Dal capitolo "Nero" del libro "Una stella incoronata di buio", (Einaudi) - via repubblica
L'Italia delle stragi mi fa pensare a
una famiglia borghese che nasconde segreti innominabili come un
abuso, un incesto o altri crimini vergognosi. Se anche il segreto
viene alla luce e il velo d'ipocrisia si squarcia per un momento, ben
presto lo schermo si ricompatta. Tutti cercano strenuamente di
negare, di nascondere, di tacitare, di minimizzare la propria
complicità fino all'ultimo istante, e dopo, denudati davanti
all'oscena irrefutabile evidenza, si affrettano a coprire il tutto,
relegando la tragedia fra i panni sporchi da non lavare in pubblico.
La vita deve continuare. Bisogna salvare la famiglia, le apparenze,
il buon nome delle istituzioni, la ragion di Stato. Bisogna capire.
Era una situazione particolare, c'era la guerra fredda, i colpevoli –
chi sono poi? - agivano nell'interesse superiore della sicurezza
nazionale, meglio una manciata di morti casuali che decine di
migliaia in una guerra civile. Voltiamo pagina.
In questo meccanismo perverso le
vittime sono condannate a una solitudine infinita.
Il trauma delle stragi impunite,
confinato nel silenzio, coltiva un tumore nel corpo della società.
Nessuno, beninteso, se non due vecchi
estremisti di destra, si permetterebbe mai di dire apertamente che la
gente se ne frega di sentir parlare delle bombe. Per carità, con
tutti quei morti, pietà cattolica non lo consente. Per depotenziare
il trauma, scatta un meccanismo di rimozione più efficace. Si lascia
che gli orrori galleggino in una nebbia lattea di indeterminatezza in
cui tutto resta astratto, sospeso, sterilizzato. Emerge giusto
qualche scoglio, qualche nome, frammenti di cronaca ripetuti come un
mantra. Gherardo Colombo, un uomo che sa scegliere le parole con
grande cura, nel volume autobiografico Il vizio della memoria
conia una formula perfetta. "Solenni ovvietà", così
chiama tutte quelle cose terribili che "si sanno" ma senza
conoscerle davvero, ciò che tutti hanno orecchiato prima o poi,
magari indignandosi brevemente, ma resta lì, sospeso nel vuoto.
Fatti pesanti come macigni, ridotti alla stregua di isole
disperse. La traccia dei collegamenti si affievolisce e si perde nel
ricordo, fino a che diventano grumi illeggibili cui è difficile, e
spiacevole, pensare. Meglio lasciar perdere: tanto, per fortuna, è
passato. È lontano. Oppure, è solo l'ennesima prova che è tutto
uno schifo e non vale la pena di tornarci su. La storia di ogni
strage è complessa, un labirinto pieno di false tracce e vicoli
ciechi in cui è facile perdersi (non bisogna lasciarsi sviare
dall'immagine addomesticata dei labirinti di siepi ben disegnati che
adornano i giardini delle ville aristocratiche: la strage somiglia
piuttosto al dedalo originario, dimora del Minotauro, mostro
divoratore di innocenti che, una volta gettati dentro, non avevano
scampo). È difficile ritesserne le fila. Allora si semplifica.
"Strage impunita" è un marchio che funziona. Sui giornali
e in Tv, solo le assoluzioni continuano a fare notizia, molto più
dell'incriminazione o persino della condanna in extremis di qualche
criminale di mezz'età di cui nessuno sa niente. Le stragi impunite
sono ridotte da tempo a una litania inoffensiva, "perché Piazza
Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l'Italicus, Ustica
eccetera, eccetera, eccetera..." cantava Gaber con lapidaria
ironia in Qualcuno era comunista.
Una fiammata d'indignazione
e una lacrima. Un luogo e tutt'al più una cifra, il numero dei
morti: come le vecchie targhe delle macchine, o le sigle dei taxi,
Milano 17, Brescia 8, Bologna 85... Risuonano appelli rituali ormai
logori, "abolire il segreto di Stato", "scoprire i
mandanti", mentre in questo magma indistinto muore d'asfissia la
fiducia dei cittadini verso lo Stato.
Parole, elencazioni,
evocazioni. Pochissime immagini. Ecco, alla storia delle stragi
impunite manca persino un immaginario a cui appigliarsi per
ricominciare a pensare. Non esiste l'equivalente della foto del
ragazzo con la P38 in via De Amicis, a Milano, divenuta simbolo degli
"anni di piombo", ed è logico: i colpevoli sono per lo più
senza volto. Ma nemmeno il corrispettivo del Moro prigioniero che
regge un quotidiano davanti allo stendardo delle Brigate rosse. Le
immagini delle stragi sono prive di esseri umani. [...] Il 28 maggio
1974 consegna il proprio racconto ai volti degli uomini. A Brescia
non è avvenuta la più grande delle stragi, né la più nota. Ma è
diversa dalle altre, per tanti motivi, e lo si capisce già dalle
fotografie. "Strage col più alto tasso di politicità", è
stato detto: perché la bomba colpì una manifestazione antifascista.
Le immagini di piazza della Loggia dopo l'esplosione brulicano di
persone. Gente che grida, corre, scappa, piange, resta impietrita.
Manifestanti che soccorrono le vittime.
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"zio" Manlio Milani, mentre soccorre la moglie Livia morente, per la bomba in piazza della Loggia |
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