05 dicembre 2012

Io so (e lo sapete anche voi)

Possiamo anche non parlarne delle mafie, perché da quasi fastidio, perché non porta voti, perché si rischia di dover affrontare il problema dei rapporti mafia e politica.
Ma il problema rimane. 
E non può essere rimosso come fa Il giornale, con la sottoscrizione di firme contro Ingroia, reo di aver scritto e indagato dei rapporti mafia politica e di Berlusconi e Dell'Utri.
Perché la sentenza della Cassazione parla chiaro.

Io so, diceva Pasolini. E ora, se vi interessa, sapete anche voi. Sappiate che, in ogni caso, le mafie si interesseranno a noi. Nell'economia, nei consigli regionali, nelle elezioni nazionali.

Il primo capitolo del libro di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco "Io so", Chiarelettere editore.


Al di là delle prove acquisite.
   A vent’anni dalle stragi, si avverte l’esigenza di un appro-fondimento su quanto è accaduto in Italia dal 1992 a oggi. È necessario un ripensamento critico che non debbaesclusivamente tener conto delle risultanze processuali.L’azione della giustizia, infatti, in questo ventennio ha manifestato tutti i suoi limiti, che consistono nell’esi-genza prevista dal codice di trovare delle prove concrete,in ordine a reati specifici e a responsabili individuati con certezza. Ma non sempre queste prove e questi responsabili possono essere individuati, specialmente nell’ambito di indagini su episodi criminali che si iscrivono in una più ampia «strategia della tensione» fortemente orientata da interessi politici e da registi occulti, sulla quale sin dai primi momenti sono calate nebbie e cortine fumogene finalizzate a depistare l’accertamento della verità. Le indagini su Capaci e su via D’Amelio, infatti, nonostante il massimo impegno profuso negli ultimi tre anni dal procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e dal suo pool antimafia, ci offrono oggi un quadro definitivo del livello della manovalanza delle due stragi, ma non ci svelano ancora i nomi e i volti dei cosiddetti mandanti a volto coperto, né quelli dei complici provenienti da ambienti para istituzionali, che con tutta probabilità hanno fornito assistenza e coperture nella preparazione e nella realizzazione degli attentati. Oggi è pertanto impossibile ripensare agli ultimi vent’anni della storia italiana costringendo l’analisi all’interno della cornice giudiziaria e basandoci esclusivamente sulle risultanze investigative. La storia, per fortuna, non ha gli stessi vincoli della giustizia: il mestiere di storico e quello di giudice sono irriducibili e non potranno mai essere sovrapponibili. Ci piace sempre citare Carlo Ginzburg, che ha rilevato come«uno storico ha il diritto di scorgere un problema, là dove un giudice deciderebbe il non luogo a procedere». Per questo rivendichiamo – come giornalisti e come cittadini – il diritto di interrogarci e di riflettere, senza l’onere della prova, sul ventennio berlusconiano e sulle sue origini, anche tenendo conto delle ipotesi investigative che si sono concluse con un’archiviazione, non per inconsistenza dell’analisi(che risulta ancora oggi logicamente e cronologicamente attendibile) ma per l’assenza di prove certe in ordine a precisi responsabili. Come diceva Pier Paolo Pasolini, è possibile sapere e capire anche senza avere le prove. La nostra riflessione oggi ci porta a ritenere che le stragidel ’92 e le bombe del ’93 hanno portato a destabilizzare il quadro istituzionale della Prima Repubblica e ad azzerare la vecchia classe politica creando un vuoto, colmato«in progress» dal nuovo soggetto politico, Forza Italia,scaturito fin dal ’92 da un’intuizione di Marcello Dell’Utri. Un movimento populista e demagogico che raccoglie e sviluppa molti dei criteri ispiratori del progetto eversivo di Licio Gelli, capo della P2, che già dal ’76 sognava l’affermazione di un partito de ideologizzato, fondato su club territoriali, in grado di manipolare gli umori dell’elettorato attraverso il controllo esteso dei mezzi di informazione.
 
   Il capo del nuovo partito, che nel ’94 si afferma conun successo elettorale senza precedenti, è l’imprenditoreSilvio Berlusconi, tessera P2 n. 1816, che tra i suoi piùfidati collaboratori arruolerà alcuni «fratelli» della LoggiaPropaganda sciolta nell’82 e ritenuta responsabile di volersovvertire l’ordine costituzionale dello Stato. Non a casosull’ingente e rapidissima fortuna economica del nuovo leader pesa come un macigno il sospetto (mai dimostrato) di aver riciclato i fiabeschi capitali mafiosi del narcotraffico.Non a caso il nuovo partito, Forza Italia, si afferma proprio in virtù di una straordinaria campagna pubblicitaria che utilizza l’impero mediatico (tv e giornali) di Berlusconi,reclutando le star più popolari del piccolo schermo e ungran numero di direttori e editorialisti dei quotidiani e deisettimanali della «famiglia», nella propaganda di regimeche per vent’anni martella senza sosta l’opinione pubblicaitaliana, secondo la lezione del Gran Maestro Gelli. E l’agenda politica dei governi di Berlusconi, in particolarenell’ultimo decennio, è stata chiaramente improntata aun’azione di demolizione costante della Carta costituzionale,con un’aspirazione evidente a soffocare i diritti garantiti ea sovvertire l’equilibrio tra i poteri (esecutivo, giudiziarioe legislativo) su cui si fonda la democrazia. L’attacco, conabbondante ricorso all’insulto, all’autonomia dei magistrati,alle funzioni del parlamento, alla libertà di stampa, è stato illeitmotiv del discorso berlusconiano in tutto l’arco temporaledel suo premierato. È per questo che oggi ci sentiamo più che mai legittimatia chiederci quanto profetica fosse l’ipotesi investigativaformulata negli anni passati dalla Procura di Palermonell’inchiesta denominata «Sistemi criminali» (conclusacon un’archiviazione), nel corso della quale si era cercato diindividuare in una lobby politico-finanziaria non mafiosa, facente capo a Licio Gelli e costituita da massoneria,finanza illegale, destra eversiva e frange dei servizi segreti,quell’intelligenza collettiva che avrebbe orientato e affiancato Cosa nostra nella progettazione e nell’esecuzione delle stragi.Nell’inchiesta, oltre a Gelli, erano indagati tra gli altri gliex missini Stefano Menicacci e Stefano Delle Chiaie, l’exordinovista Rosario Pio Cattafi, il ragioniere delle coscheGiuseppe Mandalari e i boss Totò Riina, Giuseppe e FilippoGraviano, tutti accusati di aver «promosso, costituito,organizzato, diretto e/o partecipato a un’associazione [...]avente a oggetto il compimento di atti di violenza con finidi eversione dell’ordine costituzionale».1 Questo perché laconvinzione che il nuovo indirizzo stragista perseguisse, inrealtà, obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusividi Cosa nostra appare ormai acquisita e fuori discussione. Non c’è dubbio, infatti, che l’«atipicità» degli attentati(soprattutto di quelli del ’93) rispetto a quelli tradizionalidi Cosa nostra potesse risultare funzionale non solo allefinalità «terroristiche» della mafia, ma anche agli scopi dientità criminali diverse, interessate al conseguimento diun obiettivo di più ampia portata: ovvero «l’azzeramentodel quadro politico-istituzionale nazionale» e la «totaledestabilizzazione del paese per agevolare la realizzazionedi una forma di golpe che mutasse radicalmente il quadropolitico-istituzionale in modo più idoneo alla realizzazionedegli interessi illeciti mafiosi».2 In poche parole, «la presa delpotere da parte del cosiddetto sistema criminale»,3 anche acosto di sacrificare l’unità d’Italia. Oggi siamo più che mai
   
    1 Richiesta di archiviazione dell’indagine «Sistemi criminali» (LicioGelli + 13), Palermo, 2001.
    2 Ibidem.
    3 Ibidem.
   
    autorizzati a chiederci se in queste parole finite in archivio,e private per sempre di una verifica dibattimentale, c’è lasconcertante realtà di quanto è accaduto nel nostro paese. Cos’è veramente successo in Italia? Le stragi hannospalancato le porte a un golpe bianco? Il ventennioberlusconiano, che ne è stato l’esito politico, è la proiezioneistituzionale di un progetto criminale? La classe politica che ciha governato, dalla nascita della Seconda Repubblica in poi,conserva tuttora al suo interno alcuni ingranaggi perversi delsistema criminale? È in questa chiave – ora che la parabola delberlusconismo sembra avviata al tramonto – che dobbiamoleggere la deriva democratica prodotta dalle riforme legislativeproposte (e fortunatamente attuate solo in parte) dai governidel Cavaliere, con qualche colpo di coda parlamentare sotto ilgoverno Monti? E perché la sinistra e le forze di opposizionenon sono riuscite a porre un argine a questo assalto di stampopiduista puntato al cuore della democrazia? Equivalente italiana del gollismo francese o del peronismoargentino, la leadership berlusconiana, dal ’94 a oggi, haespresso una classe dirigente incline alla corruzione, volgare,apertamente razzista. Gli affari illeciti delle «cricche» e lacaccia all’extracomunitario, le «ronde» e il bunga bunga,l’informazione ridotta a dossieraggio e lo spionaggio aziendale,il lifting e il trapianto dei capelli, la patente di «eroismo»ai boss omertosi e quella di «diversità antropologica» ai pmantimafia, il presidente operaio e il milione di posti di lavoro,il partito dell’amore e lo Stato-azienda, la compravendita dideputati in parlamento e la cocaina nei ministeri, il contrattocon gli italiani e le barzellette, l’esibizionismo sessuale e laprostituzione intellettuale e politica (oltre che fisica), sono iframmenti di un’incultura di massa che, complice la sinistra,ha trasformato il paese in una squallida caricatura dell’Italiettafascista, zimbello del mondo intero. Come si spiega, però, che la cultura ufficiale, la letteratura e il cinema – trannealcune sparute sacche di resistenza – in questo ventenniosciagurato abbiano finito per scegliere «l’evasione», fingendodi non accorgersi della degenerazione democratica? Siamodavanti a una compiuta mafiosizzazione culturale dello Stato? Sono domande dolorose e spietate. Ma sono domandeche oggi, a vent’anni dal sacrificio di Giovanni Falcone ePaolo Borsellino, e di tutte le altre vittime delle stragi del’92 e del ’93, abbiamo il dovere di farci. Anche per capiredove stiamo andando. Dopo vent’anni di interrogativi senza risposta, di depistaggie di verità parziali, oggi il tramonto del berlusconismocoincide con la parabola discendente del boss BernardoProvenzano, che è stato – secondo la ricostruzione della Procura di Palermo – l’alter ego occulto del potere, nell’ultimoventennio caratterizzato dal patto di convivenza tra Statoe Cosa nostra. La vicenda ancora tutta da decifrare delmediatore misterioso che sostiene di aver offerto alla Dna lacattura di Provenzano, tra il 2003 e il 2005, in cambio di unataglia di due milioni di euro, è la degna conclusione di unalunga stagione attraversata dal dialogo sotterraneo tra i bosse le istituzioni. Il mediatore, tale Vittorio Crescentini (chedice di aver collaborato con la Cia) è un commercialista chesi accredita come persona di fiducia dei finanzieri di Rieti: neitre incontri con i magistrati di via Giulia, rivela che «Binnuè stanco», che «vuole andare in pensione» e che è disposto alasciarsi catturare, a condizione che l’arresto risulti come ilfrutto di un «tradimento». Il commercialista però non vienecreduto e il suo «patto di Giuda», secondo la ricostruzioneufficiale, rimane solo una proposta indecente, per loscetticismo manifesto di due capi della Procura nazionaleantimafia: prima Pier Luigi Vigna e poi Piero Grasso. Ma lafiducia accordata a quella «trattativa» abortita, da altri due pm della Dna, Vincenzo Macrì e Alberto Cisterna, riapre oggimolti interrogativi. In primo luogo, perché Provenzano vieneeffettivamente catturato cinque mesi dopo l’ultimo incontrotra Crescentini e Grasso, con una sorprendente coincidenzatemporale che fa dire al mediatore, informato dell’arresto altelefono da un finanziere: «L’avete venduto». E poi perchéCisterna, l’ex braccio destro di Grasso, indagato (e archiviato)a Reggio Calabria per corruzione in atti giudiziari, a un certopunto (il 17 giugno 2011) si ritrova interrogato proprio daGiuseppe Pignatone, il magistrato che l’11 aprile 2006, dallaProcura di Palermo, coordinò l’arresto del boss corleonese aMontagna dei Cavalli. Risultato? Tanti riferimenti allusivie promesse (o minacce) di vuotare il sacco sui retroscenadi un blitz raccontato ai media di tutto il mondo come unsuccesso epocale dello Stato. Uno sceneggiatore di questivent’anni di berlusconismo italiano non poteva scegliereun finale migliore – e ovviamente del tutto aperto – dellatrattativa tra le istituzioni e Cosa nostra per raccontare laSeconda Repubblica, inaugurata, come dice Antonio Ingroia,«sul sangue dei servitori dello Stato». E arrivata ormai alcapolinea, con Provenzano che tenta (o simula) in una celladi Parma un maldestro suicidio. Non sappiamo cosa ci aspetta e quale sarà l’epilogo dellaSeconda Repubblica e del ventennio berlusconiano. Latransizione, infatti, «potrebbe essere infinita o finire con lascomparsa dello Stato Italia, frantumato in più staterelli osussunto in uno Stato europeo. Potrebbe concludersi in unregime non più democratico». 4 Potrebbe. Se noi abdichiamoal nostro diritto-dovere di vigilanza democratica.
   
    4 Lucio Caracciolo, L’Italia alla ricerca di se stessa, in Giovanni Sab-batucci, Vittorio Vidotto, Storia d’Italia, vol. VI, Laterza, Roma-Bari 1999.
   
     Per questo è importante rileggere e capire i fatti accaduti.Per questo abbiamo chiesto a un magistrato come Ingroia,fino a pochi giorni fa procuratore aggiunto di Palermo eprotagonista negli ultimi vent’anni dell’indagine sui «Sistemicriminali», su Contrada, sulle holding di Berlusconi, suDell’Utri, sul delitto Rostagno, sulla scomparsa di MauroDe Mauro, e sulla trattativa tra Stato e mafia, di offrirci lasua analisi sul ventennio trascorso. Ingroia è un uomo chesa. Anzi, è l’uomo che sa più di tutti. È l’allievo di Falconee Borsellino, ed è un testimone privilegiato dei fatti e deimisfatti del ventennio berlusconiano. È il magistrato che,da quella trincea del diritto che è stata e continua a esserela Procura di Palermo, ha conosciuto e interrogato mafiosi,pentiti, 007, ministri, parlamentari ed ex capi dello Stato,faccendieri ed estremisti di destra, protagonisti e comprimaridel tragico teatrino della politica italiana tra la Prima e laSeconda Repubblica. Quello che Ingroia sa, lo sa non soloin virtù delle sue voluminose indagini e della sua esperienzainvestigativa, ma anche perché è un osservatore che, secondol’insegnamento di Pasolini, «coordina fatti anche lontani,mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di unintero coerente quadro politico, ristabilisce la logica là dovesembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».5 Inuna parola: un uomo che pensa. Il ventennale delle stragiè anche per lui un giro di boa: dopo avere concluso leindagini sulla «trattativa» e avere assistito alla sentenzadella Cassazione che ha di fatto confermato il bollo dimafiosità su Marcello Dell’Utri (sia pure con distinguotemporali), illuminando tutta l’ambiguità di Berlusconi
   
     5 Pier Paolo Pasolini, Cos’è questo golpe?, in «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, poi in Scritti corsari (Garzanti, Milano 1975) conil titolo Il romanzo delle stragi.
   
     nei suoi rapporti con Cosa nostra, Ingroia ha lasciato la magistratura per una nuova avventura professionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, sempre nel segno della difesa di quei valori di legalità e giustizia che hanno segnato la sua carriera. Ora che non è più un pubblico ministero, ora che Ingroia è un cittadino libero dai vincoli di stretto riserbo chela toga gli ha finora imposto, può regalarci una riflessione ampia sulla stagione berlusconiana che spazia dalla cronaca giudiziaria alla politica, dall’economia alla cultura, e che nonva letta come una requisitoria, ma come la testimonianza diuna fedele sentinella della Carta costituzionale. «Un giudice»ha detto Ingroia nell’intervento pubblico che gli è costato una censura del Csm «ha il dovere di essere imparziale, ma fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, io so da che parte stare.»Le sue parole suonano come la più vibrante dichiarazione d’amore che si possa rivolgere al proprio paese, ricordando i colleghi uccisi, senza rinunciare al dovere civico di dire quello che si pensa. Attenendosi alla verità dei fatti, ma a prescindere dalle prove e dai processi.
   
 Giuseppe Lo Bianco Sandra Rizza

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