Perché la seconda ondata ha colpito più della prima? Perché ancora una volta gli ospedali si sono riempiti?
La soluzione, che emergerà dal viaggio di Presadiretta tra Lombardia e Calabria, sta nella sanità pubblica, sul territorio.
Il dottor Marzulli è stato medico nell'ospedale di Alzano: ha vissuto la prima ondata senza avere gli strumenti per farlo.
A Francesca Nava ha raccontato quei giorni: ad un certo punto si trovò con un solo anestesista, che fece per dovere, 36 ore di turno consecutivo.
Dopo i primi due casi covid aveva chiesto la chiusura dell'ospedale, ma poi telefonò qualcuno dalla regione, ordinando di riaprire: alla fine l'ospedale di Alzano fu riaperto, da qualcun altro più sensibile alle pressioni della regione.
Marzulli scrisse comunque alla ASST di Bergamo Est, mettendo nero su bianco quello che non funzionava: mancavano tamponi, dispositivi, percorsi differenziati per i malati. I tamponi arrivarono da Seriate, li portò lui di persona.
Il virus era già diffuso in Lombardia, ma nessuno se ne era accorto perché non era attivo il monitoraggio, poiché il piano pandemico non venne attivato, nemmeno dopo l'allarme dell'Oms.
“L'oms il 4 febbraio aveva dato una indicazione specifica: usare i piani pandemici esistenti, era meglio usare un piano pandemico esistente anche non aggiornato, anche riferito all'epidemia influenzale, che non utilizzare nulla. Neanche dopo che l'Oms disse questo fu fatto nulla”.
In vent'anni, il dottor Marzulli non ha mai visto dei protocolli attuativi del piano pandemico, nessuna esercitazione, nessun censimento delle strutture ospedaliere: con quel piano, nessuno avrebbe tenuto aperto Alzano, perché l'ospedale non sarebbe stato a norma col covid.
Alzano è diventato il capro espiatorio, è servito a coprire colpe di tutti, colpe della regione e del ministero: oggi Marzulli è in pensione ma la sua testimonianza è fondamentale nell'indagine della procura di Bergamo sulla strage della prima ondata.
C'è una cosa che farò fatica a perdonare – racconta Marzulli – è il verbale del CTS del 15 marzo: “il CTS rinnova la necessità di una norma che tuteli i membri del CTS”. Il CTS si preoccupa non dei medici, ma per loro stessi, “sembra una specie di scudo penale”.
Il 18 marzo, tre giorni dopo, arrivarono i camion dell'esercito a prendersi le salme dei morti. E medici andavano come volontari a Bergamo per aiutare i colleghi: “farò di tutto per far si che gli venga riconosciuta una medaglia per valore civile”.
Ma il sacrificio di queste persone non è servito: finché non si comprenderanno le criticità della prima ondata non si risolveranno i problemi alla base, le morti della seconda ondata sono più di quelle della prima, vuol dire che non è stato fatto niente.
La procura di Bergamo ha indagato cinque dirigenti della sanità lombarda, ma ci si aspetta che altre persone saranno coinvolte, anche presso il ministero.
Sono tante le telefonate raccolte da infermieri, medici, da Francesca Nava: persone deluse, devastate, perché la seconda ondata ha travolto gli ospedali, ma non era una tempesta improvvisa.
A Brescia, i medici degli Ospedali Civili, hanno portato avanti una manifestazione di protesta, per settimane, ogni venerdì: avevano visto l'ondata arrivare, avevano capito che si stava per arrivare ad una sanità a due velocità, per chi ha soldi e chi non ne ha.
Due anestesisti dell'ospedale papa Giovanni raccontano alla giornalista i loro consigli scritti su una rivista: come gestire il contact tracing, avere dei covid center, tener puliti gli ospedali, ma purtroppo poco è stato fatto.
Non c'è una regia, nessuno è andato a trovare i malati nelle case: senza regia se ne uscirà solo con tanti feriti e tanti problemi nel sociale.
Vittorio Carreri è una istituzione nella sanità lombarda, a Presadiretta racconta come la Lombardia ha perso la guerra nella prevenzione alla malattia.
Nel 1976 aveva gestito l'emergenza Diossina a Seveso: fu chiamato dall'assessore Rivolta, DC, in regione, per gestire la prevenzione in Lombardia. Nel 1985 hanno istituito 15 dipartimenti di prevenzione: da qui è nata la sanità lombarda, diventando un modello nazionale.
Regione Lombardia ha anticipato di sette anni il decreto del 1992, che ha reso obbligatorio il dipartimento di prevenzione: questo modello è rimasto attivo fino al 1997, ma il colpo mortale lo ha dato la giunta Maroni.
Anziché rafforzare la prevenzione e la medicina del territorio, la riforma di Maroni ha trasformato la sanità in forma ospedalo-centrica, che favorisce il privato che investe dove è più conveniente, lasciando al pubblico solo le cure più rischiose.
La prevenzione ai privati non interessa, perché poco remunerativa: la legge 23 di Maroni non paga bene quello che si fa sul territorio (le cure di prevenzione), non porta utili e non porta utili.
La riforma Maroni prevede che la medicina sul territorio la fanno le ASST da cui dipendono i cento ospedali pubblici: ma in realtà si sono ridotti gli organici, hanno ridotto i programmi di prevenzione, ha messo fondi solo agli ospedali.
La legge 23, per il dottor Carreri, è anche anticostituzionale: accentrando tutto nelle ASST, ha fatto sì che, a novembre, è saltato il contact tracing, perché dovevano gestire una fetta di popolazione troppo alta.
Non è un caso poi che la regione più popolosa abbia poi sbagliato i conti comunicati al ministero, che ha causato la permanenza in zona rossa per una settimana di troppo a gennaio.
E' il modello sanitario lombardo che andrebbe rivisto: la sperimentazione della legge 23 di Maroni è finita a dicembre, l'Agenas ha bocciato questo modello, dice l'agenzia nazionale dei sistemi sanitari.
Con questa riforma si spezza il rapporto tra ospedali e territorio, quello che è mancato per contrastare il covid: dovevamo raddoppiare gli addetti per la prevenzione (e la prevenzione è obbligatoria per legge) e invece li abbiamo dimezzati.
Attilio Fontana dovrebbe riformare la sanità, anche su input del ministro Speranza: eppure il 13 gennaio, in aula al Pirellone, la maggioranza lombarda non ha portato alcun progetto comune, ogni partito ha la sua proposta.
Il consigliere alla sanità, Monti, ha rifiutato l'intervista con Presadiretta, spiegando che c'era il cambio di assessore, con l'arrivo della Moratti. Anche Letizia Moratti, Gallera, Maroni, Fontana hanno declinato l'intervista. Non è il momento.
C'è troppa poca prevenzione sul territorio, “la prevenzione non fa rumore, non da consenso e chi la fa non viene votato”, è l'amara conclusione dell'anestesista di Bergamo.
Francesca Nava ha seguito i medici della “casa di quartiere” di via Quadrio, medici di base e specialisti che hanno visitato i pazienti a casa evitando l'ospedalizzazione.
Hanno usato una strumentazione informatica, con cui raccogliere i dati del paziente a casa, che mandavano un alert al medico in caso di problemi.
Questo è un modello di medicina dal basso: un modello che parte dal medico di base e, nella sala a fianco, possono anche rivolgersi ad uno specialista.
Oggi i medici non si parlano, né negli ospedali e né tra gli specialisti e questo è un problema: perché non si sviluppa questo modello, allora?
Manca l'impulso da parte di ATS e della regione: dovrebbero spalmare sul territorio gli ospedali, in strutture affidate ai medici “di gruppo” a prezzi ragionevoli.
In Lombardia mancano anche gli infermieri di famiglia, che oggi sono stati spostati nelle case per anziani. Ma gli infermieri di famiglia, professionisti che vanno nelle case a fare vaccini, sono inesistenti, non esistono.
Il modello del dottor Aronica è stato comunicato ad ATS, ma è partito un putiferio, perché ci si è chiesto come mai questo progetto è stato fatto solo lì e non in tutta la città. Questa struttura, territoriale, avrebbe impediti che i pronto soccorsi si ingolfassero, che diventassero luogo di contagio.
Ad inizio ottobre medici e infermieri hanno scritto al governo e al ministero una lettera: spostare la gestione degli infetti fuori dall'ospedale, rivedere il sistema sanitario regionale. Chiedevano un intervento importante al parlamento, secondo una comune visione: Romina Zanotti, infermiera in val Seriana, ha portato queste idee al Senato, la sua storia, nel servizio infermieristico integrato che è stato rifinanziato solo nel corso della seconda ondata.
In Lombardia è saltato il contact tracing sul covid ma anche il piano per le vaccinazioni per l'influenza stagionale: mancano i vaccini così i medici devono decidere a chi darlo e chi no.
La regione ha indetto 13 gare, la maggior parte delle quali non è andata a buon fine: chi non è stato chiamato, nella fascia tra i 60-65 anni è dovuto andare dai privati.
Non solo, i vaccini sono arrivati in ritardo e hanno dovuto essere ritirati, con uno spreco di denaro pubblico.
Il sistema era già in crisi prima della pandemia – racconta il deputato regionale PD Astuti: le code per le prestazioni, le code ai pronto soccorsi, il sistema già non funzionava.
“La medicina del futuro deve essere vicina alle persone nel loro luogo di vita” - conclude il deputato.
Riformare la sanità lombarda richiederebbe un gran coraggio politico, ma invece oggi i medici che si permettono di denunciare le criticità del sistema si prendono dei procedimenti disciplinari da parte dei dirigenti. Una deriva che non porterà a nulla di buono.
Medici e infemieri sono eroi quando c'è la pandemia e poi da zittire quando la pensano diversamente da te.
“Obiettivo politico e far veder che va tutto bene” racconta un primario milanese: nella sua struttura sono sotto organico, ci sono procedure che non funzionano, ma non se ne deve parlare, i dirigenti intimidiscono i medici.
Ci sono primari che hanno preso procedimenti disciplinari, ci sono medici che si devono presentare alla stampa come pentiti, rendendosi anonimi, ma hanno paura.
Paura di parlare dell'ospedale creato dalla regione con donazioni pubbliche in Fiera: doveva servire per le terapie intensive, hanno attivato 157 posti, in totale sono stati ricoverati 250 pazienti.
Mancavano infermieri e anestesisti e così li hanno spostati dagli ospedali: è stata solo un'operazione di marketing, dice Carmela Rozza (consigliere regionale), nell'ospedale in Fiera non c'è una camera operatoria, se un paziente sta male va trasferito in ospedale.
Medici e infermieri che non vogliono andare in Fiera sono oggetti di procedimenti e minacce: nessuno vorrebbe andare a lavorare lì, in un sistema non integrato, lontano dagli ospedali, non organizzato.
Il dottor Bruschi, primario del Niguarda, ha subito per un post su Facebook un procedimento: non doveva permettersi di esprimere alcun parere sull'ospedale in Fiera, su quello che non funzionava.
Non si doveva parlare di quanto successo a Monza: da qui sono partiti i medici per andare a lavorare in Fiera, così nella seconda ondata han dovuto chiamare i medici dall'esercito.
Mancano medici e infermieri: nei prossimi cinque anni ne mancheranno quasi duemila, chi lavora negli ospedali deve subire uno stress incredibile, stanchi e senza riposto e col rischio di ammalarsi di Covid.
E così i reparti si sono sguarniti, in piena seconda ondata: a giugno e luglio, si è fatta una valutazione sugli organici?
A Sesto San Giovanni, per rimpolpare gli organici di altri ospedali, sono passati da 11 a 8 anestesisti: quelli rimasti non possono prendere ferie, lavorano tre weekend al mese. Così se possono scappano, magari andando a lavorare in Svizzera dove sono pagati meglio.
Elena Stramentinoli ha girato la Calabria: la medicina del territorio consente a non ammalarsi, salva le vite delle persone, non solo dal Covid.
A San Giovanni in Fiore, un paese di 16mila abitanti in provincia di Cosenza, le donne dell'associazione “Donne e dritti” si sono battute per avere un camper con cui eseguire le mammografie, arrivato il luglio scorso.
“Sono 20 anni che non si facevano mammografie, bisognava andare a Crotone, a Cosenza in posti a pagamento e questo non è giusto perché l'articolo 32 della Costituzione prevede la tutela e la garanzia della salute pubblica .. ”.
Molte donne non fanno il test per problemi economici, qualcosa di non accettabile.
La cosa bella di questa battaglia è che ha portato in molte donne la consapevolezza che ci fosse un problema al seno, prima ancora che non si potesse fare nulla: con gli esami fatti in questo camper si è letteralmente salvata la vita a dieci donne: “abbiamo fatto diagnosi di noduli, opacità” - racconta il responsabile delle screening dell'ASP di Cosenza - “anche perché c'era una sorta di abbandono, lei sa benissimo che l'incidenza del tumore al sud è il doppio di quella del nord, la mortalità è il doppio, noi ci facciamo una domanda e ci diamo una risposta.”
Ora il mammografo andrebbe cambiato, servirebbe un nuovo strumento digitale per questa unità mobile che serve i 156 comuni della provincia. Ogni due anni, per la fascia di età interessata allo screening, devono essere controllate 80mila donne, con un solo camper.
“Ma questo è già un lusso” commenta il responsabile dell'ASP, Francesco Lanzone “perché noi siamo gli unici in Calabria ad avere un camper”.
Per questo la battaglia dell'associazione “Donne e diritti” non è ancora finita: i soldi ci sono, c'è anche la gara d'appalto di Invitalia, ma eppure il mammografo non c'è.
Anziché avere più diritti stiamo andando indietro, siamo donne con la D maiuscola anche in Calabria – racconta un'esponente dell'associazione.
La Calabria è ultima sui test per il tumore all'utero, ultima per pap test: mancano le strutture per fare i test, i consultori vengono smaltellati (come successo a Reggio Calabria). La Calabria nel 2018 ha raggiunto la sufficienza sui parametri dei livelli essenziali, dopo sei anni di insufficienza.
Ma l'assistenza sul territorio è insufficiente: chi ha bisogno di aiuto, per un malato in casa, è costretto a rivolgersi al privato, perché l'ASP non da supporto alle famiglie.
Oggi la Calabria ha 1 miliardo di debiti- racconta il giornalista Adriano Mollo: dal 2008 al 2018 ai tagli della sanità hanno portato ad un aumento della mobilità sanitaria, i calabresi sono costretti a spostarsi fuori regione, perché della loro sanità non si fidano.
A furia di tagli, ci si sposta anche per interventi a bassa intensità, come ernie o cataratta. E chi non ha i soldi per spostarsi né per andare dal privato, non riceve le cure. E magari muore.
La giornalista ha mostrato lo stato dell'ospedale di Siderno, che sta cadendo a pezzi nonostante i soldi per ristrutturarlo ci sono, nelle casse dell'ASP, commissariata.
La regione ha avuto 1,6 miliardi euro per la ristrutturazione di ospedali, per creare delle case della salute, strutture territoriali per sgravare il carico degli ospedali: ma di questi soldi solo pochi ne sono stati spesi.
Così il territorio ha perso tante strutture piccole: nessuna delle case della salute è stata messa in funzione e oggi sono abbandonate.
Il covid ha esasperato questi problemi: la Calabria non si è attrezzata in questi mesi per gestire la pandemia, il contact tracing che è saltato, i tamponi, la gestione dei malati negli ospedali. Una violazione dell'articolo 32 della Costituzione, quello che tutela la nostra salute.
C'è poi un altro problema: in questi mesi non si sono fatti ricoveri e esami per malattie non covid, malattie trascurate per questa malattia.
Il covid è stato un vulnus per la prevenzione di malattie tumorali, abbiamo fatto il 53% in meno di test mammografici tra gennaio e giugno 2020: meno cura e meno prevenzione, perché gli ospedali sono stati travolti dalla pandemia.
Dobbiamo spostare la prevenzione e gli esami specialistici fuori dagli ospedali, altrimenti non usciremo mai da questa crisi sanitaria.
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