Il CSM (e di riflesso la magistratura) è troppo politicizzato? Allora cosa pensano i riformisti?
Di aumentare la quota di membri laici.
Che, assieme alla proposta di stabilire le priorità dell'azione penale da parte dell'esecutivo (per un periodo limitato, si dice), significa mettere uno dei poteri dello stato sotto controllo di un altro. O comunque di limitarne i poteri.
Come ai tempi del fascismo. Nel suo articolo "Toghe e politici" De Cataldo rispolvera una vecchia legge del governo Mussolini (pure lui eletto democraticamente nelle elezioni del 1924).
Nell'articolo si torna a parlare dell'elezione diretta dei magistrati:
Intendiamoci: in una democrazia rappresentativa, sono gli elettori, in ultima analisi, a scegliersi il proprio modello di magistrato. Ma sarebbe quanto meno corretto informare i cittadini delle conseguenze. Alcuni dei modelli proposti sono già stati sperimentati altrove, e con esiti ben noti: il giudice eletto dal popolo, per esempio, piuttosto che all’osservanza delle leggi punterà - fatto umanamente comprensibile e politicamente previsto dagli architetti del sistema - alla sua rielezione. O a fare comunque carriera in politica.
Il primato della legge sarà inesorabilmente sostituito da quello del sondaggio. Qualcuno, magari un ricco imprenditore, sovvenzionerà generosamente la sua campagna elettorale.
Il giudice eletto gliene sarà grato. Idem per quanto riguarda il Pubblico Ministero, legato alla maggioranza di governo, sia esso regionale, federale o nazionale, nonché esecutore incaricato di un «programma di politica criminale» che poi, alla scadenza del mandato, viene sottoposto al giudizio degli elettori.
Che genere di rapporto si creerà tra politica e giustizia?
Facile, in una siffatta strutturazione, un cursus honorum all’insegna della piena osmosi fra politica e giustizia: chiamatelo, se vi piace, do ut des istituzionale.
Potrebbero persino, in una simile prospettiva, essere riesumate antiche leggi nazionali, come la nr. 2300 del 24.12.1925, norma grazie alla quale Mussolini dispose la dispensa dal servizio dei magistrati che «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori ufficio non dessero piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo».
Eletto o nominato dal Governatore, e non più vincitore di concorso; soggetto alle leggi, ma previa autorizzazione governativa; dipendente dalla maggioranza all’esterno e pesantemente responsabile verso gli anziani capi negli interna corporis, il nuovo giudice sarà laborioso, fedele, silenzioso, felicemente ignorante. Potrà lavorare in santa pace, finalmente, questo nuovo giudice, così simile, per tanti versi, al modello tradizionale impresso nel DNA della collettività?
Di aumentare la quota di membri laici.
Che, assieme alla proposta di stabilire le priorità dell'azione penale da parte dell'esecutivo (per un periodo limitato, si dice), significa mettere uno dei poteri dello stato sotto controllo di un altro. O comunque di limitarne i poteri.
Come ai tempi del fascismo. Nel suo articolo "Toghe e politici" De Cataldo rispolvera una vecchia legge del governo Mussolini (pure lui eletto democraticamente nelle elezioni del 1924).
Nell'articolo si torna a parlare dell'elezione diretta dei magistrati:
Intendiamoci: in una democrazia rappresentativa, sono gli elettori, in ultima analisi, a scegliersi il proprio modello di magistrato. Ma sarebbe quanto meno corretto informare i cittadini delle conseguenze. Alcuni dei modelli proposti sono già stati sperimentati altrove, e con esiti ben noti: il giudice eletto dal popolo, per esempio, piuttosto che all’osservanza delle leggi punterà - fatto umanamente comprensibile e politicamente previsto dagli architetti del sistema - alla sua rielezione. O a fare comunque carriera in politica.
Il primato della legge sarà inesorabilmente sostituito da quello del sondaggio. Qualcuno, magari un ricco imprenditore, sovvenzionerà generosamente la sua campagna elettorale.
Il giudice eletto gliene sarà grato. Idem per quanto riguarda il Pubblico Ministero, legato alla maggioranza di governo, sia esso regionale, federale o nazionale, nonché esecutore incaricato di un «programma di politica criminale» che poi, alla scadenza del mandato, viene sottoposto al giudizio degli elettori.
Che genere di rapporto si creerà tra politica e giustizia?
Facile, in una siffatta strutturazione, un cursus honorum all’insegna della piena osmosi fra politica e giustizia: chiamatelo, se vi piace, do ut des istituzionale.
Potrebbero persino, in una simile prospettiva, essere riesumate antiche leggi nazionali, come la nr. 2300 del 24.12.1925, norma grazie alla quale Mussolini dispose la dispensa dal servizio dei magistrati che «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori ufficio non dessero piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo».
Eletto o nominato dal Governatore, e non più vincitore di concorso; soggetto alle leggi, ma previa autorizzazione governativa; dipendente dalla maggioranza all’esterno e pesantemente responsabile verso gli anziani capi negli interna corporis, il nuovo giudice sarà laborioso, fedele, silenzioso, felicemente ignorante. Potrà lavorare in santa pace, finalmente, questo nuovo giudice, così simile, per tanti versi, al modello tradizionale impresso nel DNA della collettività?
2 commenti:
Ormai non sanno più distruggere i fondamenti della democrazia....
Parlano di smantellare un sistema di poteri che si dovrebbero equilibrare tra loro come se parlassero delle nomination al grande fratello. Tra l'altro commettendo degli errori e strafalcioni giuridici da far paura: se questi sono i nuovi padri della repubblica, non oso immaginare che orrore verrà fuori.
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