30 luglio 2014

Il senso degli imprenditori italiani per l'export

Dal capitolo "Italiani all'estero - la grande fuga" del libro "La caccia al tesoro" di Nunzia Penelope (Ponte alle Grazie).
Capitali italiani nei paradisi fiscali al 2014: 180-200 miliardi di euro (Bankitalia)
Capitali sanati  con lo scudo fiscale del 2010: 104 miliardi di euro (Ministero del Tesoro)
Stima non ufficiale dei capitali italiani in Svizzera: 900-1000 miliardi di euro


Se chiedi agli imprenditori italiani cosa pensano delle nostre debolissime leggi anticorruzione e antiriciclaggio, della mancata reintroduzione del reato di falso in bilancio, dei tanti scandali economici che hanno al centro i migliori nomi dell'ex salotto buono (Ilva, Ligresti, Monte dei Paschi, per citarne solo alcuni), della devastabnte evasione fiscale , delle montagne di quattrini che si accumulano all'estero mentre il paese stringe la cinghia, ti guardano perplessi: «Oggi il nostro problema è cercare di tenere aperte le aziende massacrrate dalla crisi», spiegano con la cortesia forzata che si deve a chi fa una domanda un po' stupida; il resto sono dettagli.
Eppure tra le cuse principali della crescita zero del Paese - e della fragilità e del disastro della nostra economia - c'è, per l'appunto, l'intensificarsi di quella giostra di abusi che rientra sotto l'etichetta di «criminalità economica»: evasione fiscale, corruzione, falso in bilancio, riciclaggio. Anche quando ci si lamenta della cronica assenza d'investimenti esteri in Italia, quindi, sarebbe bene chiedersi qualcosa a proposito dell'inarrestabile tendenza dei capitali italiani ad espatriare, anziché essere reinvestiti nelle aziende che li hanno prodotti: se non ci credono gli imprenditori nazionali, in questo paese, perché mai dovrebbero farlo gli stranieri?
La stessa Confindustria, molto sensibile al tema della competitività e della produttività delle aziende italiane, non collega questi deficit al basso livello di legalità del nostro sistema economico, preferendo imputare le debolezze italiane all'alto costo del lavoro, al peso del fisco, della burocrazia, dei sindacati. Anche questi sono problemi reali, naturalmente. Ma non sono i soli, e forse nemmeno i più gravi.
[..]
Molto più calore è speso dal sistema imprenditoriale per ottenere un'altra legge ritenuta, questa sì, fondamentale: quella che modifica l'attuale impostazione del reato di «abuso di diritto», anticamera dell'elusione fiscale, detta anche, per semplificare, l'evasione dei ricchi e delle imprese.
Nel settembre del 2011, una lettera firmata dall'allora presidente Emma Marcegaglia assieme ai rappresentanti delle banche e delle compagnie di assicurazioni e indirizzata all'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti, parlava di «oppressione da controlli fiscali» e ammoniva così:
"Gli effetti degli accertamenti fiscali sono pesanti e potrebbero rilevarsi devastanti. I bilanci delle imprese, colpiti per centinaia di milioni di euro, soffrono: gli obiettivi di fuoriuscita dalla crisi diventano ancor più difficili da raggiungere".

E' nonostante questo, ancora non siamo usciti dalla crisi. Forse perché i vecchi manager sono rimasti al loro posto. Perché le leggi anticorruzione e antiriciclaggio ancora latitano. Perché il reato di falso in bilancio ancora è da ripristinare.
E l'evasione e l'elusione servono appunto per creare le riserve dei fondi neri da cui attingere per la solita corruzione.
Ma i problemi sono sempre gli stessi, come scrive la giornalista Nunzia Penelope: è colpa del costo del lavoro, dei sindacati, della burocrazia ..

Col 75% delle risorse ..

Ve lo ricordate lo spot con cui la Lega aveva fatto campagna elettorale alle passate regionali in Lombardia?
Col 75% delle risorse (le nostre tasse) i treni arriverebbero in orario, avremmo soldi per le imprese, per aiutare le persone ..
A parte che quella era solo una promessa elettorale, l'inchiesta de l'Espresso mostra nero su bianco come sono ora impiegati i nostri soldi in regione.

"Ex animatrici per bambini, pizzaioli, ex dipendenti di Forza Italia, licenze da terza media e perfino il mandante dei manifesti "fuori le BR dalle procure". Gli assessorati sono ridotti a una guerra tra correnti per accaparrarsi il resto dei budget a disposizione. Mentre il lavoro, quello vero, lo fanno i dipendenti regionali.
Lombardia, ecco l'esercito dei consulenti Tanti, inutili e a spese del contribuente   
Di tutto e di più negli staff degli assessori regionali lombardi. A scorrere l'elenco dei consulenti a supporto degli organi di indirizzo politico c'è da rimanere sconcertati. Maestre d'asilo, camerieri di pizzerie, animatrici di miniclub, consiglieri e assessori comunali in cerca di doppio stipendio, laureati a pieni voti, professionisti affermati. Tutti insieme appassionatamente alla voce «rapporto fiduciario» che regola questi contratti di collaborazioni coordinate e continuative con stipendi oscillanti tra i 15mila e i 40mila euro l'anno."
Meglio saperlo prima come vengono usati i nostri soldi: prima del referndum che la Lega vorrebbe fare per rendere la Lombardia regione autonoma. Costo del referendum: 30 ml di euro. Referendum che ha solo valore consultivo, come quello Veneto.
Dicono i leghisti: riprenderemo quei soldi in pochi giorni.
Per farne cosa?
Per stipendiare qualche altro parente?
Per un laurea in Albania?


PS: e i treni in regione viaggiano sempre alla stessa maniera ...

La seconda volta

L'assassino torna sempre sul luogo del delitto e, come in questo caso, ammazza di nuovo la sua vittima.
L'unità chiude ancora, dopo la chiusura del 2000, dopo la gestione allegra dei Ds.
Questa chiusura è effetto della crisi dei partiti (che vogliono controllare anche l'informazione) e dell'informazione (controllata dai partiti): un riassunto della crisi del paese.

PS: dopo la chiusura del 2001, l'Unità fu rimessa in piedi dalla gestione di Furio Colombo (e in seguito di Antonio Padellaro). Su quel giornale scriveva anche Marco Travaglio.
Oggi tutti al Fatto Quotidiano. 

Non è solo questione di poltrone

Ci possono essere diverse spiegazioni: la bagarre in aula è solo un problema di poltrone, chi protesta contro la riforma del Senato lo fa solo per interessi personali.
Oppure, all'improvviso l'opposizione si è resa conto che, con l'approvazione di questa riforma, il potere del premier aumenta e diminuisce il controllo delle opposizioni sulla maggioranza.
Rimane sempre valida la domanda: ma tutti questi sforzi muscolare servono veramente al paese?
Il bicameralismo non ha bloccato le porcate (dall'indulto al falso in bilancio).
La fine del Senato elettivo porterà a risparmi limitati (una minima parte di quelli richiesti a Cottarelli).
Il governo coi poteri rafforzati l'abbiamo già sperimentato, con scarsi risultati, nel passato: col governo di B. e con Monti nei primi mesi. Non servono maggiori poteri, ma persone competenti e non legate a lobby.

29 luglio 2014

Le tasse di Google

Torniamo al buco nero dell'evasione, i miliardi di soldi che finiscono nei paesi offshore e che sono sottratti alla fiscalità dei paesi occidentali, di cui parla Nunzia Penelope ne "La caccia al tesoro".
Lo sapete che solo il 30% delle migliaia di miliardi che si trovano in questi paradisi (non solo le cayman, ma anche Svizzera, Jersey, Irlanda) sono della criminalità organizzata?
Il resto è composto anche dai guadagni delle multinazionali che spostano la loro fiscalità dove è più conveniente.
Più conveniente per i grossi manager, non per i paesi di origine.
E' tutto a norma di legge: lo spiega su Punto-informatico Luca Annunziata

I dati relativi al 2013 dipingono un margine risicato e spese fuori controllo. Ma è solo questione di come far tornare i conti, e dove mandare i profitti
Roma - Nel 2013 il fatturato della divisione europea di Google si aggira sui 17 miliardi di dollari, poco meno di 12 miliardi di euro: i profitti derivanti dal mercato pubblicitario (soprattutto) e dalle altre attività di Big G nel Vecchio Continente raggiungono un nuovo massimo storico, così come l'entità dei margini e delle tasse pagate da Mountain View. Rispettivamente 189,1 milioni e 27,7 milioni di euro, con oltre 10 milioni in più di tasse pagate rispetto al 2012. Un nuovo record, che tuttavia stride col totale del fatturato: ma niente di quanto fatto in Europa da Google è meno che legale.

Il merito di questa enorme sproporzione tra tasse e fatturato risiede nel modo in cui Google gestisce la contabilità: la stragrande maggioranza degli introiti finisce in "costi amministrativi", ovvero costi che Google sostiene per coprire lo sfruttamento del logo e pagare royalty sulle tecnologie collegate al business che porta avanti. Il "trucco", per altro già ampiamente conosciuto come "double irish", risiede nel modo in cui viene gestita la contabilità: tutti gli introiti transitano dalle filiali locali alla divisione irlandese di Google, che poi provvede a girare i pagamenti alle società con sede alle Bermuda a cui fanno capo tutte le sue attività (le tasse locali sulle società sono tra le più basse del mondo).

Non c'è niente di illegale in tutto questo: Google opera all'interno del mercato unico europeo, e dunque può tranquillamente vendere beni e servizi attraverso una sola ragione sociale di diritto irlandese. I soldi finiscono alle Bermuda, e lì restano: ci sarebbe modo di farli rientrare negli USA, e pagare le tasse, così come ha fatto eBay lo scorso anno. Per ora però non vi è alcuna indicazione sulle intenzioni di Google per il futuro.

Sulla questione da tempo si dibatte anche sul piano politico, in particolare in Italia, e ora è intervenuto persino Barack Obama: "Si tratta di approfittare di un regime fiscale tecnicamente legale, ma credo che molte persone direbbero che se fai affari qui sei semplicemente un'azienda statunitense. Stai semplicemente cambiando il tuo indirizzo per evitare di pagare le tasse, ma non stai facendo del bene al paese e ai cittadini americani". Se è questo l'orientamento dell'amministrazione USA non si potrà fare altro che prenderne atto, ma questa faccenda non mancherà di gettare altra benzina sul fuoco di una polemica che al di qua dell'Atlantico non si è mai davvero sopita.

Rocco Chinnici (1983-2014)

Nel suo bel libro di mafia, Salvo Palazzolo parla di "pezzi mancanti", riferendosi agli oggetti sottrati da qualche manina sui luoghi degli omicidi di mafia.
Si parla dell'agenda di Borsellino, gli appunti di Peppino Impastato, i files di Giovanni Falcone, la relazione di Pio La Torre, le bobine con la telefonata tra Vito Guarrasi e Nino Salvo ..).
Perché oltre alla verità, sui delitti di mafia, deve sparire anche la storia delle vittime, le loro parole, quello che avevano scoperto, i loro segreti.
Nel caso del capo dell'ufficio istruzione Rocco Chinnici (ucciso da un'autobomba a Palermo il 29 luglio 1983) ad essere sparite sono le carte del processo, come hanno scritto domenica i due giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco il 27 luglio scorso:

"Questa è la storia di un fascicolo scomparso dentro la procura di Palermo e dimenticato per 15 anni. Un fascicolo trasmesso nell’estate del ’98 dal gup di Reggio Calabria, dichiaratosi “incompetente’’ a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in mafia e corruzione di un imputato eccellente. È la storia dell’indagine sul presidente della Corte d’Assise d’Appello di Messina Giuseppe Recupero (già deputato regionale del Psi nella VII legislatura), accusato di aver intascato duecento milioni di lire per salvare dall’ergastolo i boss Michele e Salvatore Greco, nel processo concluso il 21 dicembre dell’88 per la strage Chinnici, il primo episodio di terrorismo mafioso a Palermo".
Qual'era la colpa più grande del capo ufficio istruzione Rocco Chinnici? Voleva colpire i patrimoni dei mafiosi, mettere il naso dentro i loro conti, aprire fascicoli sugli imprenditori mafiosi.
Mettere sotto accusa un pezzo del potere economico-politico-mafioso in Sicilia

«La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. [...] La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio. Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini.»
E' a Rocco Chinnici che dobbiamo la creazione del pool, poi ripreso da Caponnetto, l'intuizione del terzo livello:
Certe cose a Palermo non bisogna dirle. Anzi è consigliabile, per essere «apprezzati», negarle smentirle. Invece Chinnici andava a ruota libera, pensava ad alta voce. E pensava anche – dimostrando in questo un'incoscienza senza pari – che il terzo livello esiste, e che senza il terzo livello la mafia che spara, che fa le stragi, che taglieggia popolazioni intere, non avrebbe motivo d'esistere. Spiegò pochi giorni prima della sua morte: «c'è la mafia che spara; la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi; e c'è l'alta finanza legata al potere politico (..) Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati». Se l'avessero lasciato fare avrebbe certamente raggiunto l'obiettivo.
Tratto da Venticinque anni di mafia - Saverio Lodato: capitolo “Beirut? Belfast? No, Palermo”. Pagine 133-134

Nei suoi diari, pubblicati da l'Espresso, Chinnici annotava alcuni fatti straordinari del suo lavoro: come le pressioni ricevute dall'ex procuratore capo di Palermo, Pizzillo «Ma cosa credete di fare all'ufficio istruzione? La devi smettere Chinnici di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l'economia siciliana .. ».
O anche «A quel Falcone, caricalo di processi, così farà come ogni giudice istruttore: non farà più niente».
Infine quest'ultima annotazione: «Pochi mesi prima di essre ucciso, Mattarella fece un viaggio a Roma con due funzionari della regione per incontrarsi col ministro dell'interno [Rognoni]. Al ritorno a Palermo Mattarella confida ai due funzionari: “Se qui si sapesse cosa ho detto al ministro mi ammazzerebbero”». L'episodio era stato riferito a Chinnici proprio dai due funzionari, ma questo, seppur presente in un rapporto di polizia giudiziaria, era sparito dai dossier successivi all'uccisione del noto uomo politico siciliano.

28 luglio 2014

Il tesoro offshore

Ci sono circa (è una stima dell'ex economista Mc Kinsey James Henry) 30000 miliardi di dollari nascosti nei paesi offshore.
E' una cifra enorme, per cercare di capirne le dimensioni, la giornalista Nunzia Penelope usa come riferimento il nostro PIL:

“Il PIL dell’Italia è circa 1500 miliardi di euro annui: nei paradisi fiscali ci sarebbe quindi, grossomodo, l’equivalente di vent’anni della nostra ricchezza nazionale. Vent’anni di lavoro e di stipendio di tutti i nostri lavoratori, di prodotto di tutte le nostre fabbriche e aziende, di tutte le attività commerciali, di tutti i beni comprati e venduti, di tutte le case costruite, di tutta la spesa pubblica per sanità, scuola”.
Oppure, se vogliamo usare un altro termine di paragone, sono circa 15 volte il nostro debito pubblico, quello per cui siamo sempre sotto la spada di Damocle dello spread, quello che l'europa ci chiede di ridurre, quello del fiscal compact.
Sono tanti soldi, accumulati dalla criminalità organizzata ma anche dalle grandi multinazionali che spostano le sedi legali dove più comodo, dai super ricchi che decidono (perché consentito dalle leggi) di nascondere i loro beni dietro dei Trust per non pagare le tasse.
Sono soldi che passano dal mondo reale, abitato da gente che paga le tasse e che si deve sobbarcare il peso dei debiti nazionali, al mondo offshore.
Che non è costituito solo dalle isole nei Caraibi come le Cayman.
No: il mondo offshore è molto vicino a noi, tremendamente vicino e facilmente accessibile.
E' l'Irlanda e l'Inghilterra, dove Google e Fiat hanno spostato le sedi fiscali.
Sono San Marino e lo Ior, dove tanti italiani nascondono i loro conti.

E' un tesoro su cui, in tempi di crisi, i governo dovrebbero andare a caccia. Per risollevare l'economia e tagliare i debiti.
Ma i governo nazionali, si sono dimostrati molti più complici in questa lotta di classe condonna dai ceti più ricchi nei confronti dei più poveri.
Tutto questo nell'ultimo libro di Nunzia Penelope "Caccia al tesoro" Ponte alle Grazie.

Informazione libera

Il presidente di Assostampa Puglia, Raffaele Lorusso:
"Già un anno fa, nell'assordante silenzio delle istituzioni e delle forze politiche di Taranto, Blustar Tv - scrive Lorusso - licenziò quattro giornalisti adducendo quale motivazione il venir meno dei centomila euro annualmente garantiti dall'Ilva".
Dunque, l'Ilva di Taranto finanziava, con 100000 euro l'anno, la tv locale Blustar TV ma, a seguito delle inchieste, è cessato questo finanziamento, così la struttura ha licenziato quattro giornalisti.
Nei giorni passati, è stato licenziato anche il giornalista Luigi Abbate, quello a cui Archinà aveva strappato il microfono (episodio che aveva suscitato l'ilarità del governatore Vendola).
Questa è l'informazione che doveva controllare l'Ilva, l'inquinamento e lo stato dell'aria e dei terreni.

Non è una passerella (show)


«questa non è una passerella, ma la conclusione di una storia con tanti morti che nessuno di noi può dimenticare, è il giorno del ricordo delle vittime e della gratitudine agli abitanti del Giglio e a tutte le forze di polizia e di volontariato».
Ecco se si fosse fermato qui, avrebbe avuto ragione. Ma agganciare il recupero della Concordia alla ripresa dell'Italia, da a tutto un sapore diverso.
Anche perché Schettino non ha partecipato al recupero del relitto.

27 luglio 2014

Non credibile

Tavecchio deve ritirarsi dalla corsa alla presidenza della FGCI perché non è credibile, dopo l'uscita sui mangiatori di banane.
Mentre è invece ancora credibile Calderoli, l'uomo della maglietta anti islam, della porcata, dell'offesa alla Kyenge, per fare le riforme.
Rimane credibile anche Berlusconi, nel ruolo di padre costituente, specie ora che è stato assolto in Appello.

Di questo passo, tra foto propaganda e minacce, a non essere più credibile sarà la svolta renziana che si trascinerà dietro tutte le istituzioni.
Non si rendono conto che i cittadini non sono arrabbiati dai ritardi, ma dalle tasse, dai servizi pubblici che non sono all'altezza, da chi ruba, da chi fa il furbetto.

Via delle oche, di Carlo Lucarelli

Incipit
Sul muro un cosacco enorme lo guardava truce, con la stella rossa sul colbacco e una baionetta tra i denti, un occhio socchiuso deformato dalle bolle d'aria sotto la carta. Il manifesto era ancora lucido e umido di colla e quando De Luca lo aveva sfiorato, facendosi da parte per evitare buca sul marciapiede, gli aveva lasciato sulla manica del soprabito una striscia argentata, appiccicosa, come la traccia di una lumaca. 
«E' LUI CHE ASPETTATE?» diceva la scritta in un corsivo appuntito, da pennello grosso e De Luca che era sceso dal marciapiede per metterla a fuoco in tutta la sua lunghezza si strinse nel soprabito, infilandosi le mani in tasca.
Via delle Oche è il terzo racconto (o quarto se vogliamo considerare “Indagine non autorizzata”) di Carlo Lucarelli con protagonista il commissario Achille De Luca: questa trilogia ne costituisce una sorta di biografia. L'abbiamo visto indagare ai tempi di Salò e sfuggire nel 1945 alla cattura dei partigiani a Bologna. Per non essere arrestato come criminale di guerra (era un funzionario della polizia investigativa della Muti), De Luca era stato costretto a scappare. Il processo di epurazione gli ha permesso di essere reintegrato nella polizia: assegnato alla buoncostume, ritrova a Bologna il suo aiutante, il maresciallo Pugliese.
Lo ritroviamo qui a Bologna, nell'aprile del 1948, a tre giorni dalle elezioni politiche che porteranno l'Italia a scegliere la Democrazia Cristiana


Via delle Oche era famosa per le case chiuse, prima che la legge Merlin ne stabilisse la chiusura: in una di queste, al civico numero 23, viene trovato impiccato Ermes Ricciotti, il “serafino” (il ragazzo tuttofare) della Tripolina alla casa al numero 16. I primi ad arrivare sul posto sono il maresciallo Pugliese e il vicecommissario Achille De Luca.

Sebbene, per colpa del sua passato “fascista” sia stato degradato e mandato alla Buoncostume, De Luca è rimasto un poliziotto capace di osservare i dettagli, le cose che stonano: come il fatto che le gambe del morto non arrivano a toccare lo sgabello su cui sarebbe salito.
Qualcuno l'ha ammazzato.

Ma in Questura, dove i vertici sono più preoccupati delle imminenti elezioni e della gestione dell'ordine pubblico (le manifestazioni, i funerali dell'onorevole “Casa e chiesa” Orlandelli), non hanno interesse ad aprire un caso, che viene derubricato subito a suicidio. Forse con troppa fretta, da parte del Vicario del Questore, il dottor D'Ambrogio, che lo invita ad occuparsi solo delle prostitute.

Ma De Luca è un poliziotto curioso di natura: uno di quelli che finché tutte le tessere del puzzle non si incastrano, non ha pace:
«Pugliese io sono curioso di natura e i misteri non mi piacciono. Non so a lei, ma a me questo signore che fa le acrobazie per infilzare la testa in una corda mi dà un fastidio quasi fisico e lo so che poi non ci dormo la notte. Dica un po', Pugliese .. secondo lei sarebbe una pazzia andare da questa Tripolina e farle un paio di domande sul Ricciotti?»
Viene trovato un altro morto alla Montagnola, un fotografo di nome Piras: De Luca, pensando che l'omicida non abbia trovato quello che cercava sul morto si precipita al suo indirizzi. Intuizione felice: l'assassino è andato proprio a cercare qualcosa che Piras non aveva addosso: dopo una sparatoria e un tentativo di fuga sui tetti, costui precipita e muore.
Due omicidi e tre morti, sono un po' troppo per essere un caso. L'ultimo morto, l'uomo caduto dal tetto, era un picchiatore fascista e anche un galloppino di un uomo politico, l'Abatino, il pupillo dell'onorevole Orlandelli.
De Luca prosegue nelle indagini: il capo di gabinetto del Questore, dottor Sala, della fede politica comunista, lo sprona a proseguire.
«Non me ne frega niente se mi usano! Io sono un poliziotto, Pugliese, faccio il poliziotto e sto con chi mi permette di fare il mio mestiere!»
In via delle Oche, nella casa, conosce la maitres, la Tripolina. Con questa, il commissario ha una breve parentesi d'amore.
Seguendo il suo intuito e disapplicando gli ordini del vicario D'Ambrogio, De Luca arriva alla verità del delitto (e delle morti successive): è solo un attimo di luce prima che la ragione di stato e ordini superiori, mettano tutto a tacere. Ripristinando un ordine democratico alle cose.

Più che per l'indagine e gli aspetti da libro giallo, questo è un bel libro perché cerca di spiegare le atmosfere di quei giorni: le elezioni, l'attentato a Togliatti, gli scontri di piazza, le false epurazioni e le amnistie che avevano permesso ai criminali fascisti di non finire sotto processo. Le due correnti politiche (o geopolitiche) in Questura: i democristiani che ora sperano nella vittoria e dall'altra parte la corrente comunista, che aveva sperato nella rivoluzione per cambiare l'Italia. 
Sala, ll capo di Gabinetto, commenta così
- Sa qual è il nostro difetto commissario? Che vorremmo vincere ma abbiamo paura di vincere troppo... e così perdiamo sempre. Quando dico noi intendo dire noi comunisti.
Ma il cambiamento, la rivoluzione non possono arrivare, come gli spiega il vicario D'Ambrogio:
«Sa di cosa ha bisogno questo paese?» disse, come se parlasse tra sé, come se canticchiasse, quasi. «Di stabilità. Questo paese ha bisogno di ricostruire e non di distruggere. L'hanno capito anche gli altri. Ha bisogni di rispettabilità, di considerazione internazionale, di investimenti, dei dollari del generale Marshall, del patto atlantico ...Di ordine». 
«Di legge» 
«E' la stessa cosa». 
«Per me no, io sono un poliziotto». 
D'Ambrogio voltò la testa sulla spalla lanciò un'occhiata a De Luca. 
«Anche io» disse «e come poliziotto sono al servizio del governo. Di interessi superiori, vicecommissario aggiunto, interessi superiori».
Peccato che Lucarelli abbia interrotto la serie di De Luca, sebbene il libro abbia in finale aperto. Chissà come avrebbe visto il dopoguerra, il boom, un poliziotto come De Luca. Con la sue nevrosi, le sue tensioni, la sua capacità di far bene il suo lavoro di investigatore. A metà strada tra Maigret e Ingravallo, il personaggio inventato da Gadda e portato sullo schermo da Pietro Germi ne “Un maledetto imbroglio”. Che come lui, ripete “Non sono dottore, non sono dottore”.
«Non sono dottore, non sono dottore .. »
Scala gli era arrivato alle spalle, senza che se ne accorgesse, «ho conosciuto un altro che lo diceva sempre .. come si chiamava .. Germi, no, Ingravallo .. il commissario Ingravallo, lo conosce?»
 
«L'ho incrociato una volta .. a Roma».
La scheda del libro sul sito di Sellerio e il blog di Carlo Lucarelli.
I link per ordinare il libro su Amazon e Ibs

26 luglio 2014

La Diaspora - Dov'è oggi la sinistra italiana di Alessandro Gilioli

Ci sono sempre state e sempre ci saranno persone che lottano per la giustizia sociale e i diritti dei cittadini.


La sinistra è morta, viva la sinistra. Sembra una provocazione, un'uscita del genere, con un Pd al 41%, dopo il voto per le Europee. Paradossale, ma è così: la sinistra intesa come sinistra politica è oggi frantumata in tanti rivoli, divisi e anche in lite tra loro, e dunque di scarso peso in Parlamento.
Il Pd è altra cosa: un lungo processo di trasformazione l'ha fatto diventata in quello che oggi è il partito renziano, dove uno decide assieme a pochi, e gli altri annuiscono entusiasti.
PD che anziché sposare battaglie sugli ultimi, sui senza lavoro, senza casa, senza diritti civili, abbracciando le larghe intese con gli ex nemici (?) di una volta, ha votato di volta il fiscal compact, la legge Fornero, la riforma delle pensioni, il decreto Poletti sui precari. E ora si appresta a votare il TTip, l'accordo internazionale che permetterà alle grandi compagnie americane di passare sopra le leggi nazionali espresse dai governi votati dai cittadini.
Qualcuno si ricorda ancora le settimane che hanno preceduto la non vittoria di Bersani alle elezioni del 2013? Era un continuo rincorre, da parte del PD, dell'agenda di Monti, il loden di Monti, i punti del suo programma. Perfino dei suoi ministri (Passera e la Fornero) erano indicati come futuri ministri del governo di centrosinistra che non c'è stato.
Abbiamo visto come è andata a finire: Monti, chi?

Dal post “I giorni di Monti”
Primo, il voto favorevole alla riforma delle pensioni. «Anche qui, è chiaro che abbiamo sbagliato», dice Fassina. «Però la legge Fornero era contenuta nel decreto di stabilità approvato in fretta e furia appena Monti era diventato premier e in quel momento non c’erano le condizioni per fare diversamente. Eravamo consegnati nelle mani del Professore, che era considerato da tutti il salvatore della patria. Quella cosa fu approvata in cinque giorni: ci sentivamo in emergenza completa. E poi avevamo appena votato la fiducia al governo Monti: sull’atto più importante, la legge di stabilità, quello su cui era nato lo stesso governo, non potevamo fare altro».
Errore successivo, aver sostenuto l’esecutivo anche quando Berlusconi lo aveva già mollato: «Dopo le elezioni amministrative del maggio 2012 il capo del Pdl era ancora formalmente nella maggioranza, ma si comportava come se fosse all’opposizione», ricorda Fassina: «Insomma noi siamo rimasti lì con il cerino in mano a sostenere da soli le politiche di austerity. Io allora ebbi l’ardire di dire che dovevamo anticipare la nuova legge di stabilità e andare a votare a ottobre, ma fui massacrato in modo pesantissimo nel mio stesso partito, con tanto di richiesta di dimissioni. Penso che invece avremmo dovuto fare proprio così. Cioè dire: “questa è stata l’emergenza ma non può essere il nostro programma, noi abbiamo un altro progetto e adesso che la fase più grave è passata si va alle urne”. Ripeto: fui bastonato pesantemente, solo per averlo proposto».
Ulteriori errori, elenca Fassina, il fiscal compact e il pareggio di bilancio: «Averli appoggiati fa parte di quella subalternità che ha viziato il Pd fin dall’inizio. Se avessimo avuto una qualche autonomia culturale, noi di sinistra, avremmo potuto pressare Monti per ottenere almeno delle clausole migliori. Lo sbaglio nostro, quello che sta alla base di quelli successivi, era appunto precedente: stava nella versione soft del paradigma liberista adottata dal mio partito fin dal discorso di Veltroni al Lingotto. Nasce tutto da là».
Ancora più duro sul passaggio che segna la nascita del governo Monti è il segretario della Fiom, Landini: «La sinistra non aveva alcuna proposta alternativa a quello che ci avevano detto di fare Trichet e Draghi nella loro lettera dell’estate 2011. Così, quando cadde il governo Berlusconi, si scelse di non andare a votare e di appoggiare il governo dei tecnici. Fu un errore tragico: per un anno ci siamo bevuti la ricetta imposta dalla Troika, dalla riforma delle pensioni al pareggio di bilancio. L’appiattimento del Pd a quelle politiche, durante quel periodo, è stato decisivo nell’aprire le praterie al risultato di Grillo nel 2013».
Vincenzo Vita, ex senatore Pd, offre un racconto di quei giorni ancora caldo di emozione e a tratti agghiacciante: «Il partito non aveva capito l’importanza di quello che stava facendo. Quando cercavo di spiegare ai colleghi del mio gruppo che stavamo votando una cosa demenziale, tutti mi rispondevano: “ma Vincenzo, qui cade il governo”. Non ci fu nemmeno l’agio di un confronto né nel partito né tra i parlamentari: neppure sul pareggio di bilancio che pure ebbe un percorso lungo, in quanto modifica della Costituzione. Niente: era una cosa calata dall’alto e noi dovevamo adeguarci per non far cadere Monti. Io ci provai fino all’ultimo: ancora nel giorno del voto finale, nell’aula di Palazzo Madama, passai tra i banchi dei miei compagni per cercare di parlare con loro a uno a uno, ma senza alcun successo. Mi dicevano: “lascia stare, dai, lascia stare”. Perfino Ignazio Marino, di cui ho grande stima, mi rispose: “Vincenzo, non ho studiato bene il dossier”. Ma quale dossier? Ma cosa c’era da studiare? Era evidente che non aveva alcun senso quella roba, proprio a livello di logica elementare. Ci stavamo mettendo in una gabbia di ferro da soli, senza motivo, e lo stavamo facendo perché “altrimenti cadeva il governo”. Rimasi quasi solo. E non mi riferisco soltanto al mio partito, ma anche al mondo della sinistra italiana, che con pochissime eccezioni non comprese assolutamente la rilevanza di quel passaggio».
Il pd renziano.
E ora? Con Renzi stiamo inseguendo un progetto di riforme che non è autoritario: semplicemente riduce di molto lo spazio per le opposizioni e allontana il palazzo dai cittadini (non eleggibilità, le firme per i referendum, lo sbarramento per i partiti minori..).
Si, gli 80 euro (prima del voto alle europee, appunto): non hanno cambiato di molto la bilancia di spesa, e non risolvono il problema di quanti non hanno lavoro o, avendolo, fanno fatica ad arrivare a fine mese.
Fare politica di sinistra sarebbe ridurre la forbice tra ricchi e poveri, garantire i servizi pubblici di eccellenza per tutti (sanità, scuola, trasporti). Puntare tutto su istruzione, cultura, ricerca: da quanto tempo si sente ripetere che l'università non ha più la funzione di ascensore sociale?


Ma la sinistra, intesa come gente di sinistra, no, quella non è scomparsa.
Divisa, litigiosa, incapace di parlare a tutti e a mettere le mani nella "merda", i mille rivoli della sinistra esistono ancora e ancora sono in attesa di una nuova casa.
Non sorprenda il voto alle europee: il boom Renzi lo ha fatto prendendo voti al centro e nel centrodestra (in termini assoluti ha preso un milione di voti di meno rispetto alle elezioni perse da Veltroni nel 2008.
Voti che sono finiti anche nel M5S che, non sarà di destra o sinistra, ma proviene da quell'area là. I suoi eletti e i suoi elettori, in larga parte sono di sinistra.
La sinistra è un grande serbatoglio elettorale. O meglio, lo sarebbe, sempre che ci fosse un contenitore, una casa capace di accoglierli. Con un leader che non schiaccia il partito con la sua immagine, ma capace di dare invece il buon esempio nei comportamenti concreti.
Come Alexis Tsipras, che in Grecia, nel corso di anni, ha creato un nuovo partito di sinistra, che ha soppiantato il Pasok, l'equivalente del Partito democratico.


Dopo la sinistra della diaspora, quella divisa in mille partiti (da Sel fino al M5S), nei movimenti, dentro la società civile, negli ultimi capitoli, Gilioli prova ad immaginare la sinistra che dovrebbe essere, partendo dai principi, le parole, i valori propri della sinistra.
L'inclusione e non l'esclusione degli ultimi: significa reddito minimo di cittadinanza,“finalizzato a “stipendiare i fannulloni” ma a fornire uno strumento di soccorso e di reinclusione sociale”.
Significa diminuire la distanza tra politica (oggi sempre più medioevalizzata) e le persone: “affiancare ai referendum abrogativi quelli propositivi. Aprire canali internet tra le persone e i partiti: “una nuova forma di 'democrazia continua' basata sul controllo digitale ininterrotto degli atti e delle decisioni di ogni pubblico amministratore.”
La redistribuzione della ricchezza e non la forbice tra ricchi e poveri che si allarga. Significa una vera lotta all'evasione e alla corruzione. Una ruberia non più tollerabile ai danni degli ultimi che, sempre più spesso, sono costretti a prendersi sulle proprie spalle il peso dell'austerità.
Significa smetterla con queste grandi opere, sempre più spesso utili solo all'arricchimento dei politici e degli imprenditori che si prendono i lavoro.
Spostare le risorse nei mille rivoli della riqualificazione del paese: le scuole, i paesi a rischio alluvione e frane, la messa in sicurezza dei fiumi.


La decrescita felice, perché non possiamo continuare a consumare a questo ritmo tutte le risorse, con un ritmo di lavoro forsennato, mentre il resto del mondo non ha lavoro e non ha risorse.
Queste le parole chiave secondo il filosofo Latouche “rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare.” Una filosofia critica contro il neoliberismo e contro questo concetto di mercato perché“la concorrenza e il libero scambio sono il protezionismo dei predatori, degli speculatori”.


La rivalutazione del merito e la definizione, in Costituzione, del concetto dei beni comuni, quelli cioè imprescindibili per una vita dignitosa delle persone, come cittadini pienamente coscienti di una democrazia. Dall'acqua, al paesaggio alla rete internet: “in modo che il digital divide nel nostro secolo non si trasformi in una forma di discriminazione d’opportunità inaccettabile, proprio come non era accettabile che i figli delle famiglie povere non potessero andare a scuola perché non c’erano i bus”.
Inserire in Costituzione un principio che “stabilisca una correlazione tra il Pil e la cifra minima da investire nel welfare”, privilegiare la spesa nella scuola pubblica rispetto alla scuola privata, diversificare il concetto stesso di spesa pubblica.
Distinguere cioè la spesa pubblica che finisce in spese militari, da quelle che finiscono in welfare, “declinando per ciascuna di esse vantaggi e svantaggi sociali”, come spiega Rodotà.
E ancora, più asili e meno cliniche convenzionate, più ferrovie per il trasporto pubblico e meno autostrade, più uguaglianze e meno restrizioni alle risorse.
Insomma, sono tanti concetti che meriterebbero di essere affrontati, e che nulla hanno a che fare con le riforme presunte, messe oggi sul piatto dal centrosinistra.
Servirebbe una visione, un progetto, idee forti su cui costruire il futuro della sinistra stessa.
Obiettivo ambizioso e di lungo respiro. Ma questa è la direzione.


La scheda del libro, presa dal blog di Gilioli:
Il libro che avete tra le mani è un’indagine sulla sinistra italiana. Quella che secondo alcuni è sparita e secondo altri, invece, ha stravinto le ultime elezioni europee. Due visioni estreme: e chi leggerà le pagine che seguono vedrà che sono un po’ sbilenche entrambe.Questo libro è diviso in tre parti.La prima è sul passato più recente. Il periodo preso come punto di partenza è il biennio tra il 2007 e il 2009.Il 2007 è l’anno in cui è nato il Partito democratico e in cui Beppe Grillo ha tenuto il suo primo V-day. Nel 2008 il Pd ha perso le elezioni, la sinistra radicale è scomparsa dal Parlamento, Grillo ha lanciato le sue prime liste civiche. Nel 2009 è implosa la segreteria Veltroni, con la sua ambizione di riunire tutta la sinistra italiana in un unico partito plurale e “a vocazione maggioritaria”, mentre lontano dai riflettori nasceva il gruppo dei rottamatori che avrebbe aperto la strada a Matteo Renzi; in quello stesso anno è stato fondato il Movimento 5 Stelle e si è diffusa la protesta di piazza contro il governo Berlusconi. Partendo da quel biennio, in questa prima parte si sono analizzati quindi gli sviluppi successivi, fino alle elezioni politiche del 2013 e a quelle europee del 2014. La ricostruzione storica non è però proposta in modo strettamente cronologico, ma attraverso le diverse forme in cui le persone e le rappresentanze della sinistra si sono manifestate, evolute o involute.
La seconda parte del libro è sul presente. E qui l’indagine è concentrata sulle tre forze politiche verso le quali si indirizza l’elettorato della sinistra italiana: il Pd di Renzi, il Movimento 5 stelle e l’area della lista Tsipras. Manca la quarta area in cui questi elettori sono defluiti: l’astensionismo. Ma questo non è, evidentemente, un soggetto politico.
L’ultima parte di questa ricerca è sul futuro, quello più prossimo nel tempo. E ha anche la piccola ambizione di fornire agli elettori e agli attivisti della sinistra italiana qualche strumento utile in termini costruttivi: niente di sistematico, solo mattoni e tasselli.
Il libro è intessuto di colloqui con alcuni protagonisti della politica che, con le proprie testimonianze e le proprie opinioni, contribuiscono alla rappresentazione storica, alla fotografia del presente e alle prospettive per il domani. I virgolettati dei personaggi intervistati sono spesso molto difformi tra loro: e non sempre chi li ha raccolti concorda con essi. Ma costituiscono comunque i fili di un ordito e di una trama il cui risultato finale – in termini di interpretazione, di tesi e di proposte – risulterà chiaro a chi leggerà questo libro. O, almeno, qui ce lo si augura.
Sempre da blog Piovono rane e da l'Espresso, tre capitoli del libro:
- Chi inventò la Leopolda (http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/07/10/news/sinistra-chi-invento-la-leopolda-1.172958)
- I giorni di Monti (http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/07/21/la-diaspora-i-giorni-di-monti/#more-22854)
- Il caso Rodotà (http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/07/24/la-diaspora-il-caso-rodota/#more-22856)
- il video della presentazione https://www.youtube.com/watch?v=ZJq-Ji-xesc



I link per ordinare il libro su Ibs, Amazon

25 luglio 2014

Quella canzone l'ho cantata anch'io


"Noi siamo i fucilieri del battaglion d'assalto
Bombe a mano e carezze col pugnal"

Alzi la mano chi ha fatto il soldato in una caserma più o meno operativa e non ha cantato questa canzone. Anche io, al CAR a Trieste ho marciato con queste strofe.
Il punto non è cantare inni fascisti. L'ho spiegato ieri: il punto è che nessuno sa cosa significhi vivere sotto il fascismo.
Per dire, non avrei la libertà di scrivere queste cose.

Noi tireremo diritto

Per fortuna che i senatori dovevano fare poche vacanze, perché ad agosto si sarebbe lavorato.
Per fortuna che si sarebbe lasciato spazio alla discussione, al confronto, su una riforma, quella delle istituzioni, su cui è meglio un giorno in più di lavori che un giorno in meno. Niente tagliola, si diceva ..
Per fortuna che questo governo ha reso disponibili tutte le carte dei servizi, sugli anni di piombo. Mentre tiene nascosta la carta del patto del nazareno: quella dove Renzi e Berlusconi (senza dire nulla agli elettori, agli italiani) si sono accordati per riformare la giustizia, la legge elettorale, il Senato.
Per fortuna che il ministro Boschi ci rassicura con un tweet (ormai nell'era renziana si usa così): "L'ultima parola sulle riforme sarà dei cittadini: referendum comunque! #noalibi".
Per fortuna che l'ostruzionismo era cosa buona e giusta quando era il Pd a volerlo fare, sulla riforma di Berlusconi che bloccava le intercettazioni

Tecnicamente non sarà un ostruzionismo, ma in pratica il Partito democratico è pronto a usare tutti gli strumenti parlamentari per contrastare il disegno di legge sulle intercettazioni. A chiarirlo è stato Dario Franceschini, al termine della riunione del gruppo Pd alla Camera cui ha partecipato anche il segretario Pier Luigi Bersani.
"Faremo tutta l'azione di contrasto parlamentare possibile, useremo tutte le virgole concesse dal regolamento", ha spiegato. "E' difficile chiamarlo ostruzionismo visto che i tempi sono contingentati, ma ci opporremo in ogni modo a questa porcheria".

Proprio così, porcheria. Come la chiamiamo ora questa cosa? Il senato di non eletti con poteri poco chiari e protetti dall'immunità. Una legge elettorale che toglie agli elettori la possibilità di scelta. L'innalzamento delle firme necessarie per i referendum. La futura riforma della giustizia fatta assieme a B. dove si toccheranno pure le intercettazioni.
Si, ieri in piazza a protestare c'era anche gente con cui ho poco da spartire.
Ma la situazione non cambia: il paese rimane nella palude, a prescindere da queste contro riforme.
E non basteranno certo le belle immagini da istituto Luce del premier che salva la povera donna perseguitata risollevare il paese.
Perché il premier ha dichiarato che andrà fino in fondo. Trascinandosi dietro il paese.

24 luglio 2014

Questa voglia dell'uomo forte

Capita anche a voi di incontrare sempre più spesso, in treno, per strada, facendo la coda alle poste, gente che se ne esce con frasi del tipo "servirebbe che arrivi uno che spazza via tutto ...".
I sindacati? Non servono a niente e rubano soldi.
I politici? Tutti ladri.
I sindaci e gli assessori? Buoni solo ad alzare le tasse ..
E se vengono beccati a rubare, il manganello.
Sono le stesse persone che poi se ne escono dicendo "non bisogna pagare le tasse", perché i nostri soldi finiscono nelle mani di chi ruba.
Perché noi italiani siamo così, tutti ladri, tutti furbi ...

Ecco, a queste persone di solito rispondo dicendo, ma tu hai votato per un ladro?
E quando stai male, chi chiami? La croce rossa o l'amico medico?
Se ti rubano l'auto, a chi fai la denuncia? Ai carabinieri o all'amico investigatore privato?
Ecco, state tranquilli, voi amanti dell'uomo forte, è arrivato l'uomo giusto al comando.
Quello cge spazzerà via tutto.
Sindacati, senatori, oppositori.

23 luglio 2014

Colpo di sole (reloaded)

Il presidente della repubblica è stato chiaro nel suo monito alla stampa: non c'è nessun rischio autoritario dentro le riforme.
"Non vado oltre sul tema, per rispetto verso i lavori, ormai in fase avanzata, dell’Assemblea del Senato. Ma rivolgo un pacato e fermo appello a superare un’estremizzazione dei contrasti, un’esasperazione ingiusta e rischiosa – anche sul piano del linguaggio – nella legittima espressione del dissenso. E per serietà e senso della misura nei messaggi che dal Parlamento si proiettano versi i cittadini, non si agitino spettri di insidie e macchinazioni autoritarie. Né si miri a determinare in questo modo un nuovo nulla di fatto in materia di revisioni costituzionali".

Non solo non si disturbi il manovratore verso il governo del primo ministro, ma il presidente ha pure sdoganato la riforma della giustizia da fare assieme a B, definito "interlocutore significativo" perché ha elogiato i magistrati che l'hanno assolto in appello per il processo Ruby.
E se veniva (ri)condannato? Diventava interlocutore ancora più significativo?

Nel frattempo i magistrati di Palermo depositavano nuovi atti per il processo sulla trattativa.
I dialoghi tra Fede e il personal trainer Gaetano Ferri dove si parla dei rapporti tra Dell'Utri e Berlusconi, i soldi dati da quest'ultimo all'ex senatore, i conti esteri, la mafia

"Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perché lui è l'unico che sa... Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno riferimento a Dell'Utri?".

"C'è stato un momento in cui c'era timore ... - racconta Fede - Che loro hanno messo Mangano (il boss morto in carcere noto come lo stalliere di Arcore, ndr) attraverso Marcello (Dell'Utri, ndr)". "La vera storia della vicenda Berlusconi - prosegue - ...mafia, mafia ...soldi, mafia, soldi...Berlusconi". "Sì, sì - aggiunge Fede - Dell'Utri era praticamente quello che investiva... Chi può parlare? Solo Dell'Utri". "Mangano era in carcere. Mi ricordo che Berlusconi arrivando - dice Fede riportando una sorta di dialogo tra Berlusconi e Dell'Utri - ..'hai fatto?'...'sì sì..gli ho inviato un messaggio..gli ho detto a Mangano: sempre pronto per prendere un caffè". "Era un messaggio per rassicurare lui su certe cose che non so..- spiega a Ferri - E devo dire che questo Mangano è stato un eroe. E' morto per non parlare".

E poi ancora le cene eleganti, Ruby:

«Lui (Berlusconi) lo sa che gli voglio bene, non può pensare che io lo tradisco... Io so tutto di lui, quando scopava, dove scopava, con il dito... Mi chiamava all'una e mezza di notte...».

Agli atti depositate anche le intercettazioni di Riina nel carcere di Opera dove il boss spiega che Borsellino era intercettato:

“Sapevamo dove dovevamo andare… perché lui gli ha detto… domani, mamma, domani vengo”. Nel cortile del carcere di Opera, conversando con il suo compagno di “aria” Alberto Lorusso, il boss Totò Riina alza il braccio sinistro e lo porta tra la bocca e l’orecchio, mimando il gesto di prendere il telefono: “Gli ha telefonato… va bene… Sapevo che ci doveva andare alle cinque”.
E viene fuori una vecchia indagine che aveva coinvolto un tecnico dell'Elte, processo poi finito con delle assoluzioni.

Sempre per il processo sulla trattativa, anche nuovi documenti sul generale Mario Mori e il suo passato negli anni della strategia della tensione:

"Il ruolo del generale Mori L’amicizia con Vito Miceli, il suo allontanamento dal Sid per ordine di Maletti con il divieto di restare a Roma “fino alla fine del processo sul golpe Borghese”, il ritorno nella capitale a capo dell’antiterrorismo il giorno del sequestro Moro. In mezzo l’inchiesta sulla “Rosa dei Venti” del pm Giovanni Tamburrino che chiede ai colleghi romani una fototessera di Mori che non riceverà mai, per l’avocazione dell’indagine a Roma, fatta da Claudio Vitalone. Chi è davvero Mario Mori? È il geniale investigatore al quale storici, politici e una certa antimafia attribuisce la fine dello stragismo oppure è un enigmatico ufficiale dell’Arma che nasconde nel suo passato i buchi neri della strategia della tensione?"
Ma tanto adesso Renzi ha desecretato le carte sui misteri italiani, no? Adesso il governo si impegnerà a fare luce sulla strage di via d'Amelio.
O forse no, perché è troppo impegnato nell'approvazione della grande riforma che nno si può criticare, per cui ha precettato i senatori dalle 9 a mezzanotte.
Sempre che, alla fine, non si decida di mettere la ghigliottina. O arrivare alle elezioni anticipate.

Si, ha ragione ministro: abbiamo tutti preso un colpo di sole.

22 luglio 2014

Vuoto politico

L'Italia ha puntato tutto sulla nomina del ministro Mogherini ad Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza dell'Ue.
Nomina poi bloccata dai no di alcuni paesi europei dell'est.
Ma più che alle poltrone, mi piacerebbe sapere cosa ne pensa il governo italiano e la Mogherini della situazione di Gaza? Che soluzione hanno per la guerra in corso (a parte chiedere il cessate il fuoco)?
E lo stesso dicasi per la guerra in Ucraina? Che posizione ha l'Italia e che posizione ha l'Europa?
Mi sembra che, più che ad una scelta politica, si sia tutti interessati alla poltrona.
Che però, senza politica, rimane vuota.

Colpo di sole

Difficile che a milioni di italiani, con questa estate, sia venuto un colpo di sole, che ha portato a questa allucinazione collettiva.
Quella denunciata in Senato ieri dal ministro Boschi

"Ho sentito alcuni parlare di svolta autoritaria. Questa è una allucinazione e come tutte le allucinazioni non può essere smentita con la forza della ragione. Non c'è niente di autoritario. Parlare di svolta illiberale è una bugia e le bugie in politica non servono".
A parte che questa classe politica vive di bugie (dai soldi per la ricostruzione delle scuole, al reddito di cittadinanza, per dire le ultime), non è la riforma in sè ad essere autorirtaria ma il combinato delle modifiche a Senato e legge elettorale che portano verso una precisa direzione.
La soglia di sbarramento che si alza. L'assenza di preferenze. Il premio di maggioranza. I senatori scelti dai partiti, come i deputati. Che poi si scelgono i membri laici di CSM e il presidente della repubblica.
A volte, in politica, è meglio stare zitti.

21 luglio 2014

E io che mi credevo ..

Su Il giornale oggi potete leggere questo articolo di N. Farrell (quello dell'intervista a B. su The spectator):
Pubblicare intercettazioni telefoniche mentre un'indagine è ancora in corso e prima di un processo vuol dire per forza fare il processo in piazza prima del processo vero. Di conseguenza - necessariamente - ogni prova viene inevitabilmente inquinata. Ecco perché in Italia non è mai possibile capire se un imputato sia colpevole o no, vedi il caso Amanda Knox? In Inghilterra, uno che fa come fa Travaglio e colui che gli fornisce le intercettazioni (la magistratura italiana) vanno in galera subito. Il reato si chiama contempt of court (oltraggio alla corte) ed è gravissimo. Esiste qualcosa del genere in Italia?
E io che mi credevo che oltraggio alla corte fosse inventarsi impegni pur di non presenziare ai processi, prendere tempo per arrivare a prescrizione, o anche pagare dei testimoni del tuo processo ..

Anche le tasse lumbard, vero Salvini?

Salvini annuncia lo sciopero fiscale per il 14 novembre: “Sciopero fiscale, così facciamo saltare lo Stato il 14 novembre”.
“Noi parliamo a un popolo che ha perso la fiducia, dovremmo esserl’ alternativa alla sfiducia. Abbiamo il tempo per preparare qualcosa di cui tutto il mondo parli. Pensate cosa accadrebbe se un venerdì di novembre, facciamo il 14, da Nord a Sud tutte le persone che producono e lavoro e sono strangolate da Equitalia, da Stato ladro, da studi di settore dicessero basta: io oggi non pago, vi affamo, non apro il negozio e se apro non rilascio lo scontrino, faccio una corsa gratis del taxi, faccio straordinari gratis”.
Anche le tasse lumbard non si pagheranno il 14, non è vero?
Pensate che bello: uno si sente strangolato dalle tasse e decide che non vuole più pagare il vitalizio al Trota (o agli altri consiglieri regionali finiti nelle inchieste su rimborsopoli) ..

La volontà popolare

Chi si oppone alle riforme vuole bloccare la volontà popolare: più o meno queste le parole dedicate dal premier ai gufi e rosiconi che si oppongono alla grande riforma delle istituzioni.
Il rifarsi al popolo lo rende uguale, come atteggiamento, all'alleato fedele delle riforme, quel Berlusconi appena assolto in appello per il rubygate.
Anche sotto un altro aspetto, B. & R. hanno qualcosa in comune: l'assenza di ideologie dietro le loro idee. La spinta alla loro politica del fare, del dare l'idea di movimento mostrando slide e cifre, non arriva da un'ideologia.
Il primo difendeva i suoi interessi.
Il secondo, oggi, mette la sua ambizione davanti a tutto: marcare il presente con la sua presenza e marcare questa politica con le sue riforme. Dopo di lui il diluvio. Se cade lui, cade tutto il partito. E' la nostra ultima spiaggia. In milioni di italiani lo votano (e questo vale per entrambi).

Ma, ora c'è stata l'assoluzione.
E questo complica le cose: perché il prezioso alleato ora può alzare il prezzo per arrivare ad una riforma sempre più al ribasso.
La giustizia (e la legge Severino, a quanto pare), il presidenzialismo, un condono, la nomina del presidente della repubblica assieme.

Perché le riforme si fanno tutti assieme: maggioranza e opposizione, destra e sinistra, guardie e ladri, finanzieri ed evasori.
Così rispettano meglio la linea mediana degli italiani.
Oggi iniziano le votazioni in Senato per le riforme: ci aspettano delle sorprese.

20 luglio 2014

Fuori dal coro

Una voce fuori dal coro dell'ipocrisia conformista che si sente ogni 19 luglio: il pm Di Matteo che ha ricordato a Renzi le riforme con un condannato (e fondato da un colluso), e il rischio di una magistratura schiacciata tra le correnti e la gerarchizzazione degli uffici. Grazie alla persona che dovrebbe difendere la Costituzione.

I luoghi di Milano – S Maurizio al Monastero Maggiore

Milano non ha bisogno delle vie d'acqua. Delle aiuole in piazza Duomo. Di tanti abbellimenti “costosi” che stanno realizzando per Expo.
Milano deve solo saper valorizzare i suoi piccoli grandi capolavori, molti di quali poco noti, per diventare una vera città d'arte, come le altre città europee.Non c'è solo il Duomo, il museo del Novecento (che pure ha ospitato opere importanti come “Il quarto stato”), la pinacoteca di Brera.


Solo per rimanere nell'ambito delle chiese, da visitare a qualunque costo c'è S. Satiro, in via Torino, con la finta prospettiva del Mantegna. S. Maria dei Miracoli in zona corso Italia. Sant'Ambrogio e la corna del diavolo (almeno così dice la leggenda).
E anche la chiesa di S Maurizio al Monastero Maggiore, in corso Magenta, a giusto cinque minuti da piazzale Cadorna.
La costruzione di S Maurizio risale al 1500: sembra una piccola chiesa, vista da fuori, ma una volta entrati dentro si rimane colpiti dall'ampiezza dei volumi, dalla ricchezza dei dipinti che affrescano i muri. La presenza pittorica più importante è quella di Bernardino Luini: tra le opere che si possono ammirare il volto di S Caterina, la flagellazione, una riproduzione dell'ultima cena.
La struttura è divisa in due parti (tre se si considera anche la cripta ora inglobata nel percorso del museo archeologico): la chiesa pubblica davanti e, dietro, la chiesa claustrale per le monache di clausura.
S Maurizio non è stata sconsacrata ma comunque, non si celebra messa: è una struttura visitabile grazie all'impegno dei volontari del Touring club, che fanno anche da ciceroni per i turisti.
Ecco la nota stonata: il comune non ha soldi per pagare del personale suo, per rendere vistabile questo tesoro. Senza i volontari, S Maurizio rimarrebbe chiuso (e mi tornano in mente anche i volontari del FAI, che permettono la visita di luoghi privati, non solo a Milano).


Ecco, quanti sono sono stati spesi, male, per Expo? Per la cattedrale nel fango dove sorgeranno i padiglioni dei paesi visitatori, che poi dovremo in qualche modo riconvertire?
Quanti soldi sprecati in consulenze, stipendi d'oro, mazzette?
Possibile che il pubblico non possa farsi carico della valorizzazione e della conservazione dei beni culturali che sono di tutti?



Andate al link www.apertipervoi.it : troverete la lista dei luoghi d'arte tenuti aperti grazie al Touring Club: la casa del Manzoni, il parco dell'Anfiteatro romano, i resti del Mausoleo imperiale, la chiesta di S. Antonio Abate, la casa museo Boschi di Stefano, la cripta di San Giovanni in Conca.

Cominciate da S Maurizio: ecco alcune foto (senza flash!):

L'ultima cena
La Chiesa claustrale
L'organo Antegnati del 1555




La deposizione


19 luglio 2014

Processare lo stato – via D'Amelio 19 luglio 1992

Antonio Ingroia sul Fatto Quotidiano, da il suo ricordo personale di Paolo Borsellino: una persona estremamente generosa che, per la sua generosità e il suo coraggio, è stato ucciso. Generosità nei confronti di uno stato che non si meritava questo: uno stato complice degli stragisti che, più che a colpire la mafia, ha pensato a salvare la pelle ai suoi esponenti più collusi.
“Uno stato così si può solo processare”, dice l'ex magistrato, “ma il potere è improcessabile, perché non si fa giudicare. Pretende irresponsabilità perché è l'antitesi del principio di responsabilità. E perciò rifiuta il processo e la verità”.
Da qui nascono i depistaggi, gli attacchi ai giudici che stanno portando avanti il processo sulla trattativa (sul reato di minaccia a corpo dello Stato). Da qui i silenzi, i non ricordo, il trincerarsi dietro il riserbo, la ragione di stato. Da qui, addirittura, la definizione vergognosa di una trattativa “meritoria e coraggiosa”. Da qui le cerimonie sempre più ipocrite dove solo per un giorno si ricordano gli eroi (loro malgrado) e dove si risentono generiche formule sulla lotta alla mafia.
Non meritava questo Paolo Borsellino e la sua scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina e Claudio Traina).
Non meritiamo questo noi, cittadini di uno stato democratico.


Uno degli ultimi interventi di Paolo Borsellino, a Palermo, dove ricordava, di fronte ai giovani, il suo amico Giovanni
Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca.
Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone.
Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 Ore dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama… - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo, Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a far il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto.

Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo continuò incessantemente a lavorare.
Approdò alla procura della repubblica di Palermo dove a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter lì continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler far lui per Palermo. E in fin dei conti se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge anche nei momenti di maggiore successo le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare.
Soprattutto, per consentirgli di ritornare - a fare il magistrato, come egli voleva.
Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché forse ripensandoci quando Caponnetto dice «cominciò a morire nel gennaio del 1988» aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per poter continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.
(25 giugno 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino al congresso “Ma è solo mafia?”)
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