nel totale furono uccise 300000 persone nei centri di Aktion T4. Uccisi da personale medico, infermiere, da suore “coscienziose” con iniezioni letali, diete che portavano alla morte per denutrizione, camere a gas. 

Ma non è solo questo: queste persone furono anche usate come cavie per esperimenti scientifici (o presunti tali), come fossero state cavie o semplici cose. Fino a quanto regge un corpo immerso nell'acqua fredda? Cosa succede a lanciare per aria una bambina più volte?
Per far avvicinare il lettore a questa tragedia, per non far sì che questa rimanga una storia di numeri e statistiche, Paolini racconta una di queste morti:
Lossa Ernst, un rom di 13 anni, ucciso a Kaufbeuren. Colpevole di avere un carattere insopportabile, di rubare piccole cose, di essere irrequieto coi compagni e i superiori. 


Eugenetica oggi.
Ausmerzen inizia con le parole di Primo Levi sul dottor Pannwitz in “Se questo è un uomo”:

..quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità, dell’anima umana.

Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza,della grande follia della terza Germania.
Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato: Il cervello che soprintendeva a quegli occhi azzurri, e a quelle mani coltivate diceva: “Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere ‘che è ovviamente opportuno sopprimere..”


Il dottor Pannwitz era colui che esaminava i candidati in un reparto chimico di Auschwitz: come fossero non persone, cose. Come pesci dentro un acquario o bestie dietro le gabbie di uno zoo.

Paolini immagina il suono del cervello del dottor Pannwitz: è come quello di un telefono fisso, che suona a vuoto. Ed è lo stesso suono che esce dalle teste di chi pensa che ci siano vite “sacrificabili”, di chi divide le persone in normali e non, di chi si arroga il diritto di poterle eliminare. Magari non fisicamente, ma semplicemente, girando la testa dall'altra parte per non vederle soffrire, facendo finta che non esistano. 

Le persone chiuse nelle carceri, nei Centri di identificazione. Negli ex manicomi.

Il vescovo Van Galen, una delle poche voci che si alzò contro la politica del governo nazista di eutanasia, disse “Hai tu, ho io il diritto alla vita solo finché siamo produttivi, ritenuti produttivi da altri?”.

Sono parole che assumono un valore profondo ancora oggi, dove c'è chi pensa che anche la Democrazia, il welfare, aiutare chi sta indietro, non è produttivo, chi non sta al passo coi mercati, sia un costo che non ci possiamo permettere. Secondo la logica per cui bisogna ridurre i costi della società, a qualunque costo. 
Non è anche questa eugenetica sociale?

Il racconto di Paolini, così pieno di sdegno, di passione ma anche condito con dosi di houmor, termina col racconto di una di queste morti, di “vite indegne di essere vissute”. Il piccolo Hurbinek, la cui memoria è stata salvata da Primo Levi ne “La tregua”:
Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva.Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo.La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo».Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata. O meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavano in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne» in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento.Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole

La prima parte del racconto televisivo andato in onda nel 2011:



La scheda del libro sul sito di
Einaudi.
Il primo capitolo del libro in pdf.
Il racconto sul sito di Jole film.

Il link per ordinare il libro su internetbookshop.

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