22 novembre 2014

Soltanto silenzio di Massimo Cassani

Incipit
Se non un colpo di pistolaMilano, 1 ottobre 1978, ore 7.15Se non un colpo di pistola, cos’era stato allora quello? Un petardo fuori stagione? O un motorino con la marmitta in pappa che aveva scoreggiato su una via Monte Nevoso deserta, in una domenica mattina fotocopia di tante altre?Aristide – pupille dilatate nel buio della sua camera in attesa del trillo della sveglia – cercava il sonno che l’aveva abbandonato, chissà come mai così presto. E non certo per il solito passaggio dei treni, così frequenti che l’abitudine li aveva fatti andare oltre la soglia dell’udibile. Forse era per via dell’ora legale che da quella notte era stata messa in soffitta. E alla sera il buio sarebbe arrivato molto prima. Di botto. O forse per il pensiero della partita del pomeriggio all’oratorio del quartiere Casoretto: quattro pedalate veloci da Lambrate a là senza neppure un alito di fiatone. Loro contro gli altri, dove gli altri stavano per quei tizi grossi dell’oratorio di una zona periferica di Milano sentita soltanto nominare. E l’arbitro era un ragazzino del Ticinese con i capelli rossicci e ispidi e impettinabili, mica tanto sveglio: c’era da prepararsi a prendere un sacco di calci negli stinchi, tanto quello manco se ne sarebbe accorto. Gli adulti avrebbero guardato la partita con gli occhi molli, l’orecchio attaccato alle radioline a transistor, la barba sfatta e la pancia satolla di risotto e arrosto. Nell’aria fumo di sigarette popolari, MS o Nazionali senza filtro.Aristide non fumava, non ancora almeno, ché a dieci anni – diceva suo padre – è presto! Anche se lui, il padre, aveva cominciato proprio a dieci, giù, nel paesello assolato di Trinacria. E ora teneva la Nazionale con la sinistra, visto che l’altra l’aveva persa per colpa di uno stronzo di rapinatore dalla mira per fortuna del cazzo, che invece di centrare la divisa da carabiniere dritta in petto gli aveva fatto esplodere la mano destra. Roba di nove anni prima, ma il padre ne parlava ancora come se avesse fatto la guerra, e la mamma s’incazzava perché i figli non le devono mica sentire quelle cose lì.Pure Aristide voleva fare il carabiniere, ma non lo diceva mai e la mamma non lo sapeva. E mentre lui se ne stava lì, nel buio, e pensava alla partita, al guanto nero del padre, alla divisa scura con la riga rossa sui pantaloni che avrebbe indossato da grande, quel botto secco gli aveva bloccato il fiato per un momento.Suo fratello Gaetano, invece, fumava. Il carabiniere però non lo voleva fare; diceva «servi del potere!», lui, e litigava a tavola con il padre. Chi aveva ragione: papà o Gaetano?Dopo un istante breve come un battito di ciglia, i colpi erano diventati due. L’altro metallico, isterico.Aristide aveva appoggiato i piedi nudi sul pavimento, vicino al borsone della partita, e aveva sentito freddo. Gaetano non si era svegliato subito. Aristide vedeva le coltri mosse dal suo respiro.Dalla persiana chiusa della camera ora filtrava soltanto silenzio.Ma era durato un secondo.

Nel corso degli anni (e dei romanzi) abbiamo imparato a conoscere il commissario Alessandro (Maria) Micuzzi. La sua passione per la grappa Nardini, per un toscanello da fumare in pace. I suoi capelli rossicci e arruffati, rossicci come i baffi. La sua aria bonaria che da quell'impressione di uno con la testa con le nuvole. Uno poco sveglio per fare il commissario di polizia a Milano.
Eppure, Micuzzi, è uno che la testa la sa usare eccome per portare avanti le sue indagini. Uno che sa mettere assieme e collegare dettagli forse insignificanti. Anche se questo significa pestare i piedi a qualcuno di importante. Oppure passare ore e ore dietro un'idea o un indizio e sacrificare la vita privata. Cosa che, nel corso della sua carriera gli ha causato non pochi problemi.
Dal siluramento alla Mobile, da parte del questore Nardò (che fa rima con Kapò). Prima al commissariato Città studi e ora, al commissariato di via Padova.
Poi il divorzio da Margherita, la ex moglie, che pure da ex è riuscita a causargli qualche problema nella sua veste di poliziotto.

In questo romanzo, la cui storia parte da molto lontano, precisamente in una mattinata di domenica dell'ottobre del 1978 a Milano, Margherita avrà un ruolo importante: Micuzzi si troverà a dover mischiare (a proprio rischio e pericolo) questioni d'ufficio e questioni personali.
Ma andiamo per ordine.
«Via Padova», fa il Questore.Micuzzi la conosce bene quella via. È lunga come la quaresima, è un elastico tirato dalla rotonda di piazzale Loreto che si aggancia alla periferia con vista tangenziale Est. È uno snodo di contaminazioni, un frullato di genti, un mood mediterraneo, un miscuglio cromatico, un fluire blues, un'improvvisazione jazz, un controtempo balcanico, un ritmo di congas, è una nenia cinese. Un pastrocchio.
In via Padova a presidiare il territorio: in due, con una sola auto. No, anzi in tre: lui, il vice e l'agente Lara Sandri. Una di quelle persone capaci di creare disastri per il troppo entusiasmo (e l'imperizia) nel fare le cose.
Margherita gli si presenta un giorno e, in una pausa pranzo a base di panino e brie, gli dice che intende risposarsi. E Micuzzi dovrà fare da testimone.
Tu vuoi la mia felicità?”.
Come si fa a dire di no ad un basso ricatto del genere. Da una persone cui comunque hai voluto bene. Non è finita: i due (marito futuro ed ex) si dovranno conoscere in una cesa, cui il nostro poliziotto non riesce a sottrarsi.
Ma proprio qui, inizia tutta la storia.
Perché mentre Micuzzi sta per entrare in bagno, si accorge di un uomo con la pistola puntata su Gaetano Mastronardi. Il futuro marito. Il colpo, deviato dall'intervento di Micuzzi, sfiora l'uomo che per lo spavento si accascia in terra.
L'inseguimento della coppia di killer si rivela inutile.
Ma perché qualcuno vuole ammazzare quell'uomo?
Se lo chiede Micuzzi e se lo chiede anche la Questura. Precisamente, il questore in persona, che affida al nostro poliziotto un'altra missione “sotto traccia”. Spiare il futuro marito per cercare di capirci meglio nei suoi affari.
«Mi state chiedendo di capire cosa sono queste macchine per scrivere per arrivare a scoprire chi ha sparato al Mastronardi?» Micuzzi vorrebbe far assumere alla sua voce borbottante la stessa inflessione sarcastica del questore, ma il bruciore di stomaco gli sta salendo fino alla gola e il sarcasmo non decolla. «Devo ricordarle, signor Questore, che sono stato appena sbattuto in un commissariato periferico. Non faccio indagini, devo presidiare il territorio, io».«Trasferito, Micuzzi, tra-sfe-ri-to ..»Già: trasferito.«Non proprio, Micuzzi. Per questo ci sarebbero già investigatori ..» Nardò non finisce la frase, ma è implicito che stava per dire: « .. ben più svegli di lei», ma tace e a va a capo saltando la chiusa.
Qui inizia un'inchiesta che riguarda il commercio di macchine da scrivere Remington numero 8 (quella riprodotta sulla copertina del libro), strani viaggi verso il sud e di una libreria in via dei Transiti, in cui accadono strane cose.
Libreria del fratello di Gaetano, Aristide, dove un giorno si presenta un avvocato americano per consegnare un pacco. Libreria in cui qualcuno, una notte, appicca un incendio doloso.
Tutti indizi su cui Micuzzi deve fare un'indagine che non è un'indagine. Perché ufficialmente ad indagare sono altri, perché è da solo. O quasi.
E la storia del passato, di quell'ottobre del 1978?
Riguarda un episodio della nostra storia che ancora oggi fa paura, che ancora oggi deve essere tenuto nascosto. E che mette in pericolo la vita stessa dell'avvocatessa venuta in Italia a un “ricordo” di quella storia e forse anche di Micuzzi.
Micuzzi sente caldo al viso: non è rabbia, non è vergogna. È deriva. È sconforto per doversi occupare di un'inchiesta ancora una volta non da titolare, ma da supporter, da infiltrato speciale nella vita di un biondino che, se tanto gli da tanto, avrà una scrivania ordinata come quella di Lariccia. E tutto questo soltanto perché la sua ex moglie si infila sotto le lenzuola di un sospettato non si sa ancora bene di che cosa, del quale lui deve fingere pure di voler diventare amico. Con allegra soddisfazione e successiva incazzatura di Margherita (viste le finalità). Già la sente ...
Soltanto silenzio è un romanzo profondamente milanese: perché l'azione si svolte in gran parte attorno alle zone di piazzale Loreto, Lima e via Padova. Perché in molto dialoghi fa capolino il dialetto de “Milan”, scritto così come si pronuncia.
Perché il ritratto che Cassani fa della Milano è di stampo impressionista, aderente alla realtà: quello di una città caotica per il traffico, che va in crisi quando piove a dirotto (e su Micuzzi pioverà parecchio) o quando ci sono i soliti scioperi dei mezzi.
Una città vista dalla periferia, dove è stato man mano spostato Micuzzi. Dove la gente ha iniziato a trasferirsi. Anche per colpa di quelli che stanno trasformando Milano in “una casa vuota senza gente dentro”.
Come nella canzone di Claudio Sanfilippo:
Gh'è una cà chi dedrée che gh'è denter nissun
me ricordi un carètt che portava un quajvun
inn andàa tutti via, e nissn l'è turnàa
e i finèster coi veder che riémpien el pràa
e la ciàmen, la ciàmen la cà, la cà senza la gent
Claudio Sanfilippo, La cà senza la gent

Una precisazione, il commissariato di via Padova non esiste. È per copiare Biondillo (ripicche tra autori noir) ), reo di essersi inventato il commissariato a Quarto Oggiaro.
Gli altri libri col commissario Micuzzi
La presentazione del libro alla libreria Lirus
La scheda del libro sul sito di Tea e il sito dell'autore
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon


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