02 novembre 2008

La paga dei padroni di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti

Un lungo viaggio nel mondo degli imprenditori e dei manager italiani e, di riflesso, sullo stato di salute dell'impresa.
Sul cui stato è sufficiente leggere le cronache finanziarie di questi giorni, in cui il leader di Confindustria chiede aiuti di stato per le imprese.
Dove è finito il libero mercato, che si sarebbe dovuto regolare da solo?

Ma il punto di vista del libro non è solo un'analisi economica dei più grandi gruppi economici (di quelli rimasti, Fiat, Benetton, Luxottica, o anche le aziende di stato come Eni e Ferrovie dello stato), o delle grandi dinastie imprenditoriali (Tronchetti Provera, Moratti, Romiti, Pesenti ....), delle nuove dinastie (Berlusconi, Benetton, Caltagirone).

La domanda è: la paga che prendono i padroni (i top manager di aziende pubbliche e private o gli azionisti di maggioranza, che spesso sono figure che coincidono creando l'ambiguità fra manager e padrone) è proporzionata al loro merito, alle loro capacità imprenditoriali, a quanto sono bravi nel dirigere la loro azienda?
No, non sempre.

Le aziende perdono di valore in borsa, aumenta l'esposizione nei confronti delle banche ma i manager (che spesso sono gli azionisti di maggioranza, in una confusione di ruoli tra chi comanda e chi possiede l'azienda) percepiscono uno stipendio in aumento, stock options e altri benefit (“benefici privati del controllo” di definiscono in gergo tecnico).
Intendiamoci non è solo un discorso morale, cioè se sia lecito o meno che ci sia una sproporzione così ampia tra la paga dei un operaio e quella di chi sta in cima alla catena di comando, passata da 50 a 1 a 500 a 1.
E' anche un discorso economico: se i manager guadagnano cifre elevate (in linea col mercato si dice, in una specie di gioco al rialzo dove nessun manager vuole guadagnare meno degli altri) a prescindere dall'andamento delle imprese, chi garantisce gli investitori in borsa?
Le imprese italiane vengono pilotate tramite patti di sindacato (un gruppo di soci di maggioranza che fa cartello nei confronti dei soci minori, come per RCS Mediagroup); tramite lunghe catene di comando, dove con percentuali del 15, 20 % o anche meno si comandano gruppi grandi come Telecom (gestione Tronchetti Provera), Cir (De Benedetti): in un sistema di scatole cinesi dove si fa fatica a capire chi possiede cosa.

Se la paga dei padroni viene spesso stabilita da comitati composti da manager provenienti da aziende legate (come per Scaroni, il cui stipendio è stabilito da Mario Resca, che possiede un'azienda la Cosmi Holding con cui Eni ha fatto affari), non pagano di tasca propria e non ha incentivi a risparmiare.
Se in Italia ci si preoccupa più della stabilità del comando di una impresa, più che della stabilità e solidità economica a lungo termine, che speranza può avere il futuro industriale di questo paese?

Crollate le grandi dinastie (gli Agnelli), crollate le grandi imprese (la vecchia Olivetti), i grandi gruppi (Telecom), le imprese italiane sono oggi in mano alle banche (anch'esse in difficoltà): e qui viene fuori un altro aspetto interessante del capitalismo italiano.

Il nebuloso intreccio dei manager che spesso compaioni in più consigli di amministrazione, anche di gruppi che dovrebbero essere in teorica concorrenza. L'esempio immediato è la banca d'affari Mediobanca (il cosidetto salotto buono del capitalismo), oggi in mano al presidente Cesare Geronzi: in nodo gordiano in cui non si capisce bene di controlla cosa.
In Mediobanca siedono i maggiori capitalisti italiani, come Benetton, assicurazioni come le Generali e Allianz, altri banchieri come Bazoli di Intesa, Profumo di Unicredit. E ultimamente è entrata anche la figlia del presidente del Consiglio (nonche maggiore azionista di Mediaset, del gruppo Mondadori, della banca Mediolanum ....), Marina Berlusconi, giusto per arricchire l'enorme conflitto di interessi in vigore nel belpaese.

Grazie a questa commistione tra banche e capitalisti senza capitale, succede che le imprese vengano scalate col meccanismo del "leveraged buy out", in cui chi viene comprato si trova già indebitato con i nuovi padroni: come per Aeroporti di Roma, scalata da Cesare Romiti e Telecom, scalata Colaninno.

Qualcosa è cambiato nel nostro paese e gli autori del libro lo hanno registrato: la crisi in corso sta portando alla scomparsa del ceto medio e alla fine dell'illusione che in questa vita tutti si possa “ambire ad avere alla Ferrari”.
Oggi si sempre più la consapevolezza di vivere in un modello a caste chiuse dove per uscirne non servano competenze e capacità, ma solo fortuna e conoscenze.
Una volta la ricchezza ostentata da un Agnelli veniva considerata come un modello: oggi un governo di centro destra vara una legge (apparentemente) contro gli enormi profitti fatti da petrolieri, chiamata “Robin Hood tax”.
Oggi su you tube finiscono manager come Luca Luciani di Telecom, che in una convention sfoggiava tutto il suo rampantismo arringando ai suoi collaboratori, senza rendersi conto dello svarione storico per cui a Waterloo Napoleone avrebbe vinto.

Le colpe di una classe dirigente le paghiamo tutti: le pagano i risparmiatori, che investono le loro pensioni, i risparmi, in azioni piazzate dalle banche d'affari (che vantano credito nei confronti di queste imprese). Azioni il cui valore scende scende.
Le pagano i contribuenti, che con le loro tasse pagano lo stipendio dei manager di stato come Giancarlo Cimoli (dalle Ferrovie dello Stata a Alitalia, con una liquidazione milionaria nonostante i debiti della compagnia), Scaroni (Enel e Eni), Elio Catania (Ferrovie dello Stato).

Il punto è che il capitalismo italiano non è più governato dal mercato: i lauti guadagni dei leader delle imprese, essendo slegati alla gestione e all'andamento del valore delle stesse sono la prova del fatto che le posizioni di comando rispondono a logiche di potere, di alleanza familiare, di sostegno reciproco tra gli appartenenti al ristretto gruppo degli uomini che governano le grandi imprese italiane, di sostegno reciproco con i leader del ceto politico.
Ne è una riprova la legge "Salva manager" (discendente delle depenalizzazione del falso in bilancio sempre del governo Berluconi), che è stata tolta a furor di parlamento, ma una manina ha provveduto a reinserire.

Una casta, si direbbe oggi, o meglio una oligarchia. Qui non abita più Adam Smith.

Ma una oligarchia debole, che non possiamo più permetterci di difendere.
Una classe dirigente che da una parte espelle gli industriali che pagano le tangenti alla mafia in Sicilia, ma che è oggi guidata da chi ha commesso quello stesso reato: il gruppo Marcegaglia che ha pagato le tangenti a Milano per “soddisfare il desiderio di far parte dell'agognata lista di fornitori di Enipower”.
Purtroppo, commentano a conclusione del libro i due autori, non è solo una questione etica che si può eludere gridando al giustizialismo e al moralismo:
In questo conflitto che paralizza una parte della borghesia industriale, in declino, mentre cresce l'insofferenza degli imprenditori più moderni, il potere che rappresenta Confindustria rischia di sfarinarsi: “la debolezza della classe dirigente mette in pericolo il futuro dell'economia italiana”.

Fa da appendice del libro la classifica dei manager più pagati: da Matteo Arpe (ex AD di Capitalia) che ha guadagnato 37 ML di euro nel 2007, fino a Pietro Giuliani pres. e AD di Azimuth Holding 1,49 ML di euro.

Pretesti di lettura.
La presentazione del libro sul blog di Chiarelettere.
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