«La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità»Paolo Borsellino, 23 giugno 1992
Scrive Lirio Abbate, un giornalista che conosce bene la mafia, che questo paese ha un debito di verità con le vittime di via D'Amelio.
Col giudice Paolo Borsellino, con gli uomini della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Persone che sono morte cercando di proteggere il giudice più esposto, nella lotta alla mafia, che non aveva rinunciato a fare il suo dovere nemmeno dopo la morte del collega ed amico Giovanni Falcone.
Per un senso di rispetto nei confronti delle istituzioni, per un senso di rispetto nei confronti dei cittadini che vedevano, nel pool antimafia una difesa nei confronti del potere criminale della mafia.
Quel potere che sembrava imbattibile per i suoi legami con la politica, con la finanza, con pezzi della magistratura perfino con pezzi del mondo ecclesiatico.
La morte di Paolo Borsellino è uno dei misteri italiani su cui solo ora che stiamo cominciamo ad avere maggiori dettagli.
Quella strage voluta dalla mafia a soli 58 giorni da Capaci: perché quella fretta, perché ancora una bomba?
Non si aspettava la mafia, Riina e i corleonesi, che lo stato a quel punto avrebbe dovuto dare una risposta?
Perché dopo via D'Amelio fu approvato il decreto Falcone in fretta e furia, una serie di norma contro la mafia che aveva dentro anche il trasferimento dei mafiosi nelle super carceri.
Forse che quella bomba serviva ad altro? A forzare la mano allo stato da una parte (come voleva Riina), a creare nel paese il clima di paura, sfiducia nelle istituzioni, preparare il terreno per una nuova fase politica, per far fuori tutto il vecchio. Ii vecchi partiti screditati da Mani Pulite e inutili dopo il crollo del Muro di Berlino, i corleonesi, ormai depositari di tanti, troppi segreti?
Dietrologie, complotti.
Forse, ma i depistaggi sui responsabili della bomba di via D'Amelio sono reali: Scarantino, il finto pentito imboccato da La Barbera (uomo dello stato) e dalla sua squadra non è un'invenzione.
E non è un'invenzione nemmeno le trattative tra una parte dello stato e la mafia.
La prima con Ciancimino e De Donno, la seconda con Dell'Utri. Il futuro politico fondatore di Forza Italia.
Si è affermata una verità di comodo, sulla stagione stragistica della mafia del 1992 - 1993.
Una verità di comodo che non andava a rispondere a tutti i perché, ma che era comoda: per alcuni politici che hanno passato quella stagione, per i mafiosi (che si sono presi le colpe).
Dobbiamo veramente crede che sia stato solo La Barbera ad architettare il depistaggio di Scarantino, con un teorema che ha resistito a tre gradi di giudizio (fino a che è arrivato Spatuzza, a parlare anche di agenti dei servizi nel garage dive si preparava l'autobomba)?
Una verità che esclude i politici collusi con la mafia, la massoneria deviata, Gladio e gli ex gladiatori (dietro la sigla Falange Armata).
Una verità di comodo in cui in tanti hanno nascosto le loro colpe dietro le immagini degli eroi, le icone dell'antimafia da tirare fuori giusto nelle giornate della memoria e poi da tenere nel cassetto.
Come se la lotta alla mafia fosse una questione da eroi.
E non un problema che coinvolge tutto lo stato.
‘La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.’Giovanni Falcone
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