24 luglio 2013

I sicari di Trastevere: la legge elettorale vergogna


I sicari di Trastevere” è un romanzo storico travestito da giallo, ambientato a Roma, nel 1875: 14 anni dopo l'unità d'Italia, 5 anni dopo la breccia di Porta Pia.
Parte dall'assassinio del direttore de La capitale, Raffaele Sonzogno, per raccontare, attraverso depistaggi, false piste, tutti gli intrallazzi che erano sorti, subito dopo l'unità d'Italia, sui beni della chiesa. Intrallazzi e depistaggi che impediranno di individuare, al processo, le menti dietro questo assassinio. 



Speculazioni e intrallazzi che Sonzogno, erede della famiglia di editori, aveva denunciato sul suo giornale.

Denunce che non avevano trovato sufficiente sponda politica nella sinistra che si preparava a subentrare al governo dopo gli anni della destra storica.

Sulla rappresentanza politica dei parlamentari dei quei primi anni di unità, vorrei riportare questo passaggio dove si parla della legge elettorale.

Ora che l'Italia era venuta a Roma ed era cominciato il periodo grigio dell'amministrazione, Trastevere aveva conservato un'alta temperatura politica. Faceva parte del 5 collegio elettorale, un collegio che andava a sinistra. In aiuto ai pochi e che votavano si era costituita - come altrove - una vivacissima società di non elettori. La società diceva la sua sulla scelta dei candidati e li sosteneva se erano di suo gradimento.

Similmente si comportavano i comitati cattolici che registravano invece invece il grado di religiosità dei futuri parlamentari. Questi organismi sorgevano perché la legge consentiva il diritto di voto a meno del 3% della popolazione. Gli elettori erano selezionati in base al censo: votava chi pagava un minimo di tasse ed aveva un titolo di istruzione. Ancora nel 1882, la riforma elettorale voluta dalla sinistra, andata nel frattempo al potere, estendeva la fascia degli elettori al 9% soltanto della popolazione.

Queste leggi furono responsabili del qualunquismo degli italiani e della loro indifferenza verso lo Stato e i suoi ordinamenti. Tutti potevano giudicare l'ingiustizia della disparità perché, in occasione del plebiscito, quando si doveva decidere se ammettere o meno al Regno le provincie via via liberate, al voto erano ammessi tutti, ricchi e poveri, istruiti e ignoranti. Ora che si dovevano scegliere amministratori capaci, pochi erano ritenuti degni di esercitare questo diritto.

pagina 87
Sulla legge elettorale varata dalla sinistra, nel 1882:

«Fin qui gli uomini che furono al governo», disse il Depretis in un discorso alla Camera dell'ottobre dello stesso anno, «sono stati giudicati da un consesso di elettori che da quasi un quarto di secolo faceva esperienza ogni due anni, a un dipresso, di vita politica, da un consesso di elettori che formava una specie di aristocrazia [...]. Tutti i cittadini che possono sapere quello che valga il diritto politico sono chiamati oggi a scegliere i legislatori». Fu in effetti un considerevole avanzamento sulla via della democrazia («il momento è dei più decisivi nella storia del nostro paese», ammoniva in quella occasione Depretis): dal 2,2% si giunse al 6,9%, che corrisponde ad un aumento di elettori da 600.000 a 2.000.000. Non si trattò del suffragio universale, che era stato chiesto da radicali, repubblicani, socialisti e perfino dai cattolici, che speravano nel voto sanfedista delle campagne, ma «in pratica una parte notevole di classe operaia ottenne il diritto di voto». L'allargamento del suffragio fu rappresentato non solo dall'abbassamento dell'età degli elettori (da 25 a 21 anni), ma anche dal fatto che il requisito del censo fu sostituito, quasi per intero, da quello delle capacità («sapessero leggere e scrivere»), anche se ben pochi avevano questo requisito.

La riforma elettorale, nel testo rielaborato da Zanardelli, fu finalmente varata, dopo altre complesse discussioni alla Camera e al Senato, con le leggi del 22 gennaio e del 7 maggio 1882. [...] La nuova legge elettorale stabiliva che fossero elettori i cittadini italiani che avessero compiuto il ventunesimo anno d'età, sapessero leggere e scrivere e avessero uno dei seguenti requisiti: avere sostenuto con buon esito l'esperimento sulle materie comprese nel corso elementare obbligatorio (seconda elementare), oppure pagare annualmente per imposte dirette almeno lire 19,80. Rispetto alla precedente legge elettorale la nuova legge abbassava dunque il limite d'età da 25 a 21 anni, poneva come requisito essenziale la capacità e non il censo, abbassava il censo, lasciato come alternativa all'esame di II elementare, da 40 lire a 19,80. Pertanto gli elettori che nelle elezioni del maggio 1880 erano stati 621 896, pari al 2,2% della popolazione totale del regno, passarono a 2 017 829, pari al 6,9% della popolazione totale, nelle elezioni dell'ottobre 1882, che furono le prime fatte in base alla nuova legge. In pratica una parte notevole della classe operaia ottenne nel 1882 il diritto di voto. D'altra parte escludendo dal voto le masse degli analfabeti, la nuova legge in linea generale favoriva le città rispetto alle campagne e il Settentrione rispetto al Mezzogiorno.
Il suffragio universale puro e semplice era stato più volte richiesto dai radicali, dai repubblicani e da quei socialisti che oramai erano decisi a partecipare alle lotte elettorali, i quali tutti avevano organizzato nel 1880-81 una vivace agitazione con comizi in molte città. Ad esso erano propensi anche molti clericali ed alcuni liberali di Destra, come Jacini [...], Sonnino ed altri, che vedevano nel voto ai contadini analfabeti una garanzia di conservazione sociale. Ma proprio il timore dei rivoluzionari e dei clericali (più di questi che di quelli) spinse Zanardelli, Depretis e la maggior parte della Sinistra a stabilire come requisito essenziale per il diritto elettorale la licenza del corso elementare obbligatorio. Perciò la proposta radicale per il suffragio universale fu respinta dalla Camera nel giugno 1881.

(da G. Candeloro, Storia dell'Italia Moderna, VI, 1871-1896, Feltrinelli, Milano, 1970)
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