Altro anniversario, altro nodo al fazzoletto, per tener viva la memoria di quanto successo in Italia la notte del 9 ottobre 1963, la tragedia del Vajont: la più grave tragedia civile, duemila persone uccise dall’onda di pietra e fango che si abbattè sulla cittadina di Longarone, in provincia di Belluno, a seguita di una frana caduta sull’invaso della diga del Vajont.
Perché questa necessità di tener vivo il ricordo? Non solo per rispetto ai morti, ma perché come tante altre tragedie avvenute nel nostro paese, anche questa ha qualcosa da raccontarci per i nostri tempi.
Perché quella del Vajont è stata una tragedia annunciata, non il frutto di un capriccio di madre natura come scrissero molti giornalisti (anche firme importanti del giornalismo italiano come Bocca e Buzzati): “niente più nulla da dire o da fare”, scriveva Bocca. “Un sasso è caduto in un bicchiere”, la metafora drammaticamente suggestiva di Buzzati.
No, non è vero, scriveva Tina Merlin sulle colonne de l’Unità dove, negli anni precedenti aveva raccontato dello scontro della comunità di Erto e Casso, due paesini a ridosso dell’impianto della Sade (l’azienda idroelettrica privata che costruì l’impianto tra il 1957 e il 1960).
“Un'enorme massa di 50 ml di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto..”
Non è
vero perché i segnali di avvertimento della frana, i 260 ml di metri
cubi di fango che dal monte Toc sono caduti nel lago artificiale,
c’erano tutti: era già avvenuta una frana nel 1960, durante le
prove di invaso dell’impianto furono avvertite delle scosse di
terremoto (scosse che la Sade ad un certo punto nemmeno comunicò al
Genio Civile e al ministero).
Eppure la stampa per
anni sposò la tesi dell’incidente, “Sciacalli” scriveva
Montanelli sul Corriere riferendosi a quanti osavano mettere in
dubbio questa tesi.
Ancora oggi, se non ci fosse stato il
grande lavoro di Marco Paolini e il suo teatro della memoria, a sua
volta ispirato al libro della Merlin “Sulla pelle viva”, del
Vajont, delle duemila vittima (di cui solo mille furono recuperate),
non se ne parlerebbe più.
Non se ne parlerebbe perché questa storia di mette di fronte ad un giornalismo troppo prono nei confronti del potere, che sia politico o economico.
La Sade, l’azienda
idroelettrica che, come dice Paolini, era la Fiat del settore, era
anche proprietaria del Gazzettino, il quotidiano locale, che negli
anni non si occupò mai delle vicende della diga.
Questa
vicenda ci mostra anche il volto di una parte del capitalismo
italiano: padrone della Sade era, il conte Volpi di Misurata, conte
per meriti di guerra e premiato ministro da Mussolini nel 1923. Da
ministro varò una legge per finanziare a fondo perduto gli impianti
idroelettrici. Un benefattore dunque. Dopo l’otto settembre, nei
mesi della disfatta del fascismo, riuscì a farsi approvare il
progetto di costruzione di una grande diga lungo la valle del
torrente Vajont, che sarebbe stata la banca dell’acqua per gli
altri impianti.
E da ministro fascista riuscì a riciclarsi in
sincero democratico antifascista, in modo da ottenere dallo Stato
italiano il finanziamento a metà dei lavori.
Come è
potuta avvenire questa tragedia, non per un caso della natura, ma
perché un’azienda privata ha voluto sfidare la natura stessa,
costruendo una diga dove non si doveva, a ridosso del fronte di una
frana antica, rimasta sospesa sul monte Toc? C’è stato
l’atteggiamento dei giornali, certo. Ma c’è anche il rapporto
con lo Stato italiano: l’associazione dei comuni di Erto e Casso si
rivolse al presidente della provincia Daborso, per chiedere conto dei
comportamenti della Sade, dei problemi segnalati sulla diga che erano
sotto gli occhi di tutti (le frane, la montagna che si spostava, le
scosse). Daborso non riuscì ad ottenere nulla, dal Genio Civile e
nemmeno a Roma: parlò di “uno stato nello stato”, un’azienda
privata che poteva permettersi di fare le veci delle istituzioni
italiane. Mettendo anche in pericolo la vita delle persone.
Perché quelle
persone, con la loro lotta contro l’impianto erano solo “contadin gnoranti” (faccio mie ancora una volta le parole di Paolini), che
si ostinavano a voler bloccare il progresso, la crescita di questo
paese che meno di vent’anni prima era uscito dalla guerra con le
pezze al sedere.
Vedete quanto è ancora attuale questa tragedia? Ancora, nel 2022, stiamo a parlare di messa in sicurezza del paese, operazione che non verrà portata avanti nemmeno coi soldi del PNRR, perché manca il personale, i progetti e anche la volontà politica.
Ancora nel 2022
siamo ossessionati del mito delle grandi opere, volano della crescita
economica del paese: il ponte sullo stretto, le grandi autostrade,
l’alta velocità (in zone dove già c’è il servizio).
Ancora
una volta si sente ripetere quella parola, sciacalli, dopo ogni
tragedia: l’alluvione nelle Marche, il crollo della funivia sul
Mottarone (giusto per citare due episodi).
Così, saremo sempre condannati a piangere sulle nostre tragedie, “povera Longarone, povera Longarone..”
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