Report è entrata nelle aziende che
producono tessuti per le principali aziende del lusso e mostrato il
lato oscuro del mondo della moda.
Nell'anteprima si è parlato della
“Gamification”: l'utilizzo del gioco per catturare e manipolare
l'attenzione delle persone e ora se ne è accorta anche la politica.
IN
GIOCO
di Antonella Cignarale
Ci sono videogiochi per far conoscere
un museo, come quello del museo archeologico di Pompei: il
gioco serve come incentivo alla visita delle stanze, si continua
l'avventura del gioco nel mondo reale.
Durante un gioco la nostra attenzione è
catturata (si chiama stato di flusso, o “flow”), ma c'è il
rischio di essere manipolati: della “gamification” se ne è
accorta anche la politica che ha pensato a come usare i videogiochi
per influenzare le nostre scelte.
Ne hanno fatto uso sia la Clinton che
Trump, che Corbyn per finanziare la sua campagna elettorale: Corbyn
run è un gioco politico che in Italia ha un equivalente col
“Vinci Salvini”.
Gabriele è uno dei vincitori del
gioco: la sfida era riuscire a parlare col segretario leghista e
apparire sulle sue pagine social.
Chi partecipa è incentivato a
raggiungere un premio: in cambio del click sui social, Salvini ha poi
scalato la classifica sul web rispetto ad altri politici.
Fabio Viola è uno dei migliori game
designer: per guidare le persone nel gioco deve “emozionare”
le persone, un enorme potere che va usato bene.
La seduzione del gioco può avere tanti
fini: non ci sono solo quelli elettorali ma anche quelli per
stimolare corretti comportamenti alimentari, come il gioco sulla
glicemia.
Ci sono giochi dove si vince un
colloquio in un'impresa: il gioco permette di capire se il candidato
conosce di finanza, di informatica e così, tutti i dati inseriti
dalle persone sono poi dell'azienda.
In Cina stanno sperimentando un gioco
“sociale” dove si monitora se una persona posta fake news, se non
paga le tasse, se uno dei suoi contatti ha comportamenti di questo
tipo .. una sorta di profilazione di massa per giudicare
l'affidabilità di un cittadino.
Speriamo che non prenda piede anche in
Italia.
PULP
FASHION di Emanuele
Bellano in collaborazione di Michela Mancini e Greta Orsi
LVMH è il gruppo
che detiene i marchi LV, Fendi e Bulgari fattura 40 miliardi di
dollari ed è di proprietà del signor Arnault, considerato da Forbes
il quarto uomo più ricco al mondo.
Al sesto posto di
trova Ignazio Ortega, proprietario di inditex, che possiede il
marchio Zara (25 miliardi di euro nel 2017).
H&M ha un
fatturato da 20 miliardi di dollari, molto più in basso ci sono i
marchi italiani, Max Mara fattura 1,5miliardi di euro mentre Armani
2,6 di fatturato.
Si sono incontrati
a settembre alla settimana della moda, che aveva al centro il tema
della sostenibilità, dei diritti dei lavoratori, rispetto
dell'ambiente.
Non avendo potuto
entrare in passerella, Report è andata in Cina a vedere come si
producono i tessuti di queste case: perché il mercato del lusso vale
1000 miliardi di dollari, ma il valore di queste aziende si basa
sulla loro immagine di aziende che rispettano i diritti delle persone
e non usano degli schiavi.
Schiavi tenuti
lontani migliaia di chilometri: il 90% dei produttori di tessuti sono
cinesi, noi italiani eravamo produttori una volta, ora ci occupiamo
solo di piccole rifiniture.
Zara, Benetton,
Trussardi, Mirò H&M hanno prezzi alti nei negozi, ma i prezzi
alle manifatture cinesi sono molto più bassi.
Ci sono collezioni
disegnate in Italia e poi realizzate in Cina da aziende e stilisti
cinesi: racconta Emanuele Bellano che, spesso, cambia solo il marchio
da un capo all'altro.
E come si lavora in
queste fabbriche? I grandi marchi verificano che i fornitori
rispettano i diritti umani e dell'ambiente?
Alla fine le
ispezioni a sorpresa, per capire se dietro il lusso c'è la vera
sostenibilità, l'ha fatta Report: “i responsabili di produzione
sono inadeguati”, racconta un consulente aziendale a Bellano.
Che si è
presentato nelle varie aziende come un compratore: sulla carta tutte
le regole sono rispettate, ma almeno in quelle visitate, la
situazione è diversa.
Rumore assordante,
puzza di sostanze chimiche, bidoni di coloranti lasciati aperti,
lavoratori senza maschere e scarpe di sicurezza, nessuna protezione
per gli occhi.
Eppure H&M che
si appoggia alla fabbrica di Shangai, sostiene che sia tutto
controllato e sicuro: “questo qui ha tante probabilità di avere il
cancro alla vescica” racconta un consulente d'azienda nella visita.
I fornitori cinesi
di H&M devono firmare un documento in cui dichiarano il
rispetto dell'ambiente: sempre la consulente racconta di scarichi
dentro il fiume, con tanto di pesci morti raccolti dagli operai.
Depositi che
sembrano una discarica, coi bodoni stipati a fianco ai macchinari,
una puzza di solvente, impianti elettrici con fili volanti.
In queste aziende
non dovrebbero usare prodotti chimici tossici (per l'acqua, per
l'uomo, per gli animali acquatici): eppure l'unica precauzione sono i
cartelli negli impianti.
Ma sanno tutte
queste cose da Max Mara?
I suoi tessuti
arriverebbero da fornitori cinesi, che (rispetto ai vecchi produttori
italiani) garantiscono minori costi, a fronte di prezzi nei negozi
che sono rimasti alti.
Abbiamo ceduto
commesse all'estero e competenze, tanto non c'è obbligo di mettere
la provenienza dei tessuti in etichetta.
Anche Ikea compra
in Cina i suoi tessuti: ha realizzato un video per esaltare le
condizioni di lavoro dei dipendenti di queste aziende.
Dove nei reparti di
produzione si sente puzza di solventi, dei coloranti. Anche qui i
lavoratori non indossano maschere di sicurezza né guanti.
“Sono marchi che
si vantano di essere attenti, ma in nessuna azienda in venti anni ho
trovato la lista dei prodotti utilizzati” racconta la consulente.
Servirebbero le
schede di sicurezza di tutti i coloranti, ma il manager dell'azienda
ne ha solo per 24 di questi. E ad Ikea va bene, almeno così sembra.
Ikea fa ispezioni
in Cina, racconta un manager di Ikea a cui Bellano ha mostrato il
video girato: si vedono molte cose che non sono in linea con le
direttive di Ikea, dovremo fare le indagini, fare degli accertamenti
– la risposta.
Ikea è in buona
compagnia: dalla stessa azienda Armani ha comprato tessuti fino al
2014.
Un ex dirigente di
una azienda tessile ha raccontato che le aziende cinesi non sono
consapevoli dei rischi dei prodotti utilizzati e che, in fondo, i
marchi che comprano qui non sono interessati alle condizioni di
lavoro.
A Prato, al Buzzi
lab, analizzano questi tessuti: hanno trovato tracce di diftalato, il
noninfenolo.
Significa che i
controlli delle aziende sono insufficienti: chi certifica che i
prodotti e i tessuti sono provi delle sostanze proibite?
C'è una sorta di
autocertificazione ..
Ikea ha preso sul
serio il video di Report, H&M ha ammesso i rapporti con questi
fornitori e ha promesso di prendere provvedimenti, come anche Mango.
Inditex e Zara
dicono che non lavorano con fornitori cinesi diversamente da quanto
emerge dal suo sito.
Armani ha messo a
disposizione una piattaforma via web per l'autocertificazione dei
suoi fornitori.
Dalle fabbriche
asiatiche i tessuti arrivano nelle aziende di confezione: alcune di
queste sono in nordafrica.
Come in Tunisia
dove si realizzano le confezioni a prezzi vantaggiosi: come i jeans
della Replay.
In questa azienda
usano il permanganato di potassio, una sostanza tossica che va
maneggiata con cura: maschere e guanti che nello stabilimento non
sembrano presenti.
In questa azienda
si trattano i jeans col permanganato che poi possiamo comprare in
Italia a 200 euro.
In Tunisia un
operaio costa meno: ma qui costa meno anche la depurazione
dell'acqua, ci sono regole più “elastiche” per le aziende, meno
“rotture di coglioni” racconta un imprenditore italiano che
lavora qui.
Benetton,
Trussardi, Max Mara lavorano qui.
Pagano i loro jeans
da 5 a 10 euro e poi sono venduti 10-20 volte di più nei negozi.
Nelle stesse
aziende si producono capi sia per i marchi del lusso che per i marchi
più a buon mercato: cambia solo il logo, racconta un produttore.
Diesel produce le
giacche del Milan, non in Italia ma in Tunisia: Giuseppe Iorio ha
lavorato coi grandi marchi della moda che ha aiutato a delocalizzare
la loro produzione.
Ora è uno
scrittore che sta denunciando il lato oscuro della moda: le aziende
chiudono in Italia e aprono un Romania, Tunisia.
Con un conseguente
aumento dei profitti di questi marchi.
Ci sono marchi che
chiedono prodotti che richiedono dei procedimenti illegali come la
sabbiatura (perché i lavoratori respirano poi la silice): tanto qui
non ci sono sindacati né controlli.
“Qua puoi farlo,
in Italia non puoi più farlo” dice uno di questi produttori, che è
pure fiero d usare metodi squadristici contro i lavoratori che
protestano.
Ma i nostri marchi
cosa ne pensano di queste storie?
“E' una sorta di
avidità ancestrale”, così si spiega Giuseppe Iorio, perché la
differenza tra la produzione in Italia e in Tunisia è di pochi euro,
per prodotti venduti poi a 100 - 150 euro.
Se si vuole un
mondo sostenibile, si deve lottare per un mondo senza ingiustizie:
perché l'Europa non controlla la produzione dei marchi europei anche
in Africa e in Cina?
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