23 aprile 2016

La colonizzazione del nord – da un Caso come gli altri.

Già da molti anni, famiglie legate alla Società si erano stabilite nel Norditalia. Avevamo mandato là i figli più dotati perché studiassero, perché capissero. Le regioni più ricche, con la loro rete di imprese, cooperative, industrie, appalti, erano come un frutto maturo. Non bisognava avere fretta, però. C'era da parlare, da organizzare. Da costruire. Esponenti delle 'ndrine ioniche, ma anche clan campani e in misura minore perfino siciliani, avevano preso posizione in diverse comunità della Lombardia, della Liguria e del Piemonte. Per non parlare della Valle d'Aosta, in cui le prime infiltrazioni erano avvenute addirittura negli anni di piombo.Una pesca succosa. Da addentare.Gli ambasciatori delle varie famiglie si stabilivano in un comune, preferibilmente piccolo e ricco. Si guardavano attorno, annusavano l'aria. I figli andavano a scuola mentre i padri, gli zii e i loro sodali frequentavano i bar, le sezioni dei partiti, gli studi di avvocati e commercialisti. Erano nuovi, non sapevano ancora molto su come andavano le cose lassù. Ma avevano tempo, pazienza e denaro. Molto denaro. Non sarebbero servite minacce o sparatorie da quelle parti, lo avevano capito subito. Non era casa loro. Lo sarebbe diventata, questo sì, a suo tempo, ma al momento occorreva muoversi con cautela. Mostrare la faccia cortese, quella dell'amicizia e degli affari.Il vecchio secolo era finito e in Italia le cose erano cambiate. Vecchi partiti avevano lasciato posto a partiti nuovi, i centri di potere andavano formandosi o riformandosi, regione per regione, città per città. Aveva bisogno di voti quella gente, e di quattrini. Voti? Quattrini? Le famiglie potevano procurare gli uni e gli altri. Così i loro avvocati, i commercialisti, i faccendieri fidati avevano avvicinato i nuovi eletti. Nessuna minaccia, nessuna pistola. Solo sorrisi, aperitivi, scorpacciate di funghi e polenta, qualche squillo di lusso, un tiro di polvere bianca, promesse, i primi appalti. Buste piene di banconote avevano cambiato di mano, con discrezione. E consiglieri comunali, presidenti, sindaci, gioiosi ed energici rappresentanti del nuovo che avanza, si erano legati a doppio filo ai nuovi finanziatori. Lo avevano fatto sull'esempio di personaggi ancora più potenti, gente che comandava a Milano e a Roma. Non era sembrato vero a questi signori seduti dietro le scrivanie al cui cospetto un tempo si arrivava dopo lunghe ore in sala d'attesa, di avere accesso a fondi pressoché illimitati. Soldi facili, con cui si poteva fare tutto. Arrivare dappertutto. Permettersi di sognare perfino un seggio nella capitale, il che significava fama e fortuna, inviti nei salotti che contano, ancora più potere e denaro.C'era un lavoretto da far fare, un permesso da concedere, una pratica da facilitare? Pronti, bastava chiedere. I loro nuovi amici, così gentili e generosi, persone a modo, come non sé ne vedono spesso, si erano rivelati efficienti, organizzati, affidabili e riconoscenti. Soprattutto assai riconoscenti.Nuovi quartieri, nuove strade, capannoni, porti, ospedali venivano tirati su un po' dovunque. Altre buste cambiavano di mano. Si trasformavano un vacanze tropicali, feste, belle donne, macchine sportive. E poi ville padronali, attici firmati da architetti di grido, altre feste, donne ancora più belle, cocaina di prima qualità.

Una caso come gli altri, Pasquale Ruju (Edizioni E/O).

Così racconta il libro di Pasquale Ruju, un lungo confronto tra la vedova di un boss della ndrangheta e il magistrato che ne sta raccogliendo la confessione (ma non il pentimento): come è successo che le 'ndrine entrassero nel tessuto sociale, industriale, professionale, politico del nord. Per la ndrangheta erano un frutto maturo, da cogliere, a colpi di soldi, voti e coca.
Perché questo è successo.

In Piemonte, dove è ambientata la storia, ma anche qui in Lombardia, in Brianza, come ha raccontato l'inchiesta sulla Perego strade.

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