Non era lui colpevole, ma era la donna che aveva provocato.
L'avvocato in questione si trova a difendere un giovane, non nuovo ad atti di violenza carnale sulle donne. Nel "prologo" all'episodio (in cui l'autore racconta il particolare clima sociale e storico che ha portato alla "stesura" del grammelot) Fo sostiene che nel medioevo e fino alla prima parte della età moderna (si fa esplicito riferimento alla "defensa" dell'età elisabettiana) esistesse una legge (detta appunto "defensa" o difesa) per cui il violentatore, scoperto in flagrante da familiari della vittima, potesse cavarsi d'impiccio spargendo velocemente delle monete ai piedi della vittima a mo' di risarcimento e al contempo recitando una formula rituale che lo rendeva intoccabile per i familiari adirati. In questo episodio il giovane però si trova in una situazione decisamente più scomoda, avendo violentato una ragazza appartenente a una classe sociale più elevata della sua, per la quale risarcimenti e formule valgono poco. L'avvocato allora dimostrerà la totale innocenza dell'imputato, sostenendo l'esatto opposto della verità, cioè che è stata la giovane a dimostrarsi provocante e che l'accusa di stupro è inconsistente in quanto lei era assolutamente consenziente, al contempo il violentatore è rappresentato come un giovane timido e studioso, indotto al "peccato" proprio dagli atteggiamenti della ragazza. Fo sostiene che questo particolare episodio è stato ispirato (o comunque è molto vicino) a un pezzo teatrale di Jill Vicente, in cui però il violentatore è un curato e la vittima una giovane contadina, anch'essa colpevole di aver provocato il religioso per via dei movimenti che faceva nel chinarsi al prendere il grano. Anche nel testo di Vicente il curato finisce per essere dichiarato innocente.Cose che si pensava fossero relegate al passato.
Poi arriva un prete a Lerici, che ci fa fare un salto all'indietro.
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