Incipit (qui,
dove potete leggere anche dell'origine dell'espressione “ai tempi
di Carlo Cudega”)
“Nella Milano degli anni ’50, si incontravano in strada moltissimi uomini con la sigaretta in bocca... non donne, però, perché queste ultime ancora non osavano esibire il loro vizio in pubblico, in quanto quelle che lo facevano venivano immediatamente bollate come donne di facili costumi”.
Un'altra inchiesta
del Maigret meneghino, ovvero il commissario capo Mario Arrigoni del
commissariato di Porta Venezia, personaggio inventato (come anche il
commissariato) di una Milano autentica di tanti anni fa. Attraverso
il racconto delle indagini sui casi che Arrigoni e la sua squadra
devono affrontare, Dario Crapanzano ci racconta della Milano degli
anni '50, lasciando alla voce narrante il compito di descrivere le
differenze con l'oggi, le espressioni che purtroppo si sono perse, i
luoghi di una volta, le mode dei tempi.
Siamo partiti dalla
scoperta delle vecchie case di ringhiera dove si era costretti ad
incontrare i vicini, nel primo Delitto
in via Tadino.
Poi siamo passati
al mondo delle case di tolleranza (ancora tollerate dallo stato
italiano, nonostante la morale chiusa dei tempi, ma .. lasciamo
perdere) con la Bella
del Chiaravalle.
Il mondo della
pubblicità, con le prime reclame dei prodotti sui giornali, sui
cartelloni, alla radio e poi anche nella televisione, col Delitto
di via Brera.
Altra inchiesta,
nei giorni della festa per il patron di Milano, S Ambrogio (e la
festa degli Oh bej Oh Bej),
il caso di piazzale Loreto.
Infine, il mondo
del teatro, le su rivalità, ambientato nel teatro (inventato)
Imperiale vicino alla stazione Centrale (che già allora era uno dei
punti principali della città), con l'omicidio
di via Vitruvio.
Ora, tocca al mondo
degli oratori che, in quegli anni, come anche un po' oggi, era un
punto di riferimento importante per le famiglie, specie quelle con
meno possibilità economiche: un punto dove poter lasciare i ragazzi
affidandoli ai preti della curia.
Certo, non tutti
erano preti all'avanguardia e dinamici come don Luciano Fontevivo
della parrocchia di San Sigismondo Elemosiniere, vicino a viale
Abruzzi (non cercatela, è un luogo inventato, per evitare
contestazioni post scrittura).
È lui, la persona
che viene trovata morta la mattina presto, nel venerdì di Pasqua, su
una panchina di piazzale Bacone, da un “catamucc”, colui
cioè che raccoglieva le cicche di sigarette lasciate per terra per
ricavarne il tabacco e confezionare altre sigarette da vendere
sottobanco. Non proprio un'attività legale, ma erano anni difficili
e ci si doveva arrangiare.
Cosa ci faceva don
Luciano a quell'ora, su quella panchina? Aveva un appuntamento col
proprio assassino, oppure è stato ucciso da un balordo incontrato
per caso?
Di certo non è
stata una rapina, visto che nessuno ha toccato il portafoglio.
Un caso difficile
per la squadra di Arrigoni, alle prese anche con un caso di ricatto e
tradimento. Difficile perché nessuno ha visto niente, forse solo il
“catamucc”, al secolo Amedeo Gariboldi, ha intravisto qualcuno
aggirarsi attorno al cadavere.
Difficile perché
il morto è un prete e dunque gli investigatori sono sottoposti ad
una doppia pressione. Da parte dei vertici della Questura milanese e
anche della curia.
“Monsignor Tavazzi è stato molto chiaro, riferisco alla lettera: “Auspichiamo, qui e a Roma, una veloce conclusione dell’inchiesta, ma mi raccomando: che la Chiesa ne esca immacolata!”. Chiaro il concetto, Arrigoni?»”
Difficile perché
nessuna delle persone, interrogate dagli agenti perché vicine al
mondo dell'oratorio o perché il loro nome era stato scritto
sull'agendina del morto, riesce a dare delle notizie o degli indizi
utili.
Notizie utili oltre
alle parole di circostanza che vengono subito raccolte: perché don
Luciano era chiamato il prete bello, per la sua prestanza e il suo
fascino.
E, si sa, un prete
bello e per di più molto emancipato per i tempi, raccoglie anche
molte maldicenze. Come quelle sulle belle signore con cui collaborava
per gli spettacoli teatrali.
Come la signora
Weiss, una bella donna della borghesia milanese, sposata con
un banchiere svizzero e con un passato da attrice. E dai modi molto
altezzosi, conscia del rango sociale e della sua avvenenza.
E poi Eleonora
Maggioni, di professione sarta, sposata con un artigiano, che
preparava i costumi per le recite in oratorio.
Oltre a queste due
signore che negano ogni relazione col prete, Arrigoni, assieme
all'ispettore Giovine, al vice Mastrantonio e all'agente Di Pasquale,
incontrano un vasto campionario di umanità, legata al mondo della
vittima.
Il prefetto
dell'oratorio, Attilio Monteverdi, che si occupava degli aspetti
amministrativi e non vedeva di buon occhio tutte le attività del
prete bello.
La giovane signora
Maristella Piacentini, di cui don Luciano era confessore. Ma come mai
il suo nome era sull'agendina?
Il vecchio prete,
don Franco Spaccagnella, responsabile dell'oratorio femminile, di
tutt'altra pasta rispetto a don Luciano per le sue vedute sul mondo,
ben più ristrette.
Il prevosto della
parrocchia, Don Remo, “un omone alto più di un metro e ottanta,
di corporatura robusta a stento trattenuta dalla pur ampia tonaca,
capelli folti e brizzolati”. Amante dei sigari Avana e del buon
rum.
La perpetua poco
perpetua, Ombretta Vercellesi, una ex sciantosa di tabarin che,
nonostante gli anni, rimane molto piacente:
«Dicevo che in parrocchia ci siamo imbattuti in una singolare combriccola: un gioviale parroco progressista che fuma sigari avana e beve rum; una vivacissima perpetua, in gioventù “sciantosa” di tabarin; un don Franco acido e roso dall’invidia, e infine un vecchio sagrestano.
Compone il quadro
il signor “Watson”, ovvero Ettore Guardaboschi, amico
della vittima nonché investigare privato, cui don Luciano si
rivolgeva per risolvere delle questioni legati ai ragazzi del suo
oratorio e ai loro problemi.
Ad avvalorare la
pista passionale, come quella del marito geloso che accecato dall'ira
uccide il prete, una lettera, forse una minuta, trovata nella sua
stanza:
«Senta un po’ che cosa c’è scritto qui: “Cara amica, questa storia deve finire, e la faremo finire. Lo richiedono il rispetto della mia missione, la veste che indosso e la sua situazione familiare. Dobbiamo assolutamente...”
La frase non è
completa: don Luciano aveva dunque una relazione con una donna, o
forse c'è dell'altro dietro quelle parole un po' sibilline?
Nonostante tutte le
difficoltà, la squadra di Arrigoni arriverà alla soluzione, e anche
questa volta per una intuizione del giovane Di Pasquale, che metterà
l'indagine sui giusti binari.
E darà una
spiegazione a tutti i perché. Perché quell'omicidio a quell'ora,
perché proprio quell'arma. E perché quelle parole ...
Ma, come per tutti
i romanzi di Crapanzano, nel libro c'è spazio per la vita privata di
Arrigoni, il nido accogliente della sua casa con le sue donne, la
moglie e la figlia, dove rilassarsi dopo il lavoro.
C'è spazio per
raccontare dei riti di Pasqua della famiglia Arrigoni: quelle
faccende personali del venerdì di Pasqua:
Le “faccende personali” del commissario consistevano nel mantenimento di una promessa fatta alla figlia tredicenne Claudia: partecipare al “giro delle sette chiese”, una tradizionale usanza cattolica del Venerdì Santo, ideata da san Filippo Neri per celebrare il martirio di Cristo, [..] i fedeli che ottemperavano a quanto previsto dalla regola, avrebbero avuto diritto all’indulgenza plenaria.
Una vera e propria via crucis per i poveri piedi di Arrigoni.
Promessa cui era esentata l'ottuagenaria madre, “data l’età, avrebbe maturato ugualmente il diritto all’indulgenza entrando e uscendo sette volte dalla stessa chiesa”.
Oltre ai riti
pasquali, ci sono anche i rimedi medici dei vecchi: come quello per
abbassare la febbre:
“La febbre veniva combattuta con impacchi di panni freddi sulla fronte[..] Contro tosse e raffreddore, subito sotto le coperte dopo una tazza di vin brulé, vino bollito aromatizzato con cannella[..] La purga ideale era invece un cucchiaio di olio di ricino, medicamento dal sapore disgustoso,[..] Altrettanto sgradevole era il gusto dell’olio di fegato di merluzzo,..”
Infine, una chicca,
la cura per l'orzaiolo:
“La terapia più curiosa era senz’altro quella seguita per guarire gli orzaioli, la cura consisteva nel guardare, con l’occhio malato, nel collo di una bottiglia di olio di oliva ...”.
Per fortuna che
sono rimedi passati di moda e che non ci si rivolge più a certi guaritori (pret de Ratanà, nel dialetto dell'epoca).
Non manca un
accenno alla cronaca giudiziaria: è il 1953 ed era appena scoppiato
il caso di Wilma Montesi, la giovane ragazza trovata morta a
Torvajanica. Uno scandalo che riempì le pagine dei giornali con le
varie ipotesi sulle cause della morte, che lambì il mondo della
politica (e costo la successione a De Gasperi per il ministro
Piccioni).
Buona lettura!
Gustatevi l'ultimo
interrogatorio ...
1 commento:
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