Che la giornata non sarebbe stata assolutamente cosa il commissario Salvo Montalbano se ne fece subito persuaso non appena raprì le persiane della càmmara da letto. Faceva ancora notte, per l’alba mancava perlomeno un’ora, però lo scuro era già meno fitto, bastevole a lasciar vedere il cielo coperto da dense nuvole d’acqua e, oltre la striscia chiara della spiaggia, il mare che pareva un cane pechinese.
Dal giorno in cui un minuscolo cane di quella razza, tutto infiocchettato, dopo un furioso scaracchìo spacciato per abbaiare, gli aveva dolorosamente addentato un polpaccio, Montalbano chiamava così il mare quand’era agitato da folate brevi e fredde che provocavano miriadi di piccole onde sormontate da ridicoli pennacchi di schiuma. Il suo umore s’aggravò, visto e considerato che quello che doveva fare in matinata non era piacevole: partire per andare a un funerale.
Confesso: ho amato tanto Andrea Camilleri, non solo le indagini del commissario Montalbano ma anche le storie di Vigata, della Vigata di ieri o della Sicilia di oggi.
Un amore nato dopo
aver visto in televisione le prime due puntate della serie televisiva
nata dai suoi libri, “Il ladro di merendine” e questo, “La voce
del violino”. Da lì ho scoperto questo scrittore e non ho mai più
smesso da allora di leggere, e di rileggere, i suoi libri.
Come
La voce del violino, quarto racconto col commissario Montalbano,
catanese di nascita ma vigatese di adozione: questo racconto è una
storia di “scangi”, per usare il suo amato dialetto:
un violino di poco
valore scambiato per un violino prezioso, un povero ragazzo
“tanticchia ritardato” scambiato per un assassino, un ragazzino
che aveva scambiato famiglia, un funerale scambiato per un altro e
perfino un amore egoisticamente scambiato per salvare la propria
pelle.
Nasce tutto da un incidente, per un gaddrina investita da
Gallo (nei libri di Camilleri può succedere anche questo) che
consente a Montalbano di incappare in un qualcosa che non torna. Quel
particolare che stona che solo una mente investigativa come quella
del commissario può scorgere: come mai nessuno nella villa si
accorge che la macchina davanti il vialetto è stata investita?
Un tarlo che spinge Montalbano, in una serata che già era finita male per una sciarratina con la zita Livia, a scoprire cosa nasconde quel particolare che stona.
Ed eccolo entrare, a
modo suo, senza permesso, in quella villa e scoprire così quel
cadavere: una donna, che doveva essere bellissima prima che qualcuno
la uccidesse, soffocandola schiacciandone la faccia sul cuscino.
Una
volta sul posto, una volta fatto scoprire il cadavere da una denuncia
anonima (che poi tanto anonima non è), Montalbano e i suoi scoprono
che sul posto arriva la scientifica di Fela perché, per qualcuno che
vede il suo lavoro solo come una questione di numeri, meglio che il
cadavere non cada nel computo della Questura di Montelusa.
Michela
Licalzi, la giovane donna uccisa, era a Vigata per la
ristrutturazione di quella villa: un marito dottore a Bologna e un
amante stabile, sempre a Bologna. Queste le informazioni raccolte
dall’amica Anna Tropeano, una delle poche amiche in Sicilia di
Michela.
Un delitto di un maniaco, come vorrebbe il pm Tommaseo, forse troppo amante delle piste morbose. No, forse un delitto passionale.
Secondo le voci del
paese, c’era quel mezzo parente, il figlio dell’ingegnere Di
Blasi, un cugino del marito, che la seguiva sempre, Vigata Vigata. Un
ragazzo con qualche problema, ma un pezzo di pane. È lui
l’assassino? Non lo pensa Montalbano, ma non importa. Quel
Questore, col doppio cognome, Bonetti Alderighi, ha affidato al caso
al capo della Mobile che, diversamente dal commissario, è una
persona ovvia. E allora perché non addossare tutte le colpe a
quell’assassino così ovvio?
Per risolvere il caso Montalbano porterà avanti coi suoi uomini, il fidato Fazio, il fratello così amato e odiato Augello, dovranno portare avanti una loro indagine di nascosto, come un sommergibile sott’acqua, per non rischiare la carriera: tante cose non tornano in quel delitto, il comportamento di Michela quella sera prima di tutto, come se avesse ricevuto una chiamata all’improvviso che l’aveva portata a disdire i suoi appuntamenti.
C’è anche un altro tarlo, che non se ne vuole andar via dalla testa di Montalbano, quel particolare che non torna nelle immagini che la sua mente ha catalogato nella sua mente da sbirro.
Particolare che
andrà al suo posto andando ad ascoltare la “voce del violino”:
"Gli parse che a un tratto il suono del violino diventasse una voce , una voce di fimmina, che domandava di essere ascoltata e capita. Lentamente ma sicuramente le note si stracangiavano in sillabe, anzi no, in fonemi, e tuttavia esprimevano una specie di lamento, un canto di pena antica che a tratti toccava punti di un'ardente e misteriosa tragicità.
Questa commossa voce di fimmina diceva che c'era un segreto terribile che poteva essere compreso solo da chi sapeva abbandonarsi completamente al suono.
Chiuse gli occhi, profondamente scosso e turbato. Ma dentro di se era magri stupito: come aveva fatto quel violino a cangiare così tanto di timbro dall'ultima volta che lo aveva sentito?"
Si parla di un delitto in questo romanzo, di un matrimonio di convenienza e di una bellissima donna che non passava inosservata ma con una sua delicatezza, per quell’ampio bacino di Venere che tante donne hanno. Si parla anche di un povirazzo fatto passare per un assassino, di uno sporco depistaggio che rischia poi di ritorcersi contro la “sporca mezza dozzina” che l’aveva architettato.
Ma si parla anche della Sicilia più nascosta, quella dell’interno, quella delle trazzere dove non metterebbe piede nemmeno una capra. C’è spazio anche per il racconto del Montalbano uomo, che si scopre all’improvviso privato della sua indagine e anche della sua possibile paternità. Anzi, della sua difficoltà nel sentirsi padre.
“Comunista arraggiato”, come lo chiama ad un certo punto Fazio, per quello che Montalbano pensa delle manganellate agli scioperanti, ma anche regista occulto del notiziario dell’amico Nicolò Zito, che lo aiuterà a veicolare certi messaggi a chi deve capire, per forzare le cose.
Il libro è ricco di passaggi da ricordare, sono tante le pagine della mia vecchia edizione Sellerio con una orecchietta, con sottolineature (a matita): questa quella che, a distanza di anni, ancora mi ritorna in mente quando penso a questo libro
«A mamà era biunna?» aveva domandato una volta il piccolo Salvo al padre.
«Frumento sutta u suli» era stata la risposta
La scheda del libro sul sito di Sellerio
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