Immagine presa da Repubblica |
Ricorre oggi l'anniversario dell'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso a Palermo la sera del 3 settembre 1982 assieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro e al carabiniere di scorta Domenico Russo.
Era stato mandato a Palermo da pochi mesi, cento giorni, nemmeno, dopo l'assassinio del segretario regionale del PCI, Pio La Torre.
A Palermo, in Sicilia e nel sud, nell'arco di pochi anni, erano stati ammazzati il presidente della regione Mattarella, il procuratore capo Costa, il nuovo capo dell'ufficio istruzione Terranova, il segretario della DC Reina, il segretario del PCI La Torre. Oltre a carabinieri, poliziotti e giornalisti (e non solo) come Peppino Impastato.
Eppure per lo stato, quello Stato dentro cui si era ben inserito il virus della Loggia P2, la mafia non era una emergenza, come il terrorismo rosso (nemmeno quello nero, visto che a Roma il giudice Amato era stato lasciato solo, ma questa è un'altra storia).
Nel 1981, la scoperta delle liste degli affiliati alla P2 fa cadere il governo Forlani, al suo posto arriva il primo presidente non DC, Giovanni Spadolini.
All'interno arriva un ministro che sembra voler cambiare le cose, Virginio Rognoni.
E' lui a mandare a Palermo l'ufficiale dei carabinieri, che aveva combattuto le BR, il generale Dalla Chiesa.
Piemontese, dopo l'8 settembre aveva scelto di lottare dalla parte giusta, contro i nazifascisti.
Alla fine della guerra era stato mandato a Corleone, dove nel 1948 aveva dovuto indagare sull'omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, che dava fastidio ai latifondisti con le sue battaglie. Erano gli anni in cui si saldava il rapporto tra mafia e latifondismo agrario.
A differenza di tanti colleghi, Dalla Chiesa era impermeabile alle lusinghe del potere e ai richiami della massoneria deviata.
Lo racconta bene il saggio di Giuliano Turone Italia Occulta, facendone un parallelo con un altro generale dell'arma, Giovanbattista Palumbo.
Ecco, quest'ultimo dopo l'8 settembre scelse il fascismo, per poi costruirsi un passato da resistente a fine guerra (un po' come Licio Gelli).
La sua biografia è un sordido archetipo italico. Fascista convinto, ammiratore del nazismo, cavaliere dell’Ordine dell’Aquila tedesca senza spade, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aderisce alla Repubblica di Salò e raccomanda ai suoi uomini di fare altrettanto. Poi, quando il vento cambia, si costruisce un inesistente passato partigiano, diventa persino Governatore militare alleato della provincia di Cremona. Il suo nome, nei quadri di avanzamento, galoppa. Nel 1964, per non smentire troppo il suo vero passato, è al fianco del generale De Lorenzo nell’organizzazione del piano Solo.
Il comando della divisione Pastrengo, in via Marcora, a Milano, nei dintorni di piazza della Repubblica, è in quegli anni un luogo sinistro. Tutti gli uomini dello stato maggiore del generale sono iscritti alla P2. Un vero e proprio gruppo di un potere malsano, riferisce il colonnello Nicolò Bozzo, una persona retta, fedele alla Repubblica.
Il libro racconta anche un aspetto poco noto del generale Dalla Chiesa: quando nel 1976 fu sciolto il suo Nucleo Antiterrorismo e fu lasciato senza incarichi, a disposizione.
Isolato, fu avvicinato da un alto ufficiale dell'Arma che gli chiese di iscriversi alla Loggia P2: un boccone avvelenato, uno strumento con cui Gelli e i suoi sodali avrebbero potuto ricattarlo (la domanda non fu mai accettata e rimase nel cassetto di Gelli per anni)
La domanda di iscrizione di Dalla Chiesa datata 28 ottobre 1976 verrà ritrovata più di quattro anni dopo nel corso della perquisizione eseguita nell’ufficio di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi.
In Sicilia, col ruolo di prefetto, avrebbe dovuto coordinare la lotta alla mafia nella regione, con quei super poteri che non gli arriveranno mai.
Solo dopo la sua morte fu approvata la legge Rognoni La Torre, sul sequestro dei beni ai mafiosi: in Italia servono eroi, serve il sangue delle vittime, per far approvare delle leggi di contrasto alle criminalità.
Celebre, e attuale ancora oggi, la sua ultima intervista al giornalista Bocca
Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliano, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzotto e dei Carnevale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.
"Ma si, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati".
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