14 ottobre 2022

In forma di essere umano, di Riccardo Gazzaniga

 

Prologo
Quando cade la prima tessera del domino che trascinerà con sé tutte le altre? A volte è difficile capirlo, ma non in questo libro: la nostra prima tessera cade in una sala da ballo alla periferia di Buenos Aires, una sera del 1956.

E’ qui che il Dio del caso fa incrociare le vite di due ragazzi, entrambi figli di due immigrati tedeschi.

C'è un uomo, in una sera di primavera del marzo 1960, seduto su un bus che sta tornando a casa a Bancalori, un sobborgo della periferia di Buenos Aires, un posto sperduto dove non c’è nemmeno l’acqua corrente e l’elettricità. Quell’uomo ha appena finito il suo turno di lavoro come capo del reparto saldatura nella fabbrica della Mercedes Benz, dove è apprezzata la sua precisione nel fare le cose.

Questa persona ha solo cinquantaquattro anni ma, dal volto, dalla postura, ne dimostra molti di più: pochi capelli bianchi in testa, gli occhiali, un continuo muoversi sul sedile come di chi soffre per il mal di schiena, dopo un’intera giornata passata in piedi.

Quell'uomo si guarda attorno, sul bus verso casa: guarda le persone che salgono e scendono dal bus e guarda anche le persone che incrocia per strada, cercando di capire se queste lo stanno guardando.

Perché quell'uomo non è un operaio come tanti: quell'uomo che oggi si fa chiamare Ricardo Klement, dicendo di essere un emigrato altoatesino venuto in Argentina per lavorare in una vita passata aveva un altro nome, un nome che fa paura, che suscita vendetta in quanti lo hanno conosciuto o sentito nominare in quella vita.

Quell'uomo si chiama Adolf Otto Eichmann e, col grado di tenente colonnello nelle SS, aveva gestito l'ufficio affari ebraici nella Gestapo, all’interno del servizio di sicurezza del Reich, alle dipendenze del generale Muller.

Ecco perché questa persona, Adolf Eichmann, si muove con circospezione, cercando di raccontare poco in giro del suo passato, cercando di nascondere le sue origini, continuando a guardarsi le spalle, stando attento quando qualcuno lo guarda un po' troppo a lungo.
Perché dopo che il mondo ha scoperto l'orrore della Shoà, il massacro di sei milioni di ebrei (e zingari, e omosessuali e tutte le vite indegna di essere vissute) raccontato dai testimoni e dai gerarchi nazisti al processo di Norimberga, quell'uomo è il ricercato numero uno dal Mossad.

Teoricamente ci sarebbe su di lui anche un mandato di cattura da parte del procuratore tedesco Fritz Bauer: ma la Germania dell'Ovest, specie ora, negli anni sessanta, in piena guerra fredda dove il nemico sta ad est, non ha mai preso sul serio il tema della cattura degli ex nazisti.

C'è un altro uomo che in quei giorni della primavera, si muove nell’ombra delle stradine piene di buca del quartiere di Bancalori: si fa chiamare Bobby Rodan ma il suo vero nome è Zvi Aharoni. E' un cittadino della neonata repubblica di Israele, sebbene sia nato in Germania negli anni venti da dove è fuggito quando ancora l’espatrio delle persone di religione ebraica fosse possibile (anche a costo di enormi sacrifici). Cosa ancora più importante, Bobby o Zvi, è un agente dello Shin Bet (dopo un passato come capitano dell’esercito) mandato dal Mossad in Argentina per verificare una pista che porterebbe alla cattura di Eichmann.

Troppe volte il Mossad ha fallito con Eichmann: a Linz, in Austria, città Natale della SS, gli agenti se lo erano fatti scappare per una loro idiozia. La moglie di Eichmann era stata così brava da seminare gli agenti che la seguivano, prima di partire per l’Argentina, dove aveva raggiunto il marito, mantenendo il nome. Vera Eichmann.

Questa volta il giudice tedesco Fritz Bauer ha ricevuto una soffiata molto interessante: un emigrato tedesco, ora in Germania, aveva incontrato a casa sua un ragazzo che si faceva chiamare Eichmann di cognome, come il padre. Un nome che lo aveva colpito, perché Lothar Hermann, aveva perso la vista dopo un pestaggio subito in Germania da giovane tanti anni prima. Quando essere ebreo (e poi omosessuale, zingaro..) era sufficiente per non essere ritenuto degno di essere considerato un essere umano. L’indirizzo della famiglia Eichmann arriva così al procuratore Bauer che, non fidandosi della sua polizia, lo va a portare al Mossad.

«E dimmi, Klaus, qual era il cognome di tuo padre?». «Eichmann. Mio padre si chiama Eichmann.»

Questa la genesi della missione di Bobby: volare a Buenos Aires, trovare il mondo di arrivare a questa periferia dove spesso le strade non hanno nome, e scoprire se veramente il capo della sezione Affari Ebraici, lo zar degli ebrei, l'uomo che ha gestito tutta la pianificazione della "soluzione finale" è veramente rifugiato in questo angolo del mondo.

Il racconto alterna perfettamente il punto di vista della preda e del cacciatore: in prima persona sentiamo parlare Eichmann e ne leggiamo i pensieri. Le sue paure, anche, ma in fondo la sua rassegnazione nel fatto che prima o poi qualcuno potrebbe bussare alla porta e arrestarlo. Ma lui sa di avere la coscienza a posto: perché Eichmann ha solo obbedito agli ordini, non poteva certo opporsi ai comandi che gli arrivavano da Heydrich (il capo del servizio sicurezza) o dal generale Muller, suo superiore alla Gestapo. In fondo, pensa ancora oggi l’ex SS, lui è uno di quelli che si è trovato in mezzo ad un meccanismo più grande e che non poteva fermare. Lui è uno dei pochi, nelle SS, che ha cercato di stabilire un rapporto con gli ebrei.
Nel racconto, Eichmann, oggi solo un operaio, dopo aver avuto quel ruolo cruciale nel Reich, senza rimpianti, ripercorre tutta la sua carriera, che annota anche su un taccuino: il lavoro come rappresentante di un’azienda di carburanti, l’ingresso nelle SS, l’invidia che provava per la borghesia di Linz da cui era escluso (per la sua bassa estrazione sociale) e il passaggio poi all’ufficio che si occupava degli affari ebraici.

«Che significa, sergente?» «Che non possiamo risolvere il problema ebraico qui da noi. Ha ragione Heydrich: il problema va risolto fuori dalla Germania. Emigrazione forzata, è questa la soluzione. E il sionismo ci aiuterà.»

Era gli anni in cui la politica del Reich era ancora far andar via la popolazione ebraica, dopo averli taglieggiati per bene (perché i nazisti in fondo erano anche ladri), magari proprio in Palestina, nel protettorato inglese: “non immaginavo che, per tutta la mia carriera nelle SS, mi sarei occupato di seguire la questione ebraica e cercare diverse soluzioni per risolverla. Fino all’ultima, la soluzione davvero finale.”
Ma c’era un problema: la burocrazia tedesca, che faceva perdere tanto tempo agli ebrei, rovinando i piani di Eichmann. Ed ecco qui la sua idea: creare un solo ufficio dove gestire tutte le pratiche, come fossimo su un nastro trasportatore in fabbrica. O come un unico binario

Gli uffici dovevano essere come un binario, gli impiegati spalla a spalla come minatori, le penne come picconi.

Il tutto con l’aiuto di alcuni notabili ebrei che avrebbero accelerato il processo di emigrazione

Era perfino andato in Palestina, dove gli avevano negato il visto ed era potuto stare solo un giorno, per questo suo lavoro sull’emigrazione. Aveva perfino imparato qualche parola di Yiddish.
Da qui è partita la carriera nelle SS, dal basso, da questa idea in Austria, fino ad arrivare a Berlino, per risolvere il problema ebraico, in modo finale.

Non ho mai ucciso un ebreo. Quante volte te lo devo ripetere ancora? Ho fatto quello che dovevo, li ho mandati dove dovevano andare. Ho eseguito gli ordini del Reich.

L’ultimo ordine, quello della soluzione fisica degli ebrei nel territorio del Reich, non gli arrivò per forma scritta: sulle carte dove si pianifica la soluzione finale compare la sua firma, in inchiostro viola. Come anche sulle carte di Wansee, dove Heydrich assieme ad altri generali delle SS e gerarchi pianificarono lo sterminio in forma industriale di sei milioni di persone, anche lì compare il suo nome. Sulla pianificazione dei treni per i campi di concentramento, nei territori dell’est.
Nessun rimorso, niente di cui pentirsi: nemmeno di fronte al ricordo di quella donna col bambino in braccio sul bordo della fossa dove stava per essere “liquidata” da un plotone di Einsatzkommando.

Nessun rimorso nemmeno per quegli ebrei mandati sui treni per il trattamento speciale: lui, Eichmann, non ha mai fatto favoritismi, non ha mai cercato di arricchirsi. Per lui ogni ebreo era uguale, doveva essere ucciso, come gli dicevano gli ordini. E chi sono io per discutere gli ordini?
Ordini che Eichmann ha rispettato fino alla fine, quando poi ha cercato di salvarsi e basta, fingendosi anche morto. Per poi scappare in Italia, a Genova, lungo la rat line, con l’aiuto della Croce Rossa e di alcuni esponenti del clero genovese.

Ero Hermann Aronheim, nella mia adolescenza in Germania. E sono diventato Zvi Aharoni, una volta fuggito in Palestina. Ma ha davvero un nome, poi, un agente segreto?

C’è poi l’altro uomo, anche lui con un nome che non gli appartiene: Zvi, l’agente dello Shin Bet che il capo del Mossad ha mandato in Argentina a verificare la rivelazione di Bauer: anche lui è un ex militare, cresciuto in Europa, tra gli ebrei fortunati a scappare dal vecchio continente in tempo, scampato alla cattura dei nazisti per un caso, per quel Dio del caso che ha deciso la sua vita e la vita di tanti altri ebrei. Chi morto, passato per un camino e chi vivo, con addosso il peso dei morti e la responsabilità ora di dare giustizia ai morti.

Come un predatore silenzioso, Zvi si avvicina alla casa di Eichmann, con un lavoro certosino di ricerca: si mette ad osservarlo, mentre torna dal lavoro. Ad osservare la vita della sua famiglia, la moglie e i tre figli, l’ultimo solo un bambino.

Sono qui per l’uomo dei treni, il marito di Vera, il signore calvo che veste elegante di domenica e gioca con il suo figlio piccolo, ma stipava bambini in vagoni chiusi

Cosa è stato, Eichmann, lo sapevano tutti. Ma cosa pensa adesso, l’ex tenente colonnello, ora solo un impiegato che torna a casa stanco? Si sarà pentito? Quelle morti gli torneranno in mente quando la sera si mette a letto accanto alla moglie? Quando fa il saluto ai figli prima di metterli a letto, si ricorderà dei bambini che ha messo su un treno, perché gli era stato ordinato, sapendo che sarebbero tutti morti?

Zvi è qui per l’uomo dei treni, ma si trova a riflettere alle tante persone che si sono ritrovate dentro la macchina dello sterminio, come il medico ebreo che lavorò a fianco di Mengele ad Auschwitz. Riuscì a strappare condizioni migliori per lui e la famiglia, ebbe un trattamento di favore ma allo stesso tempo riuscì anche ad aiutare tanti detenuti nel campo della morte, la “latrina del mondo”.

Fu un eroe? Fu un servo? O fu solo un uomo? Dove è tracciato il confine tra orrore e speranza, connivenza e lotta disperata, nell’anus mundi?

La storia della cattura di Eichmann è nota: il prigioniero fu preso, vivo, e portato in Israele affinché fosse processato, davanti a tutto il mondo. Lo zar degli ebrei doveva rispondere delle sue colpe, proprio nel paese dei sopravvissuti alla Shoà cui lui aveva contribuito.

Il romanzo di Riccardo Gazzaniga ha il pregio di portare il lettore dentro la STORIA: seppur in modo romanzato, i personaggi sono persone realmente esistite, gli episodi della vita di Eichmann non sono inventati, come anche le fucilazioni di massa, le persone gasate nei camion, l’olezzo dei corpi bruciati.

Guardo un’ultima volta la forma di essere umano dentro la gabbia, poi esco da quest’aula dove non tornerò mai più e cammino dritto fino all’uscita.

Ma il pregio più grande è portarci dentro la mente di quest’uomo, anzi, di questa forma di essere umano, questo padre di famiglia che aveva cresciuto i figli nel rispetto delle tradizione in modo rigido. Eichmann, l’emblema della banalità del male come ha scritto Hannah Arendt, non è un mostro, non è un vampiro. Non si è reso conto delle azioni criminali, si è nascosto dietro gli ordini. Mai un dubbio, mai un ripensamento, mai un rimorso (a parte quel ragazzo ebreo ucciso nel capanno a Budapest). Nemmeno quando si trovò davanti ad un giudice un involucro vuoto che il Reich ha potuto riempire con tutto quello che voleva”. E questo è ancora peggio: meglio sarebbe stato se si fosse mostrato col suo volto da vampiro, perché il suo male sarebbe stato più comprensibile

È solo un uomo. E questo significa una cosa, per me.»
«Cosa?»
«Che in un’altra parte del mondo, in un altro tempo… succederà ancora, Malkin. Non servono vampiri. Bastano gli uomini, a fare cose mostruose.»

Un libro da leggere, per la STORIA che racconta, per come la racconta. Perché la racconta in un momento come questo, dove i nazionalismi di destra stanno tornando alla ribalta e le nostre società si stanno dimostrando carenti di quegli anticorpi necessari per contrastare i fascismi e i nazismi.

La scheda del libro sul sito di Rizzoli
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

Nessun commento: