03 dicembre 2018

Le inchieste di Report: i grandi marchi, il franchising e i videogiochi


Si parla di lusso questa sera a Report: i grandi marchi della moda dove la produzione dei tessuti è in buona parte stata spostata all'estero.
Poi il franchising, uno strumento per aiutare i piccoli negozi che a volte si trasforma in un problema.
Infine, nell'anteprima della puntata, l'utilizzo dei videogiochi nel lavoro. Solo un gioco?

L'anteprima: IN GIOCO di Antonella Cignarale (qui su raiplay)


Si dice che giocando si impara: nel caso del videogioco su Ustica (l'abbattimento di un aereo di linea italiano nel Tirreno il 27 giugno 1980), il giocatore dovrebbe imparare a fare il detective per cercare di ricostruire le cause della strage. La posizione degli altri aerei, le comunicazioni radar, le tracce ..
Un mezzo per la conservazione della memoria, spiega alla giornalista il suo autore Ivan Venturi. Forse c'erano anche altre vie.
Durante un gioco, si è immersi dentro la fase di “flow”, di flusso, in cui siamo stimolati a dare il massimo perché siamo pienamente concentrati su quello che stiamo facendo, per raggiungere un obiettivo: sono i momenti in cui siamo più produttivi, ma purtroppo, racconta la psicologa Antonella Delle Fave, questa risorsa può essere strumentalizzata.
Quando siamo nello stato di “flow” possiamo essere manipolati dalla politica ad esempio: il “gamification” è stato usato nella campagna elettorale in America da Trump e dalla Clinton, in Inghilterra dalla May e dal leader laburista Corbyn, per spiegare la sua politica.
E' solo un gioco allora?
Chi sta investendo sui giochi per condizionare i comportamenti dei consumatori a proprio vantaggio?
La capacità che ha un videogame di catturare e tenere incollato un utente allo schermo è diventato un fenomeno da emulare in contesti che con il gioco, apparentemente, non hanno niente a che fare. Aziende ed enti pubblici, infatti, sempre di più ricorrono alle tecniche e al design dei videogiochi per agire sul comportamento delle persone e spingerle a partecipare alle loro attività. Mutuando le dinamiche ludiche in contesti seri si può stimolare un paziente alle cure e rendere un dipendente più concentrato al lavoro tanto quanto lo è un giocatore immerso in un’avventura di gioco virtuale. Con un videogame si può anche fidelizzare un consumatore a un prodotto o ingaggiare elettori durante la campagna elettorale. Le persone non devono sentirsi obbligate a farlo, devono volerlo fare. La chiamano gamification, ma davvero si tratta solo di un gioco?

La sostenibilità della moda

Tutte le grandi case di moda, quelle dove la produzione è stata spostata nei paesi dell'est (e ora anche in paesi africani) per ragioni di costi (e di profitto) assicurano di avere al centro dei loro interessi la sostenibilità,il rispetto per l'ambiente e condizioni sicure e umane per i propri lavoratori.
Emanuele Bellano e i giornalisti che hanno curato il servizio sono andati a vedere quali sono le condizioni negli stabilimenti in Cina, est Europa e in nord Africa.
Il gran lusso è un mercato che vale 1000 miliardi di euro, che da prestigio all'Italia (per i marchi italiani): per sostenere la sostenibilità i marchi italiani ogni anno alla Scala organizzano l'evento “Green carpet fashion award”: apparire sostenibile è importante per questi marchi, l'immagine del lusso deve essere accompagnata dall'immagine del bello e del pulito.
Sarebbe un grave danno di immagine se uno scoprisse che dietro quel lusso ci sono degli schiavi.
LVMH è il gruppo che detiene i marchi LV, Fendi e Bulgari fattura 40 miliardi di dollari ed è di proprietà del signor Arnault, considerato da Forbes il quarto uomo più ricco al mondo.
Al sesto posto di trova Ignazio Ortega, proprietario di inditex, che possiede il marchio Zara (25 miliardi di euro nel 2017).
Ci sono poi anche i marchi italiani: Max Mara fattura 1,5miliardi di euro mentre Armani 2,6 di fatturato.

Il tema della sostenibilità è stato al centro della settimana della moda milanese: alcuni dei produttori presenti intervistati da Emanuele Bellano hanno parlato di produzione italiana, con tessuti italiani, tutto made in Italy.
Ma altri marchi (come Max Mara e Armani) non hanno concesso l'intervista e così il giornalista è andato a vedere di persona: presentandosi col falso profilo di acquirente, Bellano è andato in una fabbrica in Cina, per controllare di persona..

Sul Fatto Quotidiano una seconda anticipazione


Secchi di prodotti chimici senza coperchio, vernici mescolate a mani nude, uomini a lavoro in sandali sopra a pavimenti pieni di residui di sostanze nocive. “Questo tra qualche anno avrà un tumore alla vescica”, commenta un consulente d’azienda ignaro di essere ripreso, indicando un operaio.[..] 
Con una telecamera nascosta il giornalista entra nella fabbriche che producono tessuti per i grandi marchi – gli stessi che, a inizio servizio, parlano di moda “green” da Milano e da Parigi – , accompagnato da una guida che da anni lavora nel settore e che non sa di essere ripresa. Il risultato è il contrario di ciò che professano le grandi aziende: vecchi barili di materiali tossici e infiammabili senza protezioni, sostanze chimiche ammassate alla rinfusa, operai senza guanti né mascherine. “In Italia se un direttore ha una fabbrica così arriva il padrone e lo caccia a calci in culo”, sentenzia la guida nello stabilimento di Shanghai. 
Eppure i clienti sono tutti facoltosi: “Per Zara facciamo 100mila metri di tessuto l’anno – spiega a Report una manager della fabbrica – poi oltre a loro e a H&M produciamo anche per il gruppo Vf, per Gap e siamo in attesa di partire con Mango”. Una volta ottenuti i filmati dalle fabbriche, Report ha chiesto spiegazioni ai marchi coinvolti. Tra i “no comment” e i “verificheremo” dei più, Zara ha negato di aver mai lavorato con quegli impianti (contraddicendo non solo i video, ma anche il proprio sito internet), mentre H&M si è difeso assicurando di far firmare un protocollo ai propri fornitori in cui si impegnano a rispettare certi standard. L’unica presa di posizione decisa è arrivata da Ikea: “Abbiamo provveduto ad avvisare i nostri fornitori che se entro 90 giorni non si adegueranno agli standard di sicurezza chiuderemo i rapporti”.

La scheda del servizio: PULP FASHION di Emanuele Bellano in collaborazione di Michela Mancini e Greta Orsi
I grandi marchi della moda italiana e internazionale costituiscono delle vere e proprie potenze economiche sullo scenario mondiale. Insieme hanno una capitalizzazione di borsa di 1500 miliardi di dollari. La maggior parte dei brand, sia quelli di lusso sia quelli di massa, ha ormai trasferito a Est l'intera produzione dei loro capi: Cina, India e Bangladesh prevalentemente per i tessuti, Turchia, Europa dell'Est e Nord Africa per il confezionamento. Nonostante si tratti di paesi dove la manodopera costa poco e i controlli sono spesso inesistenti, le case di moda garantiscono che la loro catena produttiva rispetti alti standard di sostenibilità e garantisca la salute dei lavoratori, quella dei consumatori e il rispetto dell'ambiente. Report è entrato in alcune fabbriche in Cina e Nord Africa che producono per i principali marchi della moda italiana e internazionale e ha documentato sotto copertura le reali condizioni di produzione. E le cose non sono esattamente come assicurano loro.

Italia in franchising

Secondo confesercenti il franchising è il sogno del 30% dei nostri produttori, ma per molti è un sogno trasformato in un incubo.
Giuliano Marrucci è partito dal marchio Avis (la società di autonoleggio) presente su tutto il territorio grazie al franchising: uno di questi affiliati era del signor Paoletti, che ha visto rescisso il contratto nel 2014. Senza apparente motivo.
Una storia simile a quella di Cosimo e Giovanni, affiliati alla rete di Poste Italiane, Ki Point: una rete che prometteva un buon fatturato (si parlava di più di duemila euro al mese netti).
LA realtà è stata ben diversa: nessuna delle persone contattate da Giovanni aveva guadagnato qualcosa.

Cristiana, Tiziana, Massimo e Antonia erano affiliati alla rete di Original Marines: non è stata un'esperienza positiva la loro, gli sono rimasti i debiti (anche col marchio) e le tasse da pagare.
Il franchising – racconta Giovanni – è un sistema importato dall'America senza le sue regole: “qui i potenti fanno quello che vogliono”

La scheda del servizio: ITALIA IN FRANCHISING di Giuliano Marrucci in collaborazione di Alessia Marzi e Silvia Scognamiglio (qui l'anteprima su raiplay)

Cinquantunmila negozi, 940 marchi, 187 mila addetti e quasi 25 miliardi di fatturato. E’ il fantastico mondo del franchising, un settore che dalla crisi del 2008 ha visto crescere i fatturati del 5 per cento e il numero di punti vendita di oltre il 12 per cento, mentre il resto del commercio al dettaglio precipitava a picco. Nell’immaginario di chi vi aderisce c’è la possibilità di coniugare la sicurezza di avere alle spalle un marchio prestigioso con i propri sogni imprenditoriali. Sogni che per molti però si sono trasformati in un incubo.

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