Parlare lo stesso linguaggio delle persone arrabbiate contro il sistema.
Dire alle persone che le parole che volevano sentirsi dire (sulle tasse, sugli immigrati presentati come una delle cause dei problemi).Non aver paura delle gaffe, di essere politicamente scorretto.
Queste alcune delle ragioni della vittoria di Trump, scrive oggi Stefano Pistolini sulla copertina del Fatto Quotidiano.
Dall'altra parte, tanta superficialità, assenza di umiltà, non aver compreso quanto vasto, profondo e ampio fosse il fronte degli esclusi e degli arrabbiati (e qui Bersani dovrebbe sapere di cosa stiamo parlando).
“Io so come si fa”: ecco come ha vintoIndignati - “Un’America così noi non la vogliamo, fuggiamo in Canada”, gridano adesso in tanti. Ma sono la minoranza sconfitta. Alla maggioranza vincente piacciono muri contro i messicani e musulmani al bando
di Stefano Pistolini | 10 novembre 2016 Conquistando la Casa Bianca, Donald Trump produce un effetto rivoluzionario sulla rappresentazione americana contemporanea: manda in soffitta la classe media, i suoi costanti bisogni di motivazione e rina- scita, la sua dittatura del politicamente corretto. E con essi, la sua primarietà nella descrizione della forza del Grande Paese e quella sua dominanza mediatica che l’ha sempre mantenuta al centro di un discorso del quale ora è stata spossessata, prepotentemente, dalla volontà di quella che invece era stata ridotta a essere chiamata “l’altra America”. E che ha trovato il suo invincibile agente provocatore in Trump, un miliardario d’assalto, bizzarro e pacchiano, balzano e gaglioffo – ma uomo di mondo e di comunicazione, come da sempre si sapeva e come ora tutti speriamo di verificare, perfino con un certo stupore, fin dai primi discorsi che pronuncerà, in vista dell’imminente trasloco nello Studio Ovale.
Il mistero del cafone che non ha mai sentito il bisogno di giustificarsi
A questo punto è d’obbligo fermarsi un momento a osservarlo più da vicino, questo personaggio la cui vera natura e il cui pensiero, ben al di là della caratterialità, continuano in fondo a essere un mistero per tutti. Lo scaltro businessman che non si è fatto da solo, ma ha goduto della comoda partenza offerta dai soldi di papà, il disinvolto giocoliere delle regole finanziarie e giudiziarie del suo Paese, interpretate come un labirinto dentro al quale muoversi con molta furbizia e pochissimo senso etico, al solo scopo di conseguire i massimi vantaggi personali. Anche a lui piace descriversi così: un abile uomo d’affari che gioca le sue partite sempre in attacco, sfruttando in modo spregiudicato le linee laterali. Se i suoi vantaggi sono sovente corrisposti alla rovina di altri – come la sua ascesa e la sua precipitosa caduta sul mercato immobiliare di Atlantic City, di cui divenne brevemente l’imperatore, salvo rivelarsi l’incarnazione di Nerone – lui non ha mai sentito il bisogno di giustificarsi: quando il gioco di duro, eccetera eccetera, dicono da quelle parti, in uno dei proverbi che più volentieri si ascolta ripetere in un degno consesso maschile. E allora soldi a palate, investimenti variamente giudicabili, un gusto perenne per la vistosità cafona delle proprie imprese (per conferma è sufficiente una passeggiata nel suo Trump International Hotel, appena inaugurato, guarda caso, proprio su Pennsylvania Avenue, a due passi dalla Casa Bianca), e soprattutto un principio sbandierato: io so come si fa. Sono bravo e spietato, il business è il mio brodo primordiale e voi provate a chiedervi se davvero non avete voglia di affidarmi l’impresa delle imprese: il comando supremo. Non fate caso se ogni tanto le sparo grosse, se semino qualche bugia nei discorsi, se i professori delle università si divertono a chiamarmi Pinocchio: io sono l’ultimo prototipo del businessman americano, quello pronto a rischiare per vincere, assemblato proprio come i modelli originali. Sono nato per regnare – del resto anche in tv non mi hanno voluto per insegnare il mestiere del boss? – e sono pronto alla promozione a plenipotenziario amministratore delegato degli Stati Uniti d’America.
Per un anno intero, a cominciare dagli sparuti caucus repubblicani dell’Iowa, questo candidato diverso da qualsiasi altro si fosse visto prima, ha cominciato a farsi largo tra gli avversari, inizialmente assai più titolati e credibili di lui. Uno dopo l’altro, li ha battuti e ridotti all’impotenza, proprio sulla base di quella differenza: loro erano, ciascuno a modo suo, la declinazione della politica tradizionale e dei suoi codici. Lui, Trump, era qualcosa di completamente diverso, sconosciuto, alieno ai rituali, ai linguaggi e alla messinscena di Washington, della Camera, del Senato, dei due grandi partiti, per non parlare nemmeno della Casa Bianca. Una specie di estremizzatore dei modi di pensare e di esprimersi della destra radicale, venato di razzismo, maschilismo, sciovinismo, incapace di tenere sotto controllo la propria vanità, i suoi rancori, l’insofferenza verso le regole del gioco e ovviamente la lingua. Un guastatore buono per quei tempi bui che nel frattempo in America si diceva fossero già alle spalle, un provocatore apparentemente estraneo all’idea di politica sempre coltivata da quella parte dell’oceano, fatta di compostezza, saggezza, medietà e, nel caso di un presidente, appunto di “presidenzialità”.
I Democratici osservavano con crescente scetticismo la progressiva avanzata di Trump verso il trionfo della Convention repubblicana di luglio, dove avrebbe ricevuto l’incoronazione a candidato ufficiale del partito – tra mille mugugni dei partiti e altrettanti sussurri: “Non potrà mai vincere” – mentre dalle parti di Hillary già si fregavano le mani: per il rush finale si profilava l’avversario più facile del mondo.
Per battere Trump, si è creduto nello staff-Clinton, sarebbe bastato sottolineare il disgusto nei suoi confronti e ribadire la sua impresentabilità. Chi mai avrebbe potuto supporre che quella mossa sarebbe stata l’anticamera del disastro? Come si è potuti cadere in un errore che è una ricorrenza, nella storia dei grandi fallimenti elettorali degli ultimi anni? Eppure era cosa nota: non si deve mai cadere nel peccato di superbia secondo il quale è sufficiente insistere sull’inadeguatezza dell’avversario, parlandone ossessivamente, procedendo metodicamente a denigrarlo e a segnarlo all’indice come prodotto dell’antipolitica qualunquista. Perché là fuori, ad ascoltare, ci può essere proprio un’America antipolitica e qualunquista, con pochi elementari, inderogabili principi da difendere (via gli estranei dalla nostra terra; difendere il diritto degli americani di acquistare e detenere quante armi da fuoco si desideri; depotenziare gli schemi assistenziali in favore di vagheggiati tagli delle imposte…), dunque disposta soprattutto a identificarsi proprio col candidato “diverso”, atipico, non osservante del dogma dei partiti e della loro alternanza, pronto a chiamare all’appello i connazionali con un semplice richiamo: “Stufi di come vanno le cose? Ci penso io a rimetterle a posto com’erano prima”. Sebbene tutti sappiano benissimo che ciò non sarà mai possibile, che il mondo di Trump è un’illusione, che quando lui parla di affari, in linea di massima, fa riferimento a cose che a suo tempo si rivelarono disgrazie per chi ebbe la ventura di sedersi al tavolo delle trattative con lui. E invece, testardamente, Hillary Clinton, e con lei tutte le personalità di spicco del progressismo americano, hanno fatto campagna elettorale parlando di un unico argomento: Trump. Teniamolo lontano. Come si può pensare di lasciare la nazione nelle sue mani, per non parlare della famigerata valigetta coi codici nucleari? Sarebbe dovuto bastare. Ma non è bastato per niente.
Era lui, era Donald, a parlare la lingua che la maggioranza degli americani aveva voglia di ascoltare, e chissà su quale isola deserta in questo momento stanno cercando rifugio i sondaggisti dalle parcelle milionarie. Si diceva: ma dove vuoi che uno come Trump li vada a prendere i voti per vincere? Giusto gli anziani dell’America profonda, quelli che vivono tra le paludi e i villaggi sperduti nel mezzo del nulla, possono sostenere un tipo così. Non ci sarà una donna che voterà per lui, non un afroamericano, non un ispanico – perché dovrebbero farlo, perché dovrebbero sottoscrivere un patto con il nemico? Nessuno si è seriamente peritato di verificare quali fossero, nello stesso momento, e presso quella stessa vasta area dell’elettorato, i livelli di gradimento di Hillary Clinton, la secchiona preparatissima, quella da un pezzo in lista d’attesa per la Casa Bianca, quella con tutta l’esperienza e la conoscenza di Washington indispensabile per affrontare l’incarico. Nessuno ha voluto ammettere che Hillary non fosse per niente l’antidoto giusto per la febbre da Trump. Che ci sarebbe voluto qualcuno capace di battersi con lui con le stesse armi, o comunque capace di ridicolizzarlo in un autentico faccia a faccia. Non sarebbe successo niente del genere e con l’avanzare della campagna verso il testa a testa finale, si è definitivamente capito che Hillary non scaldava cuori, trascinando un fardello di trascorsi e di responsabilità che la proiettavano colpevolemente al passato nello scenario americano.
Un nuovo populismo: parlare a un pubblico, non a un elettorato
Eppure, ancora, doveva, poteva bastare per battere Trump il clown, ogni giorno svergognato da una donna che ne evocava la volgarità delle avance sessuali. Niente di tutto questo: l’America era pronta a tollerare perfino uno scandalo del genere e oggi c’è chi, con stupore misto all’horror vacui, dice o scrive che se le cose stanno così, disconosce il suo Paese e avvia le pratiche per emigrare in Canada. Denotando, ancora una volta, quell’atteggiamento elitario che, sull’intero sfondo di questo grande avvenimento, va a braccetto con la parte della nazione meglio attrezzata culturalmente. Un’America così, con Trump al comando, noi non la vogliamo, gridano adesso loro, tutti in coro. Ma sono la minoranza sconfitta. Alla maggioranza vincente, quella culturalmente meno consapevole, l’America dei muri verso il Messico e dei musulmani deportati, non dispiace affatto, anche se prestissimo si comincerà a dire che quelle erano solo esagerazioni elettoralistiche, espresse da un candidato desideroso di entusiasmare i propri follower.
Ecco il leit motiv di quello che è già il case history fondante per la politica stile XXI secolo: Trump, dimostrando una sensibilità e un tocco superiore a quello di tutti gli analisti, americani e non, che compattamente l’hanno delegittimato, ha capito subito – e lungo la strada ha rafforzato la propria convinzione – che il presente stato delle cose in America poteva essere cavalcato con notevoli prospettive di successo. Certo, serviva tutta la disinvoltura necessaria, quella che presto sarebbe stato etichettata come “il populismo di Trump”: la precisa volontà di dare al pubblico – sì, non all’elettorato, ma proprio al suo pubblico inteso in termini mediatici – esattamente ciò che chiedeva. Il suo programma non mentiva, almeno nell’enunciazione di una premessa teorica: “Tornare a far diventare grande l’America”, dicendosi pronto a fare tutte le cose indispensabili per trasfondere nei seguaci la certezza che Donald era il migliore capo possibile, in una situazione del genere. Uno che non si sarebbe fermato davanti a nulla per rimettere l’America su quella vagheggiata via della propria grandezza, del “destino manifesto” promulgato dai Padri Fondatori, della superiorità del progetto-nazione. Sorvolando intenzionalmente sul fatto che, in via di realizzazione, un proposito del genere avrebbe travolto tutto ciò che americano non è, inclusa forse, tout court, la realtà.
Con una lungimiranza che fa pensare a un’analisi di mercato, Trump ha individuato per la propria candidatura un bacino di sostegno di dimensioni straordinarie: proprio la cosiddetta America dimenticata e non mediatica, la provincia profonda, gli ultimi, gli scontenti, i nostalgici, gli anziani, gli arrabbiati, gli spaventati, gli sfiduciati, i talebani dell’individualismo. Vestendo i panni confidenziali del libero pensatore del bar, colui con cui s’attacca discorso in treno per lamentarsi vicendevolmente di come vadano male le cose, Donald ha sondato il terreno e, fin dall’imbocco delle primarie, ha visto le acque aprirsi di fronte a lui.
La rivelazione era che l’America degli ultimi, degli scontenti ecc. ecc., oggi ha dimensioni straordinariamente e insospettabilmente grandi e dunque preoccupanti, che devono far riflettere sulle condizioni e l’effettivo spirito della nazione, appena sotto la sottile pellicola del racconto che ne continuano a fare Hollywood e i grandi media. E che, dunque, questo esercito irregolare in via di allestimento, debitamente motivato sarebbe stato sufficiente – niente meno! –, a vincere le elezioni, portandolo alla presidenza e al controllo delle sorti della nazione. Nella bruciante differenza, che oggi misuriamo in tutta la sua devastante gravità, tra ciò che l’establishment della comunicazione americana (e chi la controlla: ovvero, di nuovo, la classe media bianca e acculturata) ha continuato a esprimere fino all’ultimo momento, attraverso i sondaggi oggi ridicolizzati, attraverso gli endorsement di colpo pallidi e impotenti, attraverso la discesa in campo di campioni formidabili come la coppia Obama e tutta l’intellighenzia della East Coast, rispetto a ciò che adesso il voto ha numericamente, fatalmente espresso, c’è il racconto di una rivoluzione che stordisce l’Occidente. La superiorità della stessa borghesia americana, che pure lamentava torti, debolezze e appannamenti, è stata sovvertita dalla marea caotica di un giacobinismo che ora ha preso i Palazzi e da domani dovrà pensare cosa farne e come – a meno che non voglia continuare la sua marcia fino alla follia, alla distruzione e all’autodistruzione, che sono concetti alieni allo spirito di autoconservazione di questo popolo.
Verrà il tempo dei complotti e delle vendette
E poi, ormai, inevitabilmente, c’è Trump. Che presidente potrà mai essere? Quale divario si può cominciare a pronosticare tra il suo assetto guerrigliero delle provocazioni elettorali e il suo prevedibile nuovo status (attenzione: appunto “imborghesito”), in quanto legittimo numero uno d’America? Quali saranno gli influssi, che è bene augurarsi immediati, intensi e salvifici, di veterani di mille battaglie conservatrici, che già si radunano davanti alla porta del suo gabinetto – personaggi come Rudolph Giuliani, Newt Gingrich, Karl Rove, alte sfere degli efficienti vertici bushiani d’una volta che d’improvviso ricominciano a scintillare. Senza contare il fatto che da qui al 20 gennaio s’apre una finestra di tempo nella quale è elementare prevedere che lo scontro tra trumpisti trionfanti, repubblicani pronti a redimersi e democratici semplicemente disperati, sarà selvaggio e senza quartiere. Verrà il tempo dei conti da saldare e delle vendette, dei complotti e dei putsch. Se Trump ha vinto alle urne, può non restare che provare a disarcionarlo ricorrendo a “any means necessary”, come promettevano di fare le Pantere Nere nel vano tentativo di sovvertire l’ordine costituito americano. Adesso saranno questi progressisti sull’orlo di una crisi dei nervi, a provare a sporcarsi le mani nel tempo più breve ipotizzabile, scavando infine con serietà nel marcio quasi a vista, nascosto nell’armadio personale di Donald Trump.
È il patrimonio di colpe di questo bancarottiere seriale, in cui con supponenza s’è scelto di non immergersi fino in fondo, tutti convinti che sarebbero bastati i ragionevoli argomenti di continuità portati avanti da Hillary Clinton, per chiudere la questione e liquidare il tycoon come un incubo a occhi aperti, o come un dimenticabile colpo di spugna nella storia americana. Invece oggi la figura titanicamente tragica che resta da sola sul proscenio, nell’epilogo di una vicenda che il migliore sceneggiatore non avrebbe saputo concepire, è lei: Hillary, la prima donna apparentemente autorizzata a tenere le chiavi della Casa Bianca. Sul sogno mancato, sul passo indietro della civiltà, sull’occasione perduta, e anche sul peso dei mille compromessi che punteggiano la sua biografia, quelli evitabili e quelli inevitabili, verranno versati ettolitri di inchiostro e verranno scritte pensose pièce. Il fatto certo è che l’opzione-Hillary è stata un prodotto dell’arroganza dell’illuminata classe dominante (da lei incarnata: vedi il soffice minuetto con Wall Street), nella certezza di perpetrare il proprio potere, all’indomani di un esperimento necessario, controllato e soddisfacente come la prima presidenza di un afroamericano – evento che ha portato onore al Paese – e che ha avuto la fortuna d’incappare nel personaggio giusto, capace di interpretare in modo superiore il ruolo affidatogli. Il problema è che, mentre Obama provvedeva a salvare la nazione dalle sue magagne nazionali e internazionali – e lo faceva bene – il mondo esterno modificava la propria pressione sull’America. E la società americana, a sua volta, riallineava i meccanismi di reazione e tolleranza a ciò che le veniva descritto come un cambiamento inevitabile: la modernità.
Il silenzio che rimane sul campo di battaglia
Adesso nel più disordinato e isterico dei modi, e per bocca di un arruffapopolo dal ciuffo arancione, è stata l’America inascoltata ad avere la possibilità di dire “basta” e l’ha fatto sonoramente. Noi fermiamoci su questo limitare. Godiamo perfino il piacere di percepire il silenzio attonito rimasto in sospensione sul campo di battaglia, sapendo che di qui a poco gli avvenimenti prenderanno a succedersi in modo concitato e imprevedibile e le spade ricominceranno a sferragliare. Però non facciamo finta di niente: l’8 novembre 2016 è un giorno da ricordare. Uno di quelli, nella Storia, in cui il popolo ha parlato. La sua voce ha – come ha sempre avuto – una gravità di toni che lascia sgomenti. Ma provare a coprirla, ad attutirla, o a ridimensionarne l’importanza e i significati, sarebbe il più mortale dei peccati. Un peccato perverso e inumano, ben oltre ciò che si profila essere il leader più inconcepibile che l’America ricordi. Perché – implacabile messaggio – anche in questa drammatica occasione, l’America, venerabile laboratorio della evoluzione sociale, ci sta offrendo un messaggio. Anzi, ce lo sta imponendo con virulenza. Far finta di non vedere, sarebbe la più catastrofica delle presunzioni.
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