Giornalisti
nel mirino
è titolo della puntata di “Lucarelli racconta”,
con cui riparte la stagione 2012 della trasmissione dello scrittore
Carlo Lucarelli. Nella prossima puntata si parlerà poi di reati ambientali, ecomafie, e del terremoto in Irpinia.
Questa sera si inizia col duro lavoro del giornalista, colui cioè che deve raccontare all'opinione pubblica la realtà, mettendo in relazione fatti e persone. Un lavoro che ci aiuta, o ci dovrebbe aiutare, a comprendere meglio il presente, a controllare cosa avviene nei meccanismi di potere in cui è articolata la nostra democrazia (cane da guardia e non cane da riporto della politica). Democrazia e libera informazione vanno di pari passo, infatti: solo nelle dittature, o nelle democrazie a libertà vigilata, l'esecutivo controlla attraverso le veline, quello che l'opinione pubblica deve sapere e quello che è meglio che non sappia.
Possono essere notizie di scandali, di accordi politici sottobanco, casi di cronaca in cui è invischiato qualche potente. L'informazione è libera nel momento in cui può fare le domande che ritiene opportuno, senza subire minacce o intimidazioni. Come querele, rappresaglie al giornale, telefonate al direttore o all'editore della testata.
Ci sono anche altre minacce: quelle che subiscono e hanno subito quanti, nel loro mestiere di cronista, si sono occupati di mafia, senza guardare in faccia a nessuno.
Anche la categoria dei giornalisti ha pagato il suo prezzo per la lotta alla mafia: Mario Francese, e Mauro De Mauro, i primi due nomi che mi vengono in mente.
Questa sera Lucarelli ci racconterà la storia di sette giornalisti che hanno visto la loro vita cambiare per aver voluto parlare di mafia: Giovanni Fava, Cosimo Cristina, Lirio Abbate, Arnaldo Capezzuto, Antonio Sisca, Giovanni Tizian.
Lirio Abbate, giornalista dell'Ansa di Palermo, è coautore assieme a Peter Gomez del libro “I complici”, dove ha raccontato dei contatti tra il boss mafioso Bernardo Provenzano e il mondo della politica. Contatti che ne hanno permesso una lunga latitanza.
Vive oggi sotto scorta.
Cosimo Cristina, giornalista de L'Ora di Palermo, ucciso dalla mafia nel 1960: “ fondò e diresse a Palermo il periodico «Prospettive Siciliane». Dal 1959 collaborò come corrispondente per L'Ora di Palermo, per Il Giorno di Milano, per l’agenzia ANSA, per Il Messaggero di Roma e per Il Gazzettino di Venezia.”
Si occupò come cronista, della mafia e per questo fu ucciso, con un omicidio camuffato da suicidio, per depistare le indagini: come per Peppino Impastato, il suo cadavere fu fatto ritrovare sui binari. Fu il collega Mario Francese e i colleghi de L'Ora che fecero riaprire il caso, sollevando dubbi sul caso. Il commissario Mangano aveva già stilato un rapporto che negava il suicidio indicando il vero luogo della morte del giornalista; accusò il consigliere della Democrazia cristiana Agostino Rubino (uno dei capimafia di Termini) e il boss Santo Gaeta di essere stati i mandanti del delitto, che poi vennero scagionati.
“Senza peli sulla lingua” (...) “Riteniamo - aveva scritto Cristina nel primo editoriale - che premessa indispensabile di ogni opera di rinnovamento è la moralizzazione. Denunzieremo quindi ogni violazione ai principii di onestà amministrativa e politica, sicuri anche in questo di interpretare i sentimenti e le aspettative di un popolo di antica saggezza”. “Forse, quando lavorava ai numeri pubblicati i mesi successivi, i primi del 1960, era già un uomo morto. Quando la mafia condanna non torna sui suoi passi. Ne fa solo una questione di tempo e di luogo. Perché la mafia non combatte alla maniera dei Cristina, ma attende nell’ombra. Non ha bisogno di giornali, di inchieste coraggiose, di giudizi equilibrati. Condanna e basta. Fate uccidere quel tale. E c’è sempre qualcuno, nel mondo delle coppole, che non può dire di no”.
Questa sera si inizia col duro lavoro del giornalista, colui cioè che deve raccontare all'opinione pubblica la realtà, mettendo in relazione fatti e persone. Un lavoro che ci aiuta, o ci dovrebbe aiutare, a comprendere meglio il presente, a controllare cosa avviene nei meccanismi di potere in cui è articolata la nostra democrazia (cane da guardia e non cane da riporto della politica). Democrazia e libera informazione vanno di pari passo, infatti: solo nelle dittature, o nelle democrazie a libertà vigilata, l'esecutivo controlla attraverso le veline, quello che l'opinione pubblica deve sapere e quello che è meglio che non sappia.
Possono essere notizie di scandali, di accordi politici sottobanco, casi di cronaca in cui è invischiato qualche potente. L'informazione è libera nel momento in cui può fare le domande che ritiene opportuno, senza subire minacce o intimidazioni. Come querele, rappresaglie al giornale, telefonate al direttore o all'editore della testata.
Ci sono anche altre minacce: quelle che subiscono e hanno subito quanti, nel loro mestiere di cronista, si sono occupati di mafia, senza guardare in faccia a nessuno.
Anche la categoria dei giornalisti ha pagato il suo prezzo per la lotta alla mafia: Mario Francese, e Mauro De Mauro, i primi due nomi che mi vengono in mente.
Questa sera Lucarelli ci racconterà la storia di sette giornalisti che hanno visto la loro vita cambiare per aver voluto parlare di mafia: Giovanni Fava, Cosimo Cristina, Lirio Abbate, Arnaldo Capezzuto, Antonio Sisca, Giovanni Tizian.
Lirio Abbate, giornalista dell'Ansa di Palermo, è coautore assieme a Peter Gomez del libro “I complici”, dove ha raccontato dei contatti tra il boss mafioso Bernardo Provenzano e il mondo della politica. Contatti che ne hanno permesso una lunga latitanza.
Vive oggi sotto scorta.
Cosimo Cristina, giornalista de L'Ora di Palermo, ucciso dalla mafia nel 1960: “ fondò e diresse a Palermo il periodico «Prospettive Siciliane». Dal 1959 collaborò come corrispondente per L'Ora di Palermo, per Il Giorno di Milano, per l’agenzia ANSA, per Il Messaggero di Roma e per Il Gazzettino di Venezia.”
Si occupò come cronista, della mafia e per questo fu ucciso, con un omicidio camuffato da suicidio, per depistare le indagini: come per Peppino Impastato, il suo cadavere fu fatto ritrovare sui binari. Fu il collega Mario Francese e i colleghi de L'Ora che fecero riaprire il caso, sollevando dubbi sul caso. Il commissario Mangano aveva già stilato un rapporto che negava il suicidio indicando il vero luogo della morte del giornalista; accusò il consigliere della Democrazia cristiana Agostino Rubino (uno dei capimafia di Termini) e il boss Santo Gaeta di essere stati i mandanti del delitto, che poi vennero scagionati.
“Senza peli sulla lingua” (...) “Riteniamo - aveva scritto Cristina nel primo editoriale - che premessa indispensabile di ogni opera di rinnovamento è la moralizzazione. Denunzieremo quindi ogni violazione ai principii di onestà amministrativa e politica, sicuri anche in questo di interpretare i sentimenti e le aspettative di un popolo di antica saggezza”. “Forse, quando lavorava ai numeri pubblicati i mesi successivi, i primi del 1960, era già un uomo morto. Quando la mafia condanna non torna sui suoi passi. Ne fa solo una questione di tempo e di luogo. Perché la mafia non combatte alla maniera dei Cristina, ma attende nell’ombra. Non ha bisogno di giornali, di inchieste coraggiose, di giudizi equilibrati. Condanna e basta. Fate uccidere quel tale. E c’è sempre qualcuno, nel mondo delle coppole, che non può dire di no”.
24 giugno 1966 (dal Giornale di
Sicilia) – dal blog cosimocristina.ilcannocchiale.
Giovanni Fava, scriveva di mafia e delle collusioni tra mafia, imprenditoria e politica a Catania, fondatore de I Siciliani, secondo giornale antimafia in Sicilia. Su cui scriveva:
« Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. »
Giovanni Fava, scriveva di mafia e delle collusioni tra mafia, imprenditoria e politica a Catania, fondatore de I Siciliani, secondo giornale antimafia in Sicilia. Su cui scriveva:
« Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. »
(Pippo Fava. Lo spirito di un giornale.
11 ottobre 1981)
Fu ucciso per ordine del clan Santapaola nel 1984. Il figlio Claudio, è candidato alle regionali in Sicilia. Anche lui giornalista nonché europarlamentare.
Arnaldo Capezzuto ha seguito i casi di cronaca della Camorra, tra cui il caso della povera Annalisa Durante, rimasta uccisa nella sparatoria provocata da un giovane membro della famiglia dei Giuliano.
“A un certo punto ti rendi conto che le minacce che un giornalista riceve a causa del proprio lavoro, sono qualcosa di fisiologico, che è quasi normale che ci sia se si lavora in un certo modo”, racconta egli stesso, ma nonostante questo, “Ho sempre lavorato cercando di capire il territorio, di percepire gli umori della gente e le vicende che accadevano lì”.
Fu ucciso per ordine del clan Santapaola nel 1984. Il figlio Claudio, è candidato alle regionali in Sicilia. Anche lui giornalista nonché europarlamentare.
Arnaldo Capezzuto ha seguito i casi di cronaca della Camorra, tra cui il caso della povera Annalisa Durante, rimasta uccisa nella sparatoria provocata da un giovane membro della famiglia dei Giuliano.
“A un certo punto ti rendi conto che le minacce che un giornalista riceve a causa del proprio lavoro, sono qualcosa di fisiologico, che è quasi normale che ci sia se si lavora in un certo modo”, racconta egli stesso, ma nonostante questo, “Ho sempre lavorato cercando di capire il territorio, di percepire gli umori della gente e le vicende che accadevano lì”.
Antonio Sisca: di
lui scrive “Abito a Filadelfia, un centro a cavallo tra il
Vibonese e il Lamentino. Da almeno 25 anni scrivo per la Gazzetta del
Sud e scrivo di mafia dove non si deve. La zona del bacino
dell’Angitola (Filadelfia, Francavilla, Curinga, Pizzo) non è più
un’isola felice, almeno dal 1985, da quando i grandi appalti sulla
Salerno-Reggio e quelli della costruzione del doppio binario
cominciarono a fare gola ai mafiosi.”
In questo territorio racconta dei boss che sono passati dai sequestri di persona al traffico di droga. E per questo è stato minacciato “Uccideremo te, tua moglie e tuo figlio”.
In questo territorio racconta dei boss che sono passati dai sequestri di persona al traffico di droga. E per questo è stato minacciato “Uccideremo te, tua moglie e tuo figlio”.
Giovanni Tizian ha un blog,
dove spiega il suo lavoro, a Roma. Dove è arrivata da tempo la
ndrangheta.
“Negli ultimi anni solo una
condanna per associazione mafiosa, sembra che le cosche non siano mai
arrivate a Roma. Ma non è così: le ‘ndrine fanno affari
nell’edilizia e nel commercio grazie ai loro ‘uomini cerniera’.
Come Pietro D’Ardes, titolare di una catena di supermercati, legato
a Antonio Alvaro, uno dei reggenti del clan di Sinopoli e San
Procopio”.
Roma come Milano, città metropolitane dove la mafia non esiste:
Roma come Milano, città metropolitane dove la mafia non esiste:
“A Roma la mafia non esiste. La
storia giudiziaria delle infiltrazioni mafiose nella capitale
racconta qualcosa di inaspettato. Mai un tribunale di Roma ha emesso
una condanna per il 416 bis, ovvero per il reato associazione a
delinquere di stampo mafioso. Un dato emerso da un’inchiesta di
Repubblica pubblicata lo scorso luglio. Eppure si sfoglia la lista
dei beni confiscati alle mafie e si scopre che solo nel comune di
Roma ci sono 209 immobili e 100 aziende sottratti ai boss. Che i
procedimenti iscritti dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma
dal primo luglio 2010 al 30 giugno dell’anno scorso sono 201, di
cui 91 per associazioni finalizzate al narcotraffico. Che a
Grottaferrata risiedeva Candeloro Parrello, pezzo da novanta
dell’omonimo clan calabrese. Che Vincenzo Alvaro ha continuato a
gestire due bar in centro mentre la Dia gli sequestrava tra il 2009 e
il 2011 nove locali, tra cui il Cafè de Paris in via Veneto e il
ristorante Federico I in via Colonna Antonina a due passi dal
Parlamento.”
Sinossi della puntata:
La libertà di informazione è un
principio fondamentale della democrazia. Quando viene disatteso
attraverso intimidazioni, violenze o censure, è la libertà stessa
delle persone e delle istituzioni a correre seri pericoli.
Cosimo Cristina, che alla fine degli
anni ’50, per primo, scrive di mafia in Sicilia, e Giuseppe Fava
con le sue inchieste sul legame tra imprenditoria, politica e Cosa
Nostra, hanno pagato con la vita la loro scelta di parlare
liberamente dei problemi che affliggevano il territorio siciliano.
Anche oggi molti cronisti del Sud e
del Nord d’Italia mostrano lo stesso coraggio non rinunciando a
narrare le realtà più scomode. Un unico filo conduttore lega le
storie di Lirio Abbate, Arnaldo Capezzuto, Antonio Sisca, Giovanni
Tizian, tutti cronisti costretti a vivere sotto scorta: lo spirito di
indipendenza e l’impegno civile nel portare avanti il proprio
lavoro, anche a costo di estremi sacrifici. Dovremmo
essere grati a questo giornalisti, per il lavoro che fanno, per il
coraggio e la determinazione che mettono nel loro lavoro.
Non sapremmo altrimenti delle ramificazioni delle mafie dentro le istituzioni, dentro le imprese.
Che non è solo un problema del sud.
Pochi giorni fa, con l'operazione Ulisse, sono state arrestate 37 persone in Brianza e in tutta la Lombardia per reati di associazione mafiosa, porto e detenzione illegale di armi, usura ed estorsione, aggravanti dalle finalità mafiose.
Il tutto grazie alla collaborazione dell'ex capo della locale della ndrangheta di Giussano, Antonino Belnome, residente ad Inverigo. Estorsioni, botte, borsoni pieni di armi e droga, colpi sparati contro bar, omicidi, aziende in crisi spolpate dall'interno.
E invece anche al nord succedono storie, vicino a noi, come queste: asfalto mischiato ad amianto per le nuove strade
Non sapremmo altrimenti delle ramificazioni delle mafie dentro le istituzioni, dentro le imprese.
Che non è solo un problema del sud.
Pochi giorni fa, con l'operazione Ulisse, sono state arrestate 37 persone in Brianza e in tutta la Lombardia per reati di associazione mafiosa, porto e detenzione illegale di armi, usura ed estorsione, aggravanti dalle finalità mafiose.
Il tutto grazie alla collaborazione dell'ex capo della locale della ndrangheta di Giussano, Antonino Belnome, residente ad Inverigo. Estorsioni, botte, borsoni pieni di armi e droga, colpi sparati contro bar, omicidi, aziende in crisi spolpate dall'interno.
Trentasette arresti in Lombardia. Sette in provincia di Como: cinque a Mariano Comense, e poi Inverigo e Casnate con Bernate. E ancora: nuove accuse a personaggi già condannati in primo grado per associazione mafiosa. Tra loro i fratelli Rocco e Francesco Cristello, di Cabiate, raggiunti da una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere chiesta e ottenuta dalla direzione distrettuale antimafia di Milano.E, come al sud, pochi imprenditori che hanno voglia di denunciare i reati (come ha denunciato anche il magistrato Ilda Bocassini). Una volta si diceva che l'omertà era una dei problemi del sud.
E invece anche al nord succedono storie, vicino a noi, come queste: asfalto mischiato ad amianto per le nuove strade
Amianto misto ad asfalto, la n'drangheta si fa strada in Lombardia e i terreni e nell'amalgama del manto stradale amianto e rifiuti pericolosi. L'affare della n'drangheta, infiltrata nel tessuto d'imprese lombarde. [..]Adesso capisco come mai questa fregola da parte delle amministrazioni per nuove autostrade, nuovo cemento.
Molti rifiuti percolosi, inoltre, sarebbero stati utilizzati per gli asfalti di alcune strade: in particolare, secondo la Procura, per pavimentare lo svincolo di Lurago d’Erba, tra la Como-Bergamo e la Vallassina (dove nasce il fiume Lambro), ma anche per il raddoppio ferroviario Carnate-Airuno e il cantiere della Paullese. Sarebbero ben 110 mila i metri cubi di rifiuti speciali smaltiti in questo modo.
OssigenoInformazione è il sito dell'osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia.
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