28 febbraio 2024

Betty la nera, di Walter Mosley


 

Erano in piedi sotto una violenta luce gialla nel vicolo sul retro del bar di John. Bruno Ingram detto “Big Hand” era grande e forte, e sapeva muoversi con ritmo baldanzoso anche quando stava immobile. Per un pelo non caddi dalla sfraio sulla veranda. Poi mi ricordai di quanto faceva caldo, in casa..

Se non avete mai letto niente di Walter Mosley, beh questa è l’occasione giusta per recuperare: la casa editrice 21 lettere sta ripubblicando i suoi noir, la serie con protagonista l’investigatore di colore Ezechiel “Easy” Rawlins precedentemente pubblicati da Mursia.

Quest’ultimo è ambientato a Los Angeles nel 1961, negli anni del sogno americano e della nuova frontiera di Kennedy, quando si immaginava (e si lottava) per un’America diversa, con meno tensioni razziali, con meno disuguaglianze..

Le cose non andarono proprio così – se ancora oggi ci sono persone che scendono in piazza gridando “black lives matters”: leggendo le pagine di questo romanzo comprenderemo però quale fosse il clima di quell’America, dove il sogno americano aveva anche un lato nero.

Pedagogia del ghetto “Papà?”

Sì?”

Perché gli uomini di colore si uccidono sempre fra di loro?”

(Lunga pausa) “Si esercitano”.

In una mattinata che si annuncia già calda, nella sua casa si presenta un ometto che gli offre un lavoro: deve ritrovare una donna di colore che lavorava presso una signora, in una di quelle ville a Beverly Hills, dove è difficile entrare per un nero senza dare troppo nell’occhio. Da qualche tempo è andata via e la signora la vuole ritrovare.

Easy avrebbe tanta voglia di mandarlo via, ha già abbastanza problemi, ci sono quei due figli da crescere: Jesus, il maschietto, un ragazzino con un brutto passato che ha deciso che non vuole parlare; e Feather, la bambina, che la mattina gli si stringe felice. Non sono veramente figli suoi, ma è come se lo fossero, avendoli strappati ad un brutto destino.
L’amico Mouse è in carcere e ogni notte, compreso questa, Easy sogna quando l’amico sparò a Bruno. Anche Martin, amico da una vita, stava lentamente morendo di un brutto male..

Ma quella Betty non è una donna di colore qualunque: il nome di questa donna che gli da il signor Lynx, un uomo piccolo il cui naso “era la sola cosa grande che avesse” fa tornare a galla vecchi, e piacevoli, ricordi

Ha mai sentito parlare di una donna che si chiama Elizabeth Eady?” chiese. Quel nome fece vibrare nella mia mente una corda dolorosa.

Elizabeth, Betty, era di una bellezza che non passava inosservata, aveva qualcosa che faceva uscire pazzi gli uomini, compreso il piccolo Eazy, che di Betty era diventato quasi un amico, innamorandosene.
Inizia così, con una foto di una donna da ricercare, la nuova indagine di Easy: si rivolge all’amico Odell, pure lui la conosceva: un giorno dalla loro casa era passato il fratello di Betty, uno a cui piaceva scommettere su tutto, a Odell e alla moglie aveva detto che presto avrebbe lasciato la città.
La pista delle scommesse lo porta a prendersi un pugno in faccia da un certo Terry Tyler.

Più promettente la pista che, con l’aiuto di una bibliotecaria lo porta alla casa dove abitava Marlon: non trova nessuno in casa, eccetto dei pantaloni di Marlon con dentro un assegno da 5000 dollari e del sangue. Sangue umano.

Quell’assegno è un’altra pista: sopra sta scritto il nome Sarah Cain, forse la signora da cui lavorava Betty.

Noi poveri siamo sempre pronti a morire. Ci aspettiamo sempre che là fuori ci sia qualcuno che vuole ucciderci.
Per questo non mi sono mai stupito del fatto che un bianco tiri fuori una pistola, quando vede un negro. In America è così che vanno le cose.

Dietro la scomparsa di Betty c’è qualcosa che non torna, qualcuno sta mentendo: Easy lo capisce subito, dopo aver parlato con la signora Cain nella sua bella villa, dove vive assieme al figlio e ad una domestica di colore. Ma lo capisce ancora meglio quando viene arrestato dalla polizia che inizia a chiedergli cosa sappia della morte del signor Cain.

Cosa c’entra la morte del padre di Sarah Cain e cosa potrebbe sapere Betty di questa storia?
E, poi, come mai se ne è andata, come se stesse sfuggendo da qualcosa, senza dir niente a nessuno?
Non sono solo le botte della polizia, perché un nero non ha gli stessi diritti dei bianchi. C’è anche una coltellata presa mentre perlustra una casa.

Nella testa di Easy c’è un secondo problema: ha fatto diversi investimenti in proprietà immobiliari ma un giorno scopre che la sua amica Clovis lo sta fregando, su un terreno che avevano comprato e su cui il comune ha bloccato il suo progetto.

Infine deve preoccuparsi di Mouse che, uscito di prigione, ha deciso di vendicarsi, deve ritrovare chi l’ha denunciato alla polizia con una telefonata anonima quella sera in cui ha sparato a Bruno.

Easy deve fare qualcosa per fermare quella che potrebbe diventare una carneficina:

Mi era più vicino di un amico e mi aveva salvato la vita più volte di quante dovrebbe servire a un uomo. Mouse era l’oscurità della parte nascosta della luna.

Arriverà molto vicino a vedere la morte, quella pallottola con su scritto il proprio nome, perché sono in tanti ad essere interessati a trovare Betty, non tutti con buone intenzioni.

È il perché sta tutto dentro i segreti della famiglia Cain e il loro patrimonio: una vicenda che mette assieme avidità e razzismo. Il razzismo di quei bianchi che consideravano gli altri, i neri, i messicani, i giapponesi, come esseri inferiori, destinati a lavorare nei campi sotto il sole, donne e bambini, perché quello era il loro destino

In alcuni dei lunghi corridoi ombrosi, lavoravano uomini, donne e bambini in abiti bianchi che li rendevano simili a fantasmi. Erano quasi tutti messicani con qualche negro e pochi giapponesi.

C’è un passaggio in cui Easy se li trova di fronte, questi schiavi (negli anni sessanta non nell’800), e chiede conto ad una ragazza, anche lei di colore, abituata a queste scene, perché in fondo si era sempre fatto così in famiglia

E quei bambini?” Indicai un viale semibuio oltre il suo naso. “Non credi che quei bambini dovrebbero essere a scuola?” [..]
“Quei bambini laggiù. È contro la legge far lavorare i bambini in quel modo”.
“Stanno solo aiutando i loro genitori. Non è che siano pagati”.

Betty la nera è un noir di quelli belli tosti da digerire, non solo per la complessità dell’intreccio del racconto (che solo alla fine verrà svelato), ma per come racconta quella società americana, dal punto di vista dei neri, costretti sempre a difendersi, a doversi proteggere dai bianchi, dai poliziotti

I criminali erano soltanto una banda di farabutti che viveva del guadagno delle persone oneste e dei ricchi. Anche i poliziotti erano dei farabutti; pagati dai proprietari per tenere a bada gli altri farabutti.

Ma, a volte, anche da altri neri come loro:

Sapevo che la vita era dura, però speravo che se qualcuno mi rubava qualcosa lo facesse perché aveva fame o perché ne aveva bisogno. Ma se uno ti tira giù, lo fa solo per vederti cadere.

Altri romanzi di Walter Mosley letti

La scheda del libro sul sito dell’editore 21 lettere

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon


26 febbraio 2024

Presadiretta – terra occupata

Le 30mila vittime civili palestinesi a Gaza, una prigione a cielo aperto. I 134 ostaggi israeliani ancora in mano di Hamas e la battaglia dei parenti contro l’azione del presidente Netanyahu. La violenza dei coloni in Cisgiordania, che si sta prendendo la terra dei coloni e il fallimento degli accordi di Oslo.

In Libano si vive nel terrore che il conflitto si allarghi, mentre stanno vivendo una crisi economica.

Infine l’Ucraina, dove i soldati al fronte dopo due anni di guerra sono stremati: le mogli scendono in strada per chiedere che tornino a casa.

Israele in ostaggio

Questi gli argomenti della puntata di Presadiretta di questa sera: un lungo racconto che comincia con la battaglia di Avichai Brodutch, sua moglie e i tre figli sono nelle mani di Hamas. Il 14 ottobre inizia la sua battaglia silenziosa e disperata per farli tornare a casa: la sua protesta si è allargata ad altri familiari, chiedono le dimissioni del primo ministro del loro paese.

Temono che il governo non stia dando priorità al ritorno a casa degli ostaggi: i familiari hanno incontrato il presidente Herzog, sconfortati per non aver ricevuto rassicurazioni.
Avichai è diventato simbolo della protesta, scontrandosi anche con un parlamentare del partito Likud: Hamas ha chiesto il rilascio di tutti i detenuti palestinesi, per rilasciare gli ostaggi, ma il governo israeliano ha scelto di non negoziare, portando avanti la battaglia a Gaza.

I familiari sono stati aiutati da un ex astronauta israeliano, che ha pagato i loro viaggi nel mondo, dove portano il loro messaggio di pace.

Il governo Netanyahu è concentrato nella distruzione di Gaza – racconta in televisione Avichai: dopo sei settimane anche la loro protesta ha portato ad un accordo di cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri,5 soldatesse in cambio di quindici palestinesi nelle carceri israeliani, questo l’ultima ipotesi di accordo. Ma la guerra andrà avanti ancora.

Diplomazia parallela

Attorno alle famiglie degli ostaggi c’è l’attenzione di una buona parte della società del loro paese: anche loro sono entrati nei negoziati, con una forma di diplomazia parallela, assieme ad ex ambasciatori come Alon Diel che stanno supportando le famiglie che non si sono fidate della strategia ufficiale del governo.

Si deve parlare anche coi leader di Hamas, anche se lo odiamo, perché questo accordo va fatto con Hamas – racconta a Presadiretta Alon Diel: la morte di Rabin ha depotenziato gli accordi per i due stati, facendo crescere i movimenti estremisti.

I figli di Avichai sono tornati a casa: la vittoria per gli israeliani arriverà quando torneranno tutti a casa – racconta un altro familiare che aggiunge – servirà un accordo con Hamas.

Sono stati liberati 105 ostaggi fino ad oggi: anche l’ipotesi del nuovo scambio, le cinque soldatesse, non fermerà la guerra, l’ultimo baluardo di Hamas è Rafa, dove però vivono tanti civili, a ridosso della frontiera con l’Egitto.

Rafa è la destinazione finale della popolazione palestinese, che ha trasformato la città in una enorme tendopoli, senza servizi igienici e acqua, col terrore per le persone che stanno qui che ogni giorno sia l’ultimo.

Rafa doveva essere un rifugio sicuro, ma ora per Israele è l’ultimo bastione di Hamas: l’esercito entrerà anche qui e sarà un massacro per la popolazione.

Non sono risparmiati nemmeno ospedali, anche quello di Medici senza Frontiere: da Rafa arrivano a singhiozzo i camion con gli aiuti umanitari per i civili, ma non bastano per le esigenze minime della popolazione.

Ogni giorno estremisti israeliani si mobilitano per non far entrare cibo e aiuti a Rafa, ma sono anche assaltati dai disperati della striscia alla ricerca di qualcosa da mangiare.

La situazione a Rafa e in tutta la striscia è raccontata solo dai giornalisti palestinesi (molti dei quali uccisi per la guerra), altri giornalisti non sono ammessi: le loro testimonianze sono crude, come quelle dei bambini operati senza anestesia, eppure non fanno il giro del mondo, troppo scomode forse.

Solo chi ha i soldi, 5000 dollari, può scappare da Gaza: la guerra è un affare per tanti sciacalli che ne approfittano. Chi vuole andarsene non ha nemmeno un corridoio umanitario per sfuggire dalle bombe.

Terra occupata

In Cisgiordania si è aperto un altro conflitto: qui doveva sorgere lo stato palestinese, ma i loro territori oggi sono attaccati dai coloni israeliani.

Presadiretta ha raccolto la testimonianza di un ex soldato: case prese dai palestinesi e confiscate, una occupazione militare di territori che dovrebbero essere dei palestinesi. Le colonie sono insediate in modo strategico per separare i villaggi, si costruiscono nuovi avamposti, che domani diventano nuove colonie.

Gli attacchi dei coloni costringono i residenti palestinesi a scappare: un esproprio avvenuto con violenza e legalizzato dalla polizia e dall’esercito.

Ai pastori è impedito il ritorno alle loro case: dall’inizio del 2023 sono più di duemila gli attacchi, secondo una ricerca fatta da questa ONG solo nell’ultimo anno circa 110 chilometri quadrati della Cisgiordania sono stati annessi dai coloni ai loro avamposti illegali: negli ultimi cinque anni hanno di fatto preso il controllo del dieci per cento dell’area C.

La politica del governo israeliano li agevola nel costruire, la politica è quella di svuotare la terra dai palestinesi e di annetterla, di rubare questa terra.

In Cisgiordania si vive sotto un regime militare – racconta un ragazzo palestinese che vive nell’area C – tutti i permessi di costruzione sono negati, i coloni attaccano le persone, li minacciano.

LE colonie sono illegali, ma secondo Israele non c’è illegalità perché i palestinesi non sono cittadini di uno stato, quei territori che Israele vuole annettersi non sono considerati parte di un altro stato sovrano.

La fine dei palestinesi sarà quella degli indiani, confinati in tante piccole riserve isolate tra di loro?

L’esercito israeliano ha il potere di bloccare le strade, anche senza veri pericoli, bloccando la circolazione delle persone.

Tutto questo non fa che crescere la tensione contro gli israeliani: a Jenin si trova il campo profughi dei palestinesi che nel 1948 hanno dovuto abbandonare le loro terre, sui muri delle case sono presenti i segni dei proiettili perché ogni due giorni ci sono raid dell’esercito.

In uno di questi raid sono morti due bambini, di 13 e 15 anni, sparati dai soldati su una jeep. La loro colpa? Stavano lanciando degli oggetti sui soldati..

Le violenze si susseguono anche a Gerusalemme: dal 7 ottobre ai palestinesi è proibito l’accesso alla moschea, si sono susseguiti degli scontri tra l’esercito e dei civili.

Perché sono falliti gli accordi di Oslo?
Il 13 settembre del 1993 alla Casa Bianca Rabin e Arafat si stringono la mano in presenza del presidente Clinton: gli israeliani riconoscono l’OLP e il suo diritto a rappresentare i palestinesi.

Gli accordi sono nati ad Oslo: Israele non poteva negoziare direttamente con l’OLP, così si scelse un palazzo ad Oslo, racconta l’ex diplomatico Egeland, dove i negoziatori si incontrarono sotto le spoglie di un programma di ricerca.

L’ex viceministro Beilin racconta delle trattative, del riconoscimento reciproco, di un accordo definitivo che doveva arrivare dopo cinque anni.

Basta sangue e lacrime” sono le parole di Rabin: ma dopo l’accordo scescero in campo gli estremisti, i religiosi ortodossi e la destra estrema.

L’attuale ministro della Difesa era in piazza in quei giorni, fu lui il responsabile del danneggiamento dell’auto di Rabin e a guidare la protesta c’era proprio Netanyahu.

Dopo le manifestazioni in piazza si arrivò ad un attacco ad una moschea, cui seguì la risposta di Hamas con attacchi suicidi in Israele contro i civili, Hamas si era sempre opposta agli accordi con Israele.

Il 4 novembre 1995 in una manifestazione a Tel Aviv, a difesa degli accordi, un estremista ortodosso uccide Rabin: fu un grave contraccolpo per il processo di pace, che si interruppe.

Alle elezioni del 1996 il paese svolta a destra con l’arrivo di Netanyahu: il suo governo abbandonò gli accordi di Oslo, che non erano concepiti come permanenti. Da quegli anni l’espansione in Cisgiordania si è espansa, i coloni da 130mila sono passati a 800 mila, la vita dei palestinesi è peggiorata, tutti i loro diritti sono stati ristretti.

Le colonie si espandono, si usa l’arma della sicurezza di Israele per giustificare questa occupazione di territori in Cisgiordania: ma tutto questo non porterà ad alcuna sicurezza – racconta la relatrice dell’Onu Elena Basile che aggiunge che la fine del conflitto arriverà solo quando cesserà la fine dell’occupazione e la nascita di uno stato palestinese.

Ma oggi Netanyahu ha bloccato tutto, spiegando che in questo momento non c’è spazio per uno stato palestinese, a peggiorare le cose c’è il rischio che il conflitto si allarghi ad altri paesi, come in Libano.

La crisi in Libano

In Libano c’è una crisi economica e sociale che dura da cinque anni: anche qui c’è una guerra, di fatto, che costringe le persone a vivere una situazione di povertà, non potendo curarsi, non potendo mandare i propri figli a scuola.

Sono saliti i prezzi delle materie prime, il turismo è scomparso, le attività commerciali si stanno chiudendo una dopo l’altra. Anche ad Hamra Street, il cuore di Beirut.

La colpa è la paura che la guerra arrivi fino a qui: la paura colpisce tutti, cristiani e musulmani, per questo tutti i politici cercano di gettare acqua sul fuoco, anche in opposizione ai desideri di Hezbollah.

Ci sono quartiere nelle mani di Hezbollah, che controlla le strade, controlla la popolazione dando pacchi di aiuti alle famiglie.

La guerra è arrivata fin qui coi missili caduti in Libano che hanno ucciso leader di Hamas: nonostante questo Hezbollah ha scelto di non andare allo scontro diretto con Israele.

Anche qui, in Libano, la vita dei palestinesi è difficile, nei campi profughi come quello di Sabra e Chatila (dove avvenne la strage per mano delle falangi cristiano maronite protette dall’esercito israeliano), nei palazzi dove le persone sono ammassate. Non hanno documenti per andare all’estero, non riescono a lavorare, non possono curarsi perché non hanno soldi per pagarle.

Dipendono per tutto dagli aiuti dell’agenzia delle Nazioni Unite, UNRWA: è la povertà a spingere tanti nelle mani dei terroristi.

Guerra chiama guerra: gli scontri tra l’esercito israeliano e Hezbollah sono in crescita, continuano gli attacchi dei Houthi nel mar Rosso e i negoziati fanno fatica ad ottenere dei risultati.

Ucraina due anni di trincea

Iacona è stato in Ucraina nello scorso gennaio per incontrare le mogli dei soldati al fronte: tutte aspettano notizie dai loro cari, sperano in un loro ritorno a casa dopo due anni di battaglie.

Tutte sperano di cacciar via gli invasori, ma i soldati scomparsi, dispersi, devono tornare a casa, molti sono ancora prigionieri nelle mani dei russi.

Anastasia è una ragazza che si occupa di moda: con la sua pagina Facebook sta raccogliendo soldi per aiutare i soldati, come kit notturni e perfino armi o droni. Ai soldati mancano le armi per vincere la guerra come sperano in tanti.

L’equipaggiamento per i soldati, i droni, arrivano dagli aiuti dei civili, ma il problema è che mancano i soldati: la gente ha capito che l’interesse dell’Europa in questa guerra è calato, le armi che servirebbe non arrivano più come si aspettano.

Ci sono le critiche delle madri e delle mogli dei soldati, logorati da due anni due guerra: i soldati stanchi devono essere rimpiazzati, per non perdere la guerra.

È una critica a come viene portata avanti la guerra: servono forze fresche dai civili oggi a casa per portare avanti questa guerra di trincea.

Iacona è andato ad intervistare la moglie di uno dei tanti soldati al fronte, Anastasia, il marito si chiama Vitaly ed è al fronte da due anni: “in televisione si dice solo che tutto va bene, non parlano del fatto che l’esercito è esausto, che i soldati devono essere sostituiti, che ci sono così tanti morti e feriti, non dicono che ci sono brigate dove l’organico è dimezzato, invece bisogna raccontare al paese che l’esercito è stremato e che è il dovere di tutti arruolarsi per difendere l’Ucraina, questo bisogna dire in televisione. La propaganda non serve a nessuno: io non ho paura di nessuno, l’unica paura che ho è di perdere mio marito, tutto il resto non ha alcuna importanza, che venga pure a casa la polizia o i servizi segreti, io continuerò a difendere i nostri uomini che ora stanno combattendo per noi.”

Gli arruolamenti di massa dei primi giorni non ci sono più: servono più armi all’Ucraina, chiede l’ex presidente Poroshenko, anche per convincere gli stessi ucraini ad andare a combattere, col rischio che l’offensiva di Putin metta in crisi ancora di più l’esercito.

Da una parte la richiesta di armi dall’altra la crisi della diplomazia, in Ucraina e anche in Israele, le dichiarazioni dei leader politici stessi, che non fanno altro che incendiare ancora di più la situazione.

Anteprima Presadiretta – terra occupata

Pare che ci si debba rassegnare a questo clima di preparazione alla guerra: perché per le guerre esplose, al momento, sembra non esserci alcuna soluzione diplomatica: in Ucraina, a Gaza, in Libano.

E perché si sente più spesso ripetere, dalla Nato, dai vertici degli stati maggiori degli eserciti, che dobbiamo spendere più soldi in armamenti.

Perché dobbiamo essere pronti qualora dovesse scoppiare una guerra qui dentro l’Europa.

In un recente talk su La7 un giornalista, considerato uno di quelli competenti, rinfacciava al professor Montanari “si ricorda quali guerre sono finite con un accordo?”.

Così dobbiamo rassegnarci alla guerra di posizione in Ucraina, al tiranno Putin che le sanzioni non hanno scalzato, agli altri autocrati più o meno tiranni a seconda della convenienza.

E alle morti civili e militari, alle distruzioni di case, ospedali, scuole.

In nome di chi parlano, i signori della guerra? Non di certo in nome delle famiglie dei soldati mandati al fronte in quella che è diventata una guerra di posizione: le madre dei soldati ucraini sono scese in piazza a Majdan, per chiedere che dopo due anni al fronte tornino a casa e vengano sostituiti da altri ucraini, portano in piazza cartelli con su scritto “i soldati stanchi devono essere rimpiazzati” oppure “soldati stanchi = guerra persa”.

Iacona è andato ad intervistare la moglie di uno dei tanti soldati al fronte, Anastasia, il marito si chiama Vitaly ed è al fronte da due anni: “in televisione si dice solo che tutto va bene, non parlano del fatto che l’esercito è esausto, che i soldati devono essere sostituiti, che ci sono così tanti morti e feriti, non dicono che ci sono brigate dove l’organico è dimezzato, invece bisogna raccontare al paese che l’esercito è stremato e che è il dovere di tutti arruolarsi per difendere l’Ucraina, questo bisogna dire in televisione. La propaganda non serve a nessuno: io non ho paura di nessuno, l’unica paura che ho è di perdere mio marito, tutto il resto non ha alcuna importanza, che venga pure a casa la polizia o i servizi segreti, io continuerò a difendere i nostri uomini che ora stanno combattendo per noi.”

Anche in Israele, i familiari delle vittime dell’attacco del 7 ottobre scorso, attendono risposte dal loro governo: uno di questi si chiama Avichai Brodutch, il 14 ottobre ha iniziato la sua protesta solitaria davanti al quartier generale dell’esercito israeliano a Tel Aviv. Poche parole scritte a mano su un cartello: “la mia famiglia è a Gaza”, perché in quel momento la moglie e i suoi tre figli sono a Gaza, rapiti durante l’attentato di Hamas del 7 ottobre. A mezzogiorno si uniscono ad Avichai altri familiari degli ostaggi e con loro arrivano persone da tutto il paese, decine di giornalisti: con un gesto disperato Avichai ha innestato un movimento. Un movimento di cittadini che chiedono il ritorno a casa degli ostaggi, dei loro familiari, alcuni chiedono le dimissioni del primo ministro “che ha fallito e non ha protetto i suoi cittadini..”.

Il servizio racconterà anche degli avamposti dei coloni in Cisgiordania, monitorati dalla ONG KeremNavot: molti sono sorti in modo illegale ai tempi del covid, una delle prime azioni del nuovo governo Netanyahu appena insediato fu di condonare nove avamposti non autorizzati trasformati in insediamenti legali. Secondo una ricerca fatta da questa ONG solo nell’ultimo anno circa 110 chilometri quadrati della Cigiordania sono stati annessi dai coloni ai loro avamposti illegali: negli ultimi cinque anni hanno di fatto preso il controllo del dieci per cento dell’area C.

La politica del governo israeliano li agevola nel costruire, la politica è quella di svuotare la terra dai palestinesi e di annetterla, di rubare questa terra


Ucraina, Gaza e poi il Libano un paese oggi divorato da un crisi economica i devastante, come si può vedere girando nella periferia nord di Beirut in uno dei quartieri più poveri, ai balconi al posto delle tende ci sono i teli dell’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite. Qui vivono sia cristiani che musulmani, persone come Graziela che si è trasferita qui dopo aver perso il lavoro: era una cuoca, aveva lavorato in diversi ristoranti ma ora non c’è più lavoro da nessuna parte – racconta a Presadiretta – la situazione è precipitata per noi due anni fa quando il figlio ha iniziato a soffrire di diabete, “è stato un duro colpo perché non abbiamo nessuna assicurazione, questo è il Libano di oggi, non c’è lavoro, se hai un figlio malato non puoi curarlo ..”
Nel cuore di Beirut, Hamra Street, si vedono tanti negozi chiusi , in quelli aperti non c’è nessun cliente: a Presadiretta un panettiera mostra il guadagno della giornata, 400mila lire libanesi che oggi valgono circa 4,5 dollari, pochi anni fa valevano 330 dollari, ci si poteva comprare un motorino con questi soldi.

La scheda della puntata:

A due anni dall'intervento russo in Ucraina, a quattro mesi dalla strage compiuta da Hamas in Israele e dall'inizio dell'operazione dell'esercito di Tel Aviv a Gaza, PresaDiretta attraversa i territori devastati dalle tante, troppe guerre in corso. In Israele tra i pacifisti e i familiari degli ostaggi che chiedono di fermare l'intervento militare a Gaza, in Cisgiordania dove si assiste all'avanzata dei coloni ebrei nelle zone dove vivono i palestinesi. Che fine hanno fatto le ragioni della pace, quelle che avevano portato agli accordi di Oslo nel 1993? E poi ancora a Beirut che sta vivendo nel timore che il conflitto si estenda anche in Libano, un Paese già divorato da una crisi economica senza precedenti. In Ucraina Riccardo Iacona ha raccolto le testimonianze delle mamme e delle mogli dei soldati scomparsi nel nulla, dei familiari dei ragazzi che da mesi combattono al fronte senza avere la possibilità di tornare a casa. A PresaDiretta la guerra, con i suoi stalli e i tanti tentativi andati falliti per arrivare una volta per tutte alla pace.


Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

25 febbraio 2024

Indovina chi viene a cena – la sostenibilità dell’ecobonus e della moda

La sostenibilità dell’ecobonus.

Avremo tonnellate di polistirolo da smaltire, al prossimo ecobonus: il bonus doveva rilanciare il settore delle costruzioni per rifare le case degli italiani, ma ha in parte fallito nel suo scopo.

Sabrina Giannini ha mostrato come si potevano costruire i cappotti con la canapa: ma i produttori dei cappotti con questo materiale naturale sono stati tagliati fuori dalle leggi fatte per il bonus.

Esistevano altre opzioni al polistirolo, al poliuretano, meno costosi per i produttori, ma più inquinanti: la canapa o anche gli scarti del riso, che potevano essere usati nell’edilizia, ma forse era troppo bello per essere vero.

E pensare che una volta eravamo grandi produttori di canapa, poi l’ideologia contro questo prodotto ha rovinato un settore, costringendoci ad importarla dalla Francia.

Anche il riso ha una storia antica: le cascine in Piemonte venivano fatte una volta con gli scarti di riso.
Potevamo fare come la Francia, che ha imposto per i prossimi anni che il 50% degli edifici pubblici sia fatto con materiali naturali, come il riso appunto.

Se avessimo usato per il bonus casa il riso, avremmo evitato di buttarlo via, come scarto.

Ma resti della pula di riso sono state trovate dentro la grande muraglia cinese: la guerra tra i partiti fatta sul superbonus è stata tutta una truffa, ci si doveva concentrare sui materiali naturali per la bioedilizia.

La sostenibilità della moda

Che fine fanno gli abiti usati? Quanto è sostenibile la moda e il settore del fast fashion? È un tema importante nei giorni della moda a Milano.

Le influencer intervistate dalla trasmissione non ne sapevano nulla: ci riempiamo la bocca di sostenibilità ambientale, di green, ma spesso è greenwashing.

Nemmeno la celebre influencer Ferragni ha voluto rilasciare una intervista a Sabrina Giannini, meglio far finta di rivolgersi ai suoi follower in modo unidirezionale: il messaggio è sempre lo stesso, desidera, compra e consuma. E poi getta via.

Le influencer da milioni di follower non conoscono la tracciabilità della pelle dei cavalli, si spaventano di fronte a queste domande: “oddio non sono preparata” “magari facciamo dopo”..

Eppure potrebbero lanciare messaggi importanti, sulla vera sostenibilità, sull’origine della pelle usata per le borsette, queste influencer.

Ma a parlare di queste cose, a fare domande scomode, si rischia di rimanere fuori dagli spazi dove si mostrano i nuovi capi delle collezioni.


Collezioni che sono prodotte sempre più fuori dall’Italia, come ha fatto Rosso con la sua Diesel, che ha delocalizzato in Marocco. Si sposta la produzione fuori ma poi si continua a chiamare made in Italy. In che modo si produce all’estero? È una produzione rispettosa dei diritti dei lavoratori? È una produzione sostenibile?

Quante domande scomode, mentre è così comodo produrre in Marocco.

Una camicia costa 2,5 euro, in Italia si vende a 65 euro: nell’etichetta c’è scritto che dentro il prezzo c’è un contributo per mantenere il “green” nel pianeta.

I capi di diversi marchi italiano sono prodotti in capannoni dove si lavora in scantinati senza finestre, dove le donne lavorano per nove ore al giorno.
La metà dei lavoratori tessili lavora in nero in Marocco, per uno stipendio inferiore a quello minimo: anche i sindacati fanno fatica ad esporsi, hanno paura del datore del lavoro, per la possibilità di essere licenziati.

Signori, il greenwashing è servito: in questi scantinati si usano prodotti chimici senza porsi troppi problemi, con trattamenti che in Italia non sarebbero usati o proibiti.

Come il permanganato di potassio spruzzato sui pantaloni per scolorirli: servirebbero le protezioni dentro i laboratori che producono i jeans, ma in quello visitato dalla giornalista, non si usano particolari precauzioni.

Poi sull’etichetta del capo basta scrivere “basso impatto ambientale” e la coscienza è a posto.

La ricerca del maggior profitto porta i grandi brand a trovare paese dove il costo del lavoro è più basso: dal Marocco, alla Turchia, al Bangladesh, perché quando un capo piace al consumatore, viene prodotto in milioni di capi e allora serve la produzione di massa.

Sabrina Giannini ha ricordato il crollo di un’azienda tessile in Bangladesh in cui morirono tante lavoratrici: producevano capi per marchi italiani che poi fanno campagne contro il razzismo, per l’ambiente.

Come ha stabilito uno studio dell’Unione Europea, il 50% delle etichette dei capi è fuorviante o falsa: le aziende stesse si sono create delle regole – l’indice di sostenibilità ambientale - per potersi poi dare il marchio di green, di sostenibile, in mancanza di un regolamento mondiale.

Esiste il cotone veramente Green, come quello della Puredenim, a Inveruno: il cotone naturale ha un colore bianco, il problema è quando lo devi colorare. Alla Puredenim usano coloranti ottenuti dalla elettrolisi (e non dalla chimica), una tecnica svizzera adattata da Luigi Caccia nella sua tessitura.

Una tecnica molto innovativa che fa a meno dei metalli pesanti, come l’idrosolfito (lo stesso usato nei vini).

L’Europa lascia che siano gli imprenditori a scegliere il sistema di tintura, quello meno inquinante: non tutti faranno come il signor Caccia, che per la sua scelta è stato penalizzato, perché i suoi jeans sono solo in color indaco, non hanno altri colori, per evitare l’uso della chimica.

Non basta etichettare il pantalone come cotone organico o cotone biologico: se poi usi la chimica per colorare i pantaloni. Non c’è molta etica in questo settore, né ambientale né sociale – racconta a Sabrina Giannini Luigi Caccia, è solo greenwashing, una bella narrazione che dietro non ha niente.

L’innovazione della sua industria non è stata finanziata da nessuno, in Italia o in Europa e nemmeno dai grandi brand.

Ma non è il caso della Dondup a Fossombrone, azienda che produce capi con tessuti che non usano la chimica: essere un’azienda sostenibile, per davvero, è stato un minus nei primi anni dell’attività, hanno dovuto tenere un basso profilo sul marketing, ma investendo molto nella manodopera.

Perché i grandi brand delocalizzano allora, visto che le competenze non le abbiamo ancora perse in Italia?

Ma forse conviene investire nel mercato delle influencer, spingere sul modello fast fashion, sul modello usa e getta, tanto alla peggio il capo si butta.

I capi non venduti dal marchio Shein, cinese, vengono gettati: anche i capi sintetici, prodotti dal petrolio, con grandi problemi ambientali.

Eppure, come testimonia il caso dell’azienda LSJH in Finlandia, riciclare i capi può essere anche un business: si possono creare nuovi tessuti per nuovi vestiti, ma anche pannelli isolanti.

È un settore promettente, che consente di arrivare preparati per la regolamentazione europea sul riciclo dei vestiti.

Ma anche in Italia abbiamo il più grande distretto del riciclo dei capi, a Prato: si cerca di non usare la chimica, di riciclare quanto più possibile, anche la lana che viene riciclata per 5 ml di kg ogni anno.

In Italia non sappiamo quanti capi sono gettati in discarica, si stima che solo l’1% dei capi in Italia venga riciclato: un problema che diventerà sempre più importante in un settore, quello del tessile, che è tra i più inquinanti.

Ecco perché è importante il lavoro di Caterina Grieco che, con la sua Catheclisma, produce le sue collezioni partendo da tessuti invenduti: coi suoi capi si ha veramente un guardaroba sostenibile.

Alla Appleskin producono una “pelle” a partire dalla buccia della pelle: purtroppo si deve ancora fare uso della chimica, per il 70%, per un prodotto che ha comunque un costo di produzione importante.

Altre aziende usano il cactus e il mais, oltre alla mela, per produrre prodotti in pelle: si riesce ad arrivare ad un prodotto naturale fino al 60%, il 40% ancora deriva dalla chimica.

20 febbraio 2024

Gli altri, di Georges Simenon


 

Domenica 5 novembre

Zio Antoine è morto martedì, vigilia di Ognissanti, probabilmente intorno alle undici di sera. Sempre quella notte Colette ha tentato di buttarsi dalla finestra.

Pressappoco nello stesso momento si veniva a sapere che Edouard era tornato e che diverse persone lo avevano visto in città. Tutto questo ha creato una certa agitazione nella famiglia che ieri, al funerale, è apparsa al completo per la prima volta da anni.

Ancora una volta Simenon ci porta dentro una delle tante famiglie della borghesia francese, gli Huet, in una cittadina di provincia non lontana da Parigi: la nota caratteristica di questo romanzo è che non è più l'autore a raccontarci tutti i dettagli, anche intimi, dei protagonisti, i loro pensieri, gli screzi, il racconto prende la forma di un diario scritto dall'io narrante, Blaise Huet, nei giorni attorno ad un evento che ha scombussolato un fragile equilibrio che vigeva tra i membri di questa famiglia. La morte dello zio Antoine che ci viene annunciata in questo incipit in modo quasi brusco e che ci racconta già il clima in cui si svolgerà la storia.

Un clima di sottile tensione perché la morte dello zio, un avvocato forse poco noto in città, ma importante che trattava affari riservati, costringe i membri della famiglia ad avvicinarsi, a fare i conti gli uni con gli altri:

Questa volta però non era più il mio piccolo mondo a essere in gioco ma l'intera cerchia familiare. Per molti anni eravamo vissuti ciascuno nel proprio quartiere, ciascuno con i suoi mezzi, le sue abitudini, i suoi problemi, le sue soddisfazioni personali, e avevamo avuto gli uni con gli altri solo contatti occasionali. Ma ecco che adesso tutti gli Huet, compresa sia Juliette di cui non si sentiva mai parlare e i cui figli conoscevamo a malapena, ecco che tutti i Huet si ritrovavano faccia a faccia, si riscoprivano e forse avrebbero dovuto scontrarsi.

La fragilità della moglie dello zio, Colette, che era stata vista spesso in compagnia di un cugino acquisito, il medico Floriau, dando adito a tante voci.

Il ritorno del cugino Edouard, che da giovane era il più bello e intraprendente tra loro, per poi finire in disgrazia ai tempi della guerra.

Blaise annota tutto sul suo diario, senza nasconderci niente: anni prima aveva scritto un romanzo, sempre in forma di diario, che aveva poi inviato a diverse case editrici e ad uno scrittore di cui aveva stima. Il suo lavoro era stato respinto, troppo personale, troppo morboso gli era stato risposto, per quella sensazione di stare spiando le vite degli altri.

Non importa a Blaise che qualcuno legga queste pagine su di lui, la moglie, sulla sua famiglia

Mi si accuserà probabilmente di tradire la famiglia, di infangare il nome degli Huet, di lavare i nostri panni sporchi sulla pubblica piazza. Non m’importa. C’è abbastanza gente che si sente il diritto di farsi i fatti miei perché abbia anch’io il diritto di farmi quelli degli altri..

La morte dello zio rompe la quiete apparente dentro la famiglia: c’è da organizzare il funerale, da contattare le persone che gli stavano vicine, c’è poi il tema del testamento.

Tutto questo era senza vita e nell'aria di un'immobilità assoluta non si percepiva il minimo fremito rumore odore Ricorda di aver avuto questa impressione solo nei musei.

Questa sensazione di immobilità è la stesso che si respira sia dentro la famiglia, che fuori, per le strade di questa cittadina di provincia che il protagonista racconta di aver percorso tante volte con gli amici e da cui non si è mai staccato andandosene via perché “ero troppo ambizioso per esserlo davvero”.

Sono solo un mediocre, lo so, ma un mediocre lucido, direi perfino, senza esagerare troppo, un mediocre soddisfatto.
Blaise, come si è detto, non ci nasconde nulla di sé: ci racconta del rapporto col fratello, che ha avuto una vita più sfortunata di lui, finendo perfino deportato in Germania ma che nonostante questo non si è mai lasciato andare. Racconta della moglie Irene che non lo mette in imbarazzo per la sua bassa estrazione sociale, una donna che ogni tanto deve trovarsi un suo amanti, che non è capace di fare i mestieri di casa, ma a cui in fondo vuole bene. Anche perché Blaise stesso, ammette, ha tradito la moglie di tanto in tanto.

Come in tanti altri romanzi di Simenon torna il tema dell’impossibilità a fuggire dal proprio destino che, nel caso di Blaise, si consuma lungo le vie di questa piccola città

La città, le strade che percorrevo a non finire, i volti, sempre gli stessi, i nomi sulle vetrine dei negozi, m’ispiravano oltre un senso di noia quasi doloroso, un desiderio di fuga, di fuga in qualsiasi direzione, di fuga disperata come quando si sogna di essere inseguiti.

Ma come nei sogni, i miei piedi restavano inchiodati al suolo e io non riuscivo a muovermi.

Tutto è destinato a cambiare, per la morte di zio Antoine, per non cambiare niente, nonostante il riavvicinamento tra i parenti al funerale, nonostante il testamento.

La vita continua per gli Huet.
Gli altri è un dramma familiare senza delitto, senza colpevoli, senza grosse colpe se non le piccole miserie della vita, dell'ipocrisia del cercare di apparire diversi da quello che si è.

La scheda del libro sul sito di Adelphi

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

19 febbraio 2024

Presadiretta – Democrazia sotto attacco

Le nuove autocrazie che si affacciano nella democratica Europa: l’Ungheria di Orban e la Polonia che è appena uscita dall’incubo della destra di Dio patria e famiglia.

Uno slogan che si sente anche in Italia con la destra di Meloni e Salvini, la destra che attacca le famiglie arcobaleno, le donne che vogliono abortire.

Un paese dove una buona fetta del paese non va a votare perché questa classe politica non lo rappresenta, perché le elezioni forse sono qualcosa di più di una croce come nel televoto.

Infine la storia di Julian Assange: per aver svelato i crimini di guerra delle democrazie occidentali in Iraq e Afghanistan rischia 175 anni di carcere. È questa la nostra democrazia?

L’Ungheria dove non esiste la democrazia

L’Ungheria, come la Cina, la Turchia, non è una democrazia: è un regime ibrido, è la denuncia del parlamento europeo. Non basta poter votare se non si rispettano i principi della democrazia.

Orban è l’uomo solo al comando da 13 anni, leader del partito stato, dichiaratamente illiberale.
Orban ha riscritto la costituzione, ha ridisegnato i collegi per avvantaggiare il suo partito, ha cambiato la legge elettorale e col premio di maggioranza ha avuto il potere assoluto.

Non servono carri armati per un colpo di stato dall’interno: il partito di governo controlla la fondazione Kesma che controlla giornali, blob, televisioni.

Gli uomini di affari amici di Orban si comprano le televisioni, come Lorinc Mészáros, l’ex idraulico diventato miliardario con l’ascesa al potere di Orban.

Nel clan di Orban, il padrino viene definito, ci sono suoi uomini che controllano la giustizia, come il procuratore generale, controllano le università, controllano l’informazione.
Non c’è nessuna separazione tra potere esecutivo e parlamento, giustizia: da una parte alle scuole pubbliche arrivano briciole, dall’altra arrivano miliardi ad una fondazione privata legata al capo di gabinetto del primo ministro.

Come nella Russia di Putin, il governo controlla cosa c’è scritto sui libri, ha vietato le proteste e gli scioperi. Per distruggere tutti i principi della democrazia non serve sparare alcun colpo di fucile.

Chi vincerà la partita tra l’Ungheria e l’Europa?

Con l’inflazione al 20%, i nemici del paese per Orban sono gli immigrati, respinti alle frontiere senza pietà: per questo è stato costruito un muro verso la Serbia, respingendo tutti i migrati e negando il diritto di asilo.
I nemici di Orban sono le elite liberali, l’Europa, i poteri forti: coi soldi pubblici si finanziano campagne contro l’Europa, finti referendum su temi che contengono bugie sull’Unione, tutto per legittimare la propaganda sovranista.

Le donne devono partorire, almeno quattro figli per non poter pagare tasse: in completa affinità con la nostra presidente Meloni, la difesa della famiglia, della nazione, dell’identità.

L’Ungheria di oggi è l’Italia di domani, quella che Meloni ha in testa?

LE donne devono ascoltare il battito del feto, prima di abortire: questo vogliono i deputati del partito di Orban, La nostra patria, una punizione contro le donne.

Per evitare le gravidanze indesiderate servirebbero politiche informative sulla sessualità, per educare i ragazzi, ma il governo è di parere contrario: per legge i ragazzi sono protetti dalle immagini con contenuti omosessuali.

Con risultati grotteschi: la propaganda gender è una via per spostare l’attenzione dai veri problemi del paese.

Come nella Germania di Hitler, si distruggono i libri proibiti, anche quelli per ragazzi che raccontano storie d’amore tra adolescenti.

La legge sulla protezione per l’infanzia stigmatizza le persone omosessuali, definisce le librerie come luoghi pericolosi.

L’Europa ha bloccati 20 miliardi di fondi europei, per questi comportamenti anti democratici: ma l’Ungheria non può essere espulsa dall’Europa, per bloccare il voto all’Ungheria servirebbe il voto unanime dei paesi, ma ogni volta Orban trova alleati.

Orban è un despota, un ricattatore, un politico che si è arricchito coi fondi europei, lui e il suo clan.

Le politiche della destra in Italia

L’Ungheria non è così lontana: anche da noi le famiglie arcobaleno non sono ben tollerate, mancano diritti per le famiglie con due mamme, come a Padova dove il Tribunale ha impugnato tutte le registrazioni all’anagrafe di bambini con due mamme.

Siamo il paese dei diritti negati. Tutto è partito con la circolare del ministro Piantedosi ai sindaci, dove chiedeva di bloccare le trascrizioni dei bambini, citando una sentenza della Cassazione dove si parlava della gestazione con altri.

Le decisioni prese dal Tribunale di Padova sono rimandate alla Cassazione: c’è un vuoto oggi per i figli delle coppie gay, che non verrà colmata da questa maggioranza di governo.

Questa destra ha in mente Dio, patria e famiglia, la mamma che deve solo fare figli, il papà e la mamma.. Contrari alle unioni civili, all’aborto, come vogliono i signori del Family Day.

Anche qui si vuole rendere obbligatorio l’ascolto del battito del feto, come in Ungheria: una proposta giusta dice Gandolfini, anche senza la volontà delle madri.

I movimenti pro life hanno spazio negli ospedali, per convincere le mamme a non abortire: è successo a Torino all’ospedale Sant’Anna. Un bell’obiettivo politico, per gli antiabortisti.

È grazie a questi movimenti con la testa nel passato che la pillola RU486 ha impiegato 20 anni per essere autorizzata, per una battaglia ideologica sul corpo delle donne.

In Piemonte questa pillola è stata vietata nei consultori, poi è stato stanziato un fondo regionale per i progetti delle associazioni pro-vita: progetti con titoli imbarazzanti, che parlano della gioia della vita, delle donne viste come mamme gravide e felici.

Una visione confessionale del mondo, non laica.

Queste associazioni danno aiuto alle donne, che certo, possono scegliere di abortire: ma alla fine le associazioni anti abortiste prendono quei contributi che potrebbero essere mandati direttamente per il sostegno delle famiglie. Si svuota la 194 dall’interno: l’aborto non è libero né gratuito, come il supporto alla maternità non significa solo qualche aiuto per i pannoloni per pochi mesi.

Si aiuta la natalità con salari dignitosi, con un lavoro non più precario.

L’attacco alla 194 passa per la carenza di medici abortisti: in Molise ne esiste solo uno, un bel passo all’indietro, agli anni delle mammane, dove le donne morivano sotto i ferri nelle mani di medici improvvisati.

L’aborto è un diritto, non una concessione. Come anche i diritti dei ragazzi che non sono italiani, perché qui da noi non esiste lo ius soli. Se i tuoi genitori non sono italiani, i figli non hanno diritto alla cittadinanza italiana.

Anche provare a far diventare cittadini italiani i ragazzi dopo un ciclo di studi, sarà difficile: gli stranieri devono essere tenuti ai margini, sfruttati.

Anche così la democrazia fa un passo indietro.

Il voto negato

Da diverse elezioni sono le segreterie a decidere chi far votare: con risultati paradossali, in Basilicata dove ci sono capoluoghi come Matera, senza una ferrovia, dove molti degli eletti in Parlamento sono stati paracadutati da fuori.

Dei sette parlamentari eletti, quattro risiedono fuori dalla regione Basilicata: significa non essere legati al territorio, non essere a conoscenza dei problemi del territorio.

L’assenza di una rappresentanza politica significa che le infrastrutture regionali non vanno avanti, perché manca l’appoggio della politica: mancano i collegamenti coi porti del sud, con gli altri capoluoghi, un grave problema per le poche realtà industriali, come Calia Italia.

O come la Sogemont, dove recuperano i metalli da dentro gli elettrodomestici: senza infrastrutture è difficile essere competitivi, fare altri investimenti.

I parlamentari lucani dovrebbero puntare su infrastrutture e anche sulla ZES, le aree dove mandare maggiori investimenti: il governo Meloni ha ridefinito la Zes unica, senza strumenti perequativi per mettere allo stesso livello diversi territori. Perché la Campania è molto più attrattiva della Basilicata, dove le ferrovie sono a binario unico.

A Roma cosa ne sanno dei problemi di Melfi? La tenuta sociale della Basilicata dipende dal futuro dello stabilimento ex Fiat di Melfi. Con la cassa integrazioni e i contratti di solidarietà il salario è già diminuito qui: quante persone rimarranno a lavorare qui a Melfi, in una Stellantis sempre più francese? I parlamentari lucani cosa stanno facendo?

In Senato è entrato un operaio, Giovanni Barozzino, anni fa: era stato intervistato da Lisa Iotti, quando fu licenziato dalla Fiat con l’accusa di aver sabotato la linea. Poi fu reintegrato per scelta del giudice: entrò in Senato con il partito di Sinistra e Libertà, ma oggi pensare ad un operaio in Parlamento è quasi impossibile. Oggi le segreterie scelgono solo i loro fedelissimi.

La nuova riforma del premierato allarga gli spazi della democrazia o ci avvicinerà all’Ungheria?

La lezione della Polonia ci dice che questa destra può essere battuta grazie ad una forte mobilitazione popolare: nel dicembre 2023 Donald Tusk ha interrotto i governi di destra, che per otto anni hanno condizionato il paese.

Le code davanti ai seggi ci dicono che la battaglia per la democrazia deve essere popolare, non populista: il governo del partito di diritto e giustizia (PIS) di Kaczyński ha occupato per anni la televisioni pubblica per la sua propaganda, ha denunciato per terrorismo la stampa indipendente, come il giornalista Piatek. La stampa bloccata dai processi per diffamazione, il bavaglio ai giudici indipendenti, come il giudice della Corte Suprema di Varsavia, giudici intimiditi per aver fatto ricorso alla corte europea…

Il premier ha riempito i tribunali di suoi fedelissimi, ha nominato un suo amico come ministro della giustizia, con poteri per sospendere i magistrati scomodi.

L’informazione e la giustizia, come potere indipendente, sono tra i pilastri della democrazia.

Ma c’è di peggio: nelle strade girano gli ultras del governo, si moltiplicavano le aggressioni omofobe, comuni e regioni adottavano regolamenti anti gender, zone libere dall’ideologia LGBTQ..

Anche in Polonia ci sono le formazioni ultra cattoliche, braccio armato del partito di governo, che si sono battute contro l’aborto, contro il diritto alle donne di decidere da sole della propria gravidanza.

Il governo di destra ha sfogato la sua violenza sulle donne ed è stato grazie a loro se Tusk ha vinto le elezioni. Donne come l’attivista Marta Lempart leader di Strajk Kobiet.

Le donne in Polonia hanno influenzato maggiormente le elezioni: anni di battaglie nelle strade, nelle scuole, nelle università.

In Europa il problema resta – racconta l’ex presidente Lech Walesa: servono idee nuove, non competitive, inclusive, che non diano spazio ai populisti. La responsabilità sta nell’Europa nell’evitare una guerra civile in questi paese, nell’evitare una ulteriore avanzata delle destre.

Ne ha parlato anche la giornalista di Repubblica Tonia Mastrobuoni: Polonia e Ungheria sono esempi di eversione senza sangue, un parlamento svuotato, una magistratura addomesticata.

Dobbiamo mettere gli argini a questa destra, Orban non è un isolato, può giocare una partita da protagonista in Europa, assieme alla Meloni e ad altri partiti conservatori.

Che succederà dopo le elezioni europee? Si mercanteggeranno i voti di Orban in cambio dei miliardi di fondi ad oggi congelati?

L’ora X per Julian Assange

Domani si deciderà il futuro di Julian Assange e anche della democrazia in Europa: se dovesse passare l’estradizione del fondatore di Wikileaks in America, sarebbe un brutto segnale per il mondo dell’informazione e per le nostre democrazie.

Perché le immagini sui crimini di guerra, sul volto cinico e violento delle guerre per esportare la democrazia, le abbiamo conosciute grazie a questa persona coraggiosa oggi detenuta nella guantanamo inglese.

Assange paga la colpa di aver pubblicato i leaks sulla guerra in Iraq, del video collateral murder, i dati sui morti civili in Iraq e Afghanistan (vittime civili che gli Usa volevano nascondere).

Fosse comuni, uomini torturati in modo orrendo, uomini detenuti nelle gabbie di Guantanamo senza una accusa.

La storia di Assange è stata raccontata da Stefania Maurizi nel libro Il potere segreto: Assange è stato detenuto in Inghilterra per sette anni (con una accusa di stupro) in cui è stato tenuto in un limbo, dove si è anche cercato di distruggerne l’immagine.

Assange è stato spiato, avevano pianificato il suo rapimento: lo ha stabilito una inchiesta in Spagna.

E ora dovremmo fidarci degli Stati Uniti che lo vogliono processare nel loro paese?

Se la corte inglese dovesse decidere per l’estradizione, rimane solo la corte europea, in Europa esiste la libertà di stampa e di parola, il rispetto dei diritti civili.

Se anziché denunciare i crimini degli Stati Uniti Assange avesse denunciato i crimini in Russia (cosa che avrebbe fatto se fosse libero) sarebbe accolto da tutti i paesi: il problema è che si devono nascondere i crimini di guerra occidentali, ancora oggi è tabù.

La liberazione di Assange deve essere la priorità di chiunque abbia a cuore la libertà di parola – racconta la moglie Stella Morris che, a Napoli dove ha ricevuto la cittadinanza onoraria, aggiunge “la guerra uccide la verità”.

Assange è la prova del tradimento della democrazia, ed è per questo che vogliono nasconderlo.

Il dominio della maggioranza

Presadiretta ha ascoltato il professor Guzzetta sulla riforma del premierato: questa riforma è un valore della democrazia perché rende più stabile il governo.

Il corpo elettorale decide una maggioranza, non più i partiti – racconta a Presadiretta – perché i cittadini si vedono passare sopra governi su cui non si sono espressi.

Di opinione diversa la professoressa Urbinati: una buona democrazia presume che la maggioranza deve sentire sul collo il fiato della opposizione, come stimolo a fare meglio.

Col premierato non ci sarà il potere dal basso del popolo: si concede a questo leader o ad un altro, si perde la figura del presidente della Repubblica.

Ci avvicineremo al modello ungherese, un modello autoritario che da un potere abbondante alla maggioranza, si da una investitura perenne alla maggioranza, non ci sono più le garanzie di pluralismo.

La situazione in Cisgiordania

Le colonie presenti in Cisgiordania, che occupano le terre dei palestinesi, sono un problema per la stabilità della regione.

Sarà questo il tema della prossima puntata di Presadiretta: nel mondo stiamo assistendo ad una terza guerra mondiale a rate, c'è solo spazio per le armi (e per chi fa affari con la vendita delle armi). Arriverà il tempo per la diplomazia?

Anteprima Presadiretta – Democrazia sotto attacco

Riparte Presadiretta e nella prima puntata si occuperà della salute delle democrazie.
Partiamo da un principio semplice: essere in democrazia non vuol dire solo che in un determinato paese si va a votare. O che c’è un governo eletto dai cittadini.

Una democrazia è un assetto istituzionale che si basa su tante regole e principi che, per quanto ci riguarda, sono quelli sanciti dalla nostra Costituzione.

Libertà di espressione e di associazione.

Salari dignitosi.

La sovranità che appartiene al popolo che la esercita nei modi previsti dalla stessa carta.

Diritti universali riconosciuti a tutti a prescindere da religione, sesso o idee politiche.

La separazione dei poteri, l’indipendenza della magistratura.

Ecco: pensate a quanto sta succedendo o è successo in Polonia, in Turchia, qui in Europa. A quanto stava per accadere in Israele, con la riforma del presidente Netanyahu.
Pensate alla Russia di Putin, che oggi riscopriamo essere un dittatore dopo averne stretto rapporti politici e commerciali per anni. Pensate all’Arabia e al suo rinascimento arabo perché oggi le donne possono guidare. Pensate all’America che si appresta a mandare in galera Julian Assange perché ha rivelato al mondo i crimini di guerra e l’ipocrisia sull’esportazione americana della democrazia (e del ruolo da suddito dell’Italia).

La democrazia è sotto attacco non solo perché stanno aumentando i regimi non democratici.

Anche in Italia la democrazia non gode di buona salute: lo vediamo da quanti non vanno più a votare perché non si sentono più rappresentati da queste istituzioni (e non sarà certo la riforma del premierato a riavvicinali allo Stato).
La democrazia, considerato come insieme di quei diritti di cui ho parlato all’inizio, sono sistemi fragili, hanno bisogno di essere tenute vive ogni momento.
Non è un caso se questa stagione di Presa diretta riparte dal caso Assange, fondatore di Wikileaks, da cui sono stati pubblicati documenti classificati che hanno svelato il vero volto delle guerre per la democrazia in Iraq e Afghanistan.

Nella conferenza stampa sulla nuova stagione Iacona ha raccontato il perché è importante tenere viva l’attenzione su Assange:

"..lui è la prova del tradimento della democrazia come dice la coraggiosa moglie Stella Moris. Nel suo caso poi ci sono due prime assolute. L'Europa infatti per la prima volta sta imprigionando un giornalista senza che mai che abbia commesso un reato. E per la prima volta verrebbe processato con l'Espionage Act. Abbiamo seguito anche la storia della battaglia straordinaria di sua moglie, che dice Julian è in prigione perché ha detto verità sulla guerra, tutti in quel carcere sanno che non dovrebbe essere lì".

Tanto la Russia con gli oppositori (come Navalny, morto in una prigione in Siberia, e gli altri regimi come l’Arabia col giornalista Khasshogi, anche l’occidente non gradisce la stampa libera, uno strumento chedoveva servire i governati, non i governanti ” come stabilì la Corte Suprema nel giudizio sui Pentagon Papers pubblicati dal NY Times e dal Washington Post.
Ma senza andare troppo lontano, la censura l’abbiamo conosciuta bene in Italia: Iacona era tra i tanti giornalisti finiti nel mirino del governo Berlusconi ai tempi dell’editto bulgaro.
Quando furono cacciati dalla Rai giornalisti come Biagi, Santoro assieme a Daniele Luttazzi (colpevole di aver raccontato delle origini delle fortune di Berlusconi, di Dell’Utri e della mafia).
Oggi stiamo tornando a quel periodo: la politica vuole controllare l’informazione, c’è il terrore da parte degli artisti nell’esporsi sulla situazione di Gaza, sulla situazione dei migranti che muoiono nel Mediterraneo, che vengono detenuti nei CPR.
La proposta del leghista Morelli, sul Daspo agli artisti che si esprimono sulla politica è una “barbarie”, qui si lavora e non si fa politica, vogliamo tornare a questo?

Il viaggio di Presa diretta ci porterà in Ungheria dove, per legge, è vietato ai minori di essere esposti a contenuti omosessuali: significa la censura di stato su libri, foto e opere d’arte. Col risultato grottesco di proibire intere zone di musei, perché espongono opere ritenute pericolose per il regime di Orban.

Un regime che vuole censurare la realtà, che però, esiste lo stesso, anche se la nascondi.
La svolta illiberale di Orban è cominciata occupando i mezzi di informazione quando il partito di governo ha piazzato i suoi uomini a capo della fondazione Kesma, l’impero filo governativo che conta più di 500 testate: in Ungheria non esiste una trasmissione di inchiesta come Presadiretta o Report, non esistono proprio i talk show.
HGV è una delle ultime redazioni indipendenti rimaste in Ungheria: Gergely Marton racconta a Presadiretta che gli uomini d’affari legati al governo ungherese hanno sistemmaticamente acquistato le testate giornalistiche libere, hanno budget illimitati.
Uno di questi è
Lorinc Mészáros, compagno di infanzia di Orban, ex idraulico, diventato miliardario con l’ascesa al potere del primo ministro.

Dall’Ungheria alla Polonia: qui per otto anni ha governato il partito ultra conservatore di diritto e giustizia: otto anni in cui è stata occupata la televisione pubblica, usata per una propaganda becera per campagne denigratorie contro l’opposizione.
Qui in Polonia (ma vale lo stesso nelle altre autocrazie, democrazie zoppe) si è minata l’indipendenza della magistratura, sono stati attaccati i diritti delle donne (le donne sono costrette a portare a termine la gravidanza anche in caso di gravi malformazioni).

Milioni di persone sono scese in piazza per protestare contro la legge sull’aborto voluta dal governo di destra, se la coalizione di Donald Tusk ha vinto si deve anche alle donne polacche, come Marta Lempart leader di Strajk Kobiet, attivista per i diritti delle donne e della comunità LGBT.

Questa proposta rischia di riportarci "al cartello che non si parla di politica. Non so in quale Paese viva Morelli, è una cosa un po' da Ungheria, un Paese dove è vietato parlare di politica e non esistono nemmeno i talk show in tv". A suo avviso la convinzione che "ognuno deve fare il suo lavoro" è sbagliata perché, così facendo, "nessuno parlerebbe più di politica mentre il problema principale italiano è proprio la crisi di rappresentanza".

Eccolo il nocciolo del problema: in cosa si sta trasformando la democrazia in questo paese?

Con una rai megafono della maggioranza, dove interi settori del paese non si sentono rappresentati da questa politica, dove una buona fetta del paese non va a votare, anche perché ritiene che la politica non sia lo strumento per risolvere i problemi, le disuguaglianze, l’assenza di servizi pubblici, il salario povero..
Diventeremo una paese come l’Ungheria, dove lo stato è espressione di pochi, della cerchia degli amici del leader?

La scheda del servizio:

PresaDiretta comincia il nuovo ciclo con una puntata dedicata alla crisi della democrazia. Non solo perché ovunque aumentano i regimi autoritari, ma perché i principi democratici arretrano su molti fronti. Un viaggio in Ungheria, Paese osservato speciale dalle istituzioni comunitarie e in Polonia che ha recentemente cambiato rotta. E ancora in Italia, tra crisi della rappresentanza, astensionismo e cittadini che si allontanano dalla politica.

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.