Ultima parte del saggio di Filippo Astone “La disfatta del nord”: la disfatta del Piemonte e dell'Italia abbandonata
dall'auto.
Si parla dell'abbandono dell'Italia da parte
della Fiat e degli Agnelli, gli imprenditori che pur essendo
stati generosamente aiutati dal nostro paese, stanno abbandonandolo
in favore dell'impegno in Chrysler.
Le immagini di Presa diretta
hanno raccontato del deserto industriale attorno Torino, la città
del nord più povera che rischia di diventare solo un enorme città
dormitorio.
Tutto questo a causa del calo di produzione della Fiat
che ha messo in crisi l'intero indotto.
Tutto è diventato chiaro nel settembre 2012 quando Fiat annunciò
l'abbandono del piano “Fabbrica Italia” (quei 20 miliardi
che forse esistevano solo sulla carta) perché la crisi aveva
peggiorato le previsioni del mercato in Italia.
Una separazione
uni-consensuale, che è figlia anche del calo di produzione del
gruppo Fiat nel nostro paese, che dal 2007 si è dimezzato, facendo
cadere l'Italia al 22 esimo posto come produttore d'auto (nel 2004
eravamo al 11 esimo posto).
Ma se si esclude l'Italia, la quota
Fiat in Europa è del solo 3%.
La testa del gruppo è ora in
America dove si sta negoziando il prezzo per rilevare le azioni
restanti di Chrysler (contrattazione col sindacato Veba).
Dobbiamo
immaginare uno scenario dove in Italia rimarranno solo metà
dipendenti su due o tre stabilimenti, per produrre solo modelli di
lusso.
La testa, comunque, sarà fuori dall'Italia: come
la chimica, l'elettronica, la metallurgia, il tessile, abbiamo perso
anche il settore dell'auto.
A Marchionne scade il mandato da AD
nel 2014 e, guarda caso, ha chiesto due anni di cassa integrazione
per i suoi stabilimenti a gennaio: per questo può dire che non
intende chiudere nessuno stabilimento, in Italia. Perché ci pensa la
cassa integrazione, ovvero L'INPS, a tenerli in vita.
Alla sorte di questi ci penserà chi arriverà dopo, nel
2014.
Questa decisione nasce dal “Contrattone”, il
contratto firmato il 10 giugno 2009 con Chrysler e i governi di USA e
Canada: un contratto di acquisizione da parte di Fiat ma dove, a
veder bene, è Chrysler che compra (i motori, il know how ..).
La
Fiat non se ne va dall'Italia, diminuendo produzione e utili, per
colpa dell'articolo 18, di confindustria, dei sindacati come la Fiom
poco flessibili (o poco propensi a bersi tutte le promesse). Non è
nemmeno colpa della crisi, ma è tutto dentro le clausole del
contrattone. Ci sono delle clausole precise: Chrysler viene ceduta se
Fiat apre la rete commerciale in Brasile (dove le vendite sono buone)
ai suoi veicoli, a discapito di quelli Fiat.
Una clausola dice che
Fiat deve dare massima garanzia di occupazione in America, non in
Italia.
Infine il prezzo d'acquisto è inversamente proporzionale
alle auto prodotte in Italia e direttamente a quelle prodotte
oltreoceano.
Ecco perché dal 2009 non escono nuovi modelli,
se non restyling.
Tutta l'operazione di acquisizione costerà,
stima l'autore, circa 2 miliardi, per una azienda che vale circa 15
miliardi di euro: quando verrà quotata in borsa le azioni comprare
verranno anche rivalutate.
Gli Agnelli saranno l'unica
dinastia dell'auto a non investire nel proprio prodotto e a perdere
il controllo del proprio brand.
Già nel passato, comunque, gli
Agnelli avevano deciso di diversificare i propri investimenti in
energia, creando holding diversificate.
Ma questo abbandono
risulta tanto più grave se si pensa ai soldi sottratti al fisco
proprio mentre chiedevano aiuti allo stato (come ha rivelato
Margherita durante la querelle sull'eredità): secondo la procura di
Milano si parla di 1 miliardo di euro.
Il Contrattone è
consultabile al link del sito internet del tesoro USA “Amended
and restated limited liability company operating agreement pf
Chrysler group llc” (lo trovate qui e qui).
Il piano Fabbrica Italia, dicono un
molti, è stato un'enorme arma di distrazione di massa: anziché
della clausole di questo si è preferito parlare, inutilmente di
articolo 18, dei 20 miliardi, della produttività in Italia.
Tutti
soggiogati dallo spot di Tognazzi.
La politica e i sindacati non
hanno fatto nulla per chiedere spiegazioni a Marchionne, chiedere
conto delle promesse.
Monti ha partecipato alla grande kermesse mediatica durante la sua
campagna elettorale: il piano dai cuori forti.
Letta, assente
ingiustificato, come del resto anche Passera e via discorrendo.
La bufala del costo del lavoro: il costo del lavoro incide
al 7-8% sul costo totale di un'auto. Produrre 200000 auto
(utilitarie) in Polonia costa 18 ml di euro, produrre le stesse in
Italia (che sono però modelli di lusso) costa 48 ml.
E sulla
produttività in Italia, bassa, incide la cassa integrazione, il
fatto che in Polonia si producono utilitarie.
La Fiat non crea
nuovi modelli nuovi per colpa della recessione (non venderebbero dice
l'AD): ma i concorrenti stanno facendo proprio il contrario. Sintomo
del desiderio da parte della Fiat di ritirarsi dal nostro
paese.
Spiega Luciano Gallino in un intervista riportata nel libro
che, probabilmente, ad essere sacrificato a discapito dello
spostamento in America, sarà lo stabilimento di Mirafiori e gli enti
centrali del Lingotto.
Giulio Sapelli, intellettuale torinese,
vede anche un aspetto di geopolitica dentro questa vicenda: “il
declino della Fiat è un prezzo dell'allontanamento dell'Italia dagli
Stati Uniti”, che ricorda anche i buoni rapporti di Gianni Agnelli
con Kennedy e Kissinger.
Ora, nell'affare Chrysler Fiat,
quest'ultima ci mette i suoi brevetti, i motori, la sua rete di
vendita. Non è affatto un affare gratis per Marchionne, che invece
dovrà rispettare delle precise condizioni.
Dopo la firma del
Contrattone, Fiat fa due scelte: la promessa del piano Fabbrica
Italia e conduce una campagna per rivedere i i diritti acquisiti
dagli operai (e allontanare la Fiom dall'azienda).
Abbandona Confindustria, colpevole di essere un pachiderma
burocratico costoso e inutile.
E così, da sola, può contrattare
coi sindacati firmatari, più accomodanti, senza passare per
Federmeccanica.
Agli operai Marchionne chiede, o impone, una
cultura di povertà: lavorare di più, con meno pause, con più
straordinari.
Dal 2004, quando ha iniziato a guidare la Fiat,
Marchionne si accorge della scarsa produttività solo nel 2009, dopo
che ha firmato l'accordo con Chrysler.
E pensare che nel 2006
diceva che “il costo del lavoro rappresenta solo il 7-8%” e
“dunque è inutile picchiare su chi sta alla catena di
montaggio”.
Si arriva al referendum: “si può
votare liberamente, ma se vince il no [all'accordo] vengono chiusi
gli impianti e si va tutti a casa”.
Referendum il cui si è
appoggiato da quasi tutti i leader della fu sinistra.
Effetto del
referendum? Nulla. Non solo, a Pomigliano, ad essere assunti nella
newco (che ha preso soldi pubblici) sono operai non tesserati Fiom. E
quando un giudice chiede l'assunzione di 19 tesserati Fiom la Fiat ne
lascia altrettanti in mobilità. Scriverà Gad Lerner, che è come se
fossero “ostaggi di una guerra”.
Il piano Fabbrica Italia
era poco credibile: qualche slide su powerpoint e non un accordo con
sindacati e governo. Prometteva di produrre oltre un milione e mezzo
di vetture: ma quali modelli? E con quali catene di
fornitura?
Nemmeno la Consob, che dovrebbe vigilare sul titolo
Fiat in borsa, era riuscita ad avere maggiori dati su questo
investimento.
I finanziamenti presi dalla Fiat.
Finché le cose sono andate bene, i soldi che lo stato ha dato
come aiuti, alla Fiat, sono poi ritornati in termini di tasse e di
benessere per il paese.
Prima del 1990 non sappiamo nulla: le
stime dal 1990 al 2000 sono state fatte dal senatore Mucchetti
nel libro “Licenziare i padroni”: la Fiat ha ricevuto 7,1
miliardi, dei quali cinque come aiuti di Stato. Lo Stato ha ritirato
3,2 miliardi di imposte, dunque il saldo, tolti i dividendi agli
azionisti, è in negativo di 1,8 miliardi.
Calcolo che non tiene
conto degli effetti benefici a cascata dell'industria.
Dal 1990 ci sono poi contratti di programma: come i 1,3 miliardi
di euro per lo stabilimento di Melfi.
20 milioni per Mirafiori, 20,5 milioni per Pomigliano.
L'analista
finanziario Alfonso Scarano ha analizzato il Contrattone
mettendo in evidenza la correlazione tra l'andamento Fiat e la
scalata in Chrysler: “tanto peggio va la Fiat (auto) e più
conveniente sarà per il gruppo acquisire le quote previste
nell'accordo”.
Ecco spiegato, forse, la separazione tra
Fiat auto e Fiat industrial, che ha danneggiato l'auto.
“Se
continua questa teatralità da parte dell'azienda e del governo ci
saranno solo ristrutturazioni e piani di cassa integrazione”,
conclude l'analista.
Perché i governi, questo governo, non
hanno fatto nulla? Perché lasciano che Fiat abbandoni il paese in
questa maniera, lasciandosi dietro enormi problemi sociali e
industriali?
Altri capitoli del libro
- Il
falso mito dell'eccellenza lombarda
- http://unoenessuno.blogspot.com/2013/11/il-fallimento-della-lega.html
La disfatta del nord, di Filippo Astone (Longanesi
editore)
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e Amazon
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