10 aprile 2016

Guerra all'Isis, di Aldo Giannuli

Gli errori che abbiamo fatto, perchè rischiamo di perderla, che cosa fare per vincerla

Stiamo perdendo la guerra all'Isis.
Una frase che sentiamo ripetere spesso sui nostri giornali che, a volte, più che fare informazione, si preoccupano solo di alimentare i nostri pregiudizi e le nostre paure.
Ma con chi esattamente stiamo combattendo la guerra?
Che tipo di guerra stiamo combattendo, con quali strumenti, con quali armi?
E poi, ancora, chi è ISIS, che struttura ha, chi sono i suoi vertici, oltre al Califfo Al Baghdadi? C'è forse una catena di comando sotto che non vediamo?
Infine, perché stiamo perdendo questa guerra con ISIS? Perché abbiamo sbagliato strategia? Perché non abbiamo informazioni? Perché nonostante le bombe, nonostante i tanti propositi bellicosi dei signori presidenti (da Hollande a Obama), ancora non abbiamo capito quale sia la giusta strategia per contrastare sia la guerra di terra, laggiù in Iraq (lontano) e anche gli attacchi terroristici qui in Europa?

Lo storico, ricercatore nonché esperto di intelligence Aldo Giannuli cerca di dare una risposta a tutte queste domande, cercando, pur nei limiti della complessità della materia, di fare un po' di chiarezza, su ISIS, guerra e strategie.
Perché stiamo perdendo la guerra con l'Isis?Dobbiamo chiarire quattro parole: «siamo», «guerra», «perdere» e «ISIS».«Siamo»: prima persona plurale; ma qual è il soggetto reggente della frase? Include chiaramente l'Occidente. Certo, gli occidentali, a causa delle sciagurate decisioni die propri governanti, questa situazione sono andati a cercarsela: tre guerre, una più insensata dell'altra [..]Ma quel noi include anche i sostenitori della «Primavera araba» del 2011- 2012, chie chiedeva libertà individuali e collettive, democrazia, stato di diritto, liberazione della donna.[..]Include anche gli immigrati islamici in Europa, la cui condizione di vita peggiorerebbe bruscamente se vincesse il califfato.[..]La seconda parola da spiegare è «guerra»: già, ma che guerra è questa che nessuno ha dichiarato e che non ha linee di fuoco, regole e confini? Se per «guerra» si intende uno scontro tra eserciti regolari, con truppe schierate, carri armati, aerei ecc.. , ciò che sta accadendo è solo in piccolissima parte corrispondente ad un simile scenario.[..]La terza parola è «perdere»: vuol dire che stiamo per essere invasi da orde di saraceni con le scmimitarre sguainate?[..]La partita in gioco è un'altra: la nascita di un super stato islamico a carattere tecnocratico e jihadista in grado di mutare radicalmente l'ordine internazionale, con conseguenze catastrofiche per la democrazia, per la pace, per l'eguaglianza.E veniamo al termine «ISIS»: in realtà sarebbe stato più corretto scrivere «jihad», di cui «ISIS» è solo una delle espressioni, quella attualmente più conosciuta. In effetti il Califfato potrebbe essere invaso e distrutto, e non per questo lo scontro finirebbe.

Obiettivo di questo saggio è raccontare la natura di questa (non nuova) minaccia, la guerra santa dei fondamentalisti islamici, che è tale non solo per noi europei ma per tutti gli equilibri nel mondo, perché a rischio non è solo la nostra libertà e i nostri valori, ma anche quelli dei paesi nel ME (Medio Oriente).
Siamo in guerra su due fronti, quello interno contro il terrorismo che ha dimostrato di poterci colpire secondo due strategie: attentati mirati e ben preparati a obiettivi precisi e attentati a sciame, su più obiettivi, da parte di cellule già presenti nel paese.
E poi c'è la guerra di terra, combattuta in Iraq, da parte di unità militari ben armate e ben motivate, ma di una consistenza molto ridotta (sebbene non esistano stime precise).
Chiarito sul significato della parola guerra, rimane da chiarire due punti importanti: che errori abbiamo compiuto fino ad oggi e che strategie adottare se vogliamo vincere la battaglia.

L'errore del pregiudizio.
Che è quello che finora è stato il combustibile per tutte le nostre decisioni.

Noi europei pensiamo e guardiamo il resto del mondo solo con gli occhi da europei: pensiamo che al di là del Mediterraneo ci siano popolazioni assimilabili, con la stessa lingua, la stessa religione (più o meno), magari anche ignoranti e primitivi.
Proprio nel film dedicato a questo personaggio, c'è un dialogo che, per quanto in modo romanzato, esprime abbastanza bene lo stato delle cose: Lawrence chiede al capo di una potente tribù di predoni di unirsi alla rivolta degli arabi, e questi gli risponde: «Gli arabi? Conosco gli Awetat, i Walla, gli Abbas, so perfino che esistono gli Airit, ma gli arabi che tribù sono?»”. [dal film Lawrence D'Arabia]

Non è così e Giannuli lo racconta bene in uno dei capitoli del libro: l'Islam è diviso in tante correnti, pure in lotta tra loro (sunniti contro sciiti): nel passato noi europei abbiamo giocato a fare i demiurghi creando nazioni che erano tali solo sulla carta, come fecero Francia e Inghilterra al crollo dell'Impero Ottomano. Oppure in Iraq dove, rovesciato Saddam, si è lasciato il potere nelle mani degli sciiti.

Non abbiamo fatto i conti col nostro passato coloniale e abbiamo pensato che il mondo arabo le avesse dimenticate: abbiamo pure ripetuto lo stesso errore con le tre sciagurate guerre in ME (le due in IRAQ e quella in Afghanistan) pensando di esportare la nostra democrazia con la guerra, creando all'opposto terreno facile per il proselitismo anti occidente, dove gli eserciti erano visti come nuovi crociati che calpestavano i terreni sacri.
Altro errore è stato dividere il mondo in un noi contro loro: ci attaccano, ci uccidono, scontro di civiltà, non esiste islam moderato …
La jihad uccide anche musulmani, per cui noi occidentali non siamo disposti a spendere troppe lacrime.
Niente lacrime, pena l'essere chiamati buonisti, per le immagini dei profughi siriani abbandonati alle nostre frontiere, di fronte alle barriere sollevate per tenerli fuori.
Oppure relegati nei quartieri ghetto, le banlieu a Parigi o i quartieri come Molenbeek a Bruxelles (tra l'altro a due passi dalla sede del Parlamento europeo).

Pensavamo che la morte di Bin Laden (in un compound ad Abbotabad, in Pakistan, nostro paese alleato) avesse messo la parola fine al terrorismo islamico, alla jihad.
Poi sono arrivati gli attacchi (dopo l'11 settembre 2001, che pure qualcosa avrebbe dovuto insegnarci) qui in Europa, a Parigi alla sede di Charlie Hebdo, poi in Tunisia (dove sono stati colpiti dei turisti) e ancora in Francia a Parigi e poi a Bruxelles.
E la paura e lo sdegno, che non sono arrivati dopo analoghi attentati di altre cellule in Nigeria, in Turchia, in Libano e in Iraq, ha fatto il resto...
Siamo in guerra.
Stiamo perdendo.
Non avendo risolto il problema alla radice, ci troviamo ora con un nemico con una buona base sociale (per quanto detto prima, l'emarginazione dei profughi, le banlieu, i morti per gli attentati considerati in modo diverso) e con un disegno ben chiaro in mente, a differenza di noi europei che nemmeno sappiamo cosa vogliono.
Già, ma quali sono gli obiettivi del Califfo?
Torniamo alla domanda centrale di questo libro: quali sono i piani dell’Isis nel breve e nel lungo periodo?E’ molto difficile pensare che l’Isis pensi alla fondazione del super stato islamico come aggregazione intorno a sé, cioè assimilando brani di territorio via via strappati agli avversari, sino ad ingoiare Siria, Iraq, Libano, Giordania e, magari, stati minori della penisola arabica e, infine, Arabia Saudita, Quatar eccetera. Ci sono troppi ostacoli ancora su questa strada: le classi dirigenti nazionali arabe, per quanto divise e litigiose, difficilmente lo permetterebbero e le più forti di esse sarebbero in grado di battere anche ciascuna da sola l’esercito del Califfo. Poi anche i vicini (Iran e Turchia) non è probabile che restino inerti a vedere la ascesa della super potenza arabo-sunnita. Infine, c’è sempre la possibilità di un intervento occidentale (magari insieme alla Russia) se Daesh dovesse diventare troppo preoccupante. Un processo paragonabile all’espansione del Regno di Sardegna non appare realistico, almeno a breve termine: l’Isis non ha nessuna Francia disposta a combattere a suo fianco e nessuna Inghilterra disposta a proteggere il suo “sbarco a Marsala” ed ha nemici molto più numerosi. Dunque, non è una strategia del ”carciofo” quella a cui stanno pensando. Certamente, sin quando gli sarà possibile mantenere il suo stato sovrano e, magari ingrandirlo con questo o quel territorio, lo farà, ma la carta principale della sua strategia è, piuttosto, un’altra: destabilizzare tutto il più possibile, per poi ridefinire i confini e rapporti di forza nel Medio Oriente, giungendo a quel momento con il migliore rapporto di forze possibile. Insomma: destabilizzare per stabilizzare, una cosa già sentita.Se poi l’esito dovesse essere un grande stato che includa quello che c’è fra Suez e l’Eufrate, o solo una porzione o magari quello che alcuni già chiamano il “Sunnistan” (cioè la sommatoria dei territori sunniti di Iraq, Siria, Libano e Giordania privati dei territori di sciiti, alawuiti e curdi) tutto questo si vedrà e dipenderà dai rapporti di forza con cui il “Califfo” dovesse giungere al momento. Dopo si discuterebbe il da farsi in prospettiva”.

Che fare allora, per vincere la guerra?

Se ha un pregio Aldo Giannnuli, è quello della chiarezza: ci sono strategie destinate a peggiorare la situazione
  • creare una nuova coalizione occidentale per andare in guerra, sul campo, contro l'Isis
  • continuare a considerare il mondo islamico con un unicum, senza differenziare tra moderati e progressisti, conservatori e il mondo della jihad (tre mondo da tenere distinti)
  • confondere il piano religioso col piano politico: la jihad è un movimento politico che usa l'Islam come pretesto, per un suo disegno egemone in ME.

Quella contro ISIS è una guerra asimmetrica, contro un nemico ben motivato, con una struttura militare mobile, capace di nascondersi sul terreno quando serve (e questo la dice lunga sulla poca utilità dei bombardamenti) ma capace di usare bene l'arma psicologica con cui mettere in difficoltà i suoi nemici, sia nel mondo arabo che in Europa.
L'arma del terrore, per spingere i paesi ad una guerra sul campo che sarebbe lunga e logorante.
L'arma del proselitismo contro i crociati invasori.
Da quello che siamo andati dicendo sin qui si capisce che la maggiore abilità Al Baghdadi e i suoi uomini (ottimi allievi di Al Zarkawi) la hanno dimostrata nell’infilarsi nelle pieghe dell’inestricabile nodo mediorientale, giocando un attore contro l’altro, approfittando delle indecisioni americane, della contemporanea crisi ucraina, dell’inesistenza politica della Ue, utilizzando gli interessati e momentanei appoggi dal mondo sunnita, pur coscienti della loro strumentalità. E’ uno degli aspetti della grande duttilità tattica dell’Isis che, non a caso, abbiamo definito un soggetto anfibio, capace di metter piede sulla terra ferma del potere sovrano, ma di tornare, in ogni momento, ad inabissarsi nelle acque della clandestinità, e del quale abbiamo sottolineato le capacità di rapido adattamento alle mutevoli condizioni del combattimento. Una tattica spesso spregiudicata, come quando Al Zarkawi decise di attaccare gli sciiti, usando il secolare odio che li divide dai sunniti, per trasformare quella che rischiava di diventare una guerra nazionale (ed il principio nazionale è l’aspetto più combattuto dagli jihadisti sunniti) in guerra settaria e, perciò stesso, transnazionale.
E già in questo scorgiamo alcuni elementi che ci dicono della maestria con la quale l’Isis gioca sul piano della guerra psicologica: in tutto quello che abbiamo scritto, dalla scenografia delle esecuzioni, curata sin nei minimi particolari, al tempismo delle operazioni, all’uso dei simboli, gli uomini di Al Baghdadi hanno mostrato di padroneggiare le tecniche della manipolazione psicologica, come se avessero studiato a lungo le opere di Gustave Le Bon, di Serghej Ciacotin, oltre, ovviamente, che di Sigmund Freud.

L’Isis ha un grande vantaggio su chi lo combatte: è quello che ha capito meglio di tutti la guerra asimmetrica ed il suo cuore psicologico: "Combattere sul piano convenzionale l’Isis sarebbe come fare lotta greco romana con un maestro judoka coperto di lubrificante."

Piuttosto che a mandare truppe sul campo, noi europei dovremmo una volta per tutto risolvere l'ipocrisia dei nostri alleati, come Turchia (la cui frontiera è molto permeabile al petrolio e ai foreign fighters) Arabia Saudita e Qatar, sostenitori in modo consapevole o meno di Isis.
O anche il Pakistan, paese che ospitava (e forse per lungo tempo) ha protetto il latitante numero uno, Bin Laden: Giannuli racconta che tra le principali fonti di guadagno non c'è solo il petrolio, ma ci sono dei giochi finanziari che coinvolgono le petromonarchie della penisola arabica.

La strategia da mettere in atto qui, nei nostri paesi.
Fino ad oggi la risposta politica dei paesi europei è stata disomogenea e basata sull'ondata emotiva nata dagli attentati.
Strette contro le libertà individuali, riforme costituzionali minacciate e poi ritirate, blocchi alle frontiere, blocchi anche nei confronti dei profughi (persone che hanno attraversato migliaia di km per scappare dalle macerie), espulsioni facili.
Se volevamo attirarci altro odio ci siamo riusciti: chiediamo ai giudici di non applicare la Costituzione ma di mettersi l'elmetto. E ai giornalisti lo stesso.

Eppure basterebbero pochi gesti per togliere l'alibi ai reclutatori di Isis: per esempio le moschee, avere luoghi di culto aperti e ben noti è meglio di luoghi di preghiera clandestini con predicatori improvvisati.
Meglio i quartieri ghetti, dove la polizia non si arrischia ad entrare, o quartieri dove gli immigrati di fede islamica sono ben integrati?
Obama non è riuscito a chiudere la vergogna di Guantanamo, così oggi nelle loro esecuzioni i registi dell'Isis fanno vestire le vittime con tute arancioni, che richiamano per bene le tristi prigioni americane. Loro, la psicologia, la sanno usare.
Infine il ruolo dell'intelligence, fin qui mancato: è mancato uno scambio di informazioni a livello europeo, è mancato uno screening delle persone transitate da e verso i paesi in guerra.
Bisognerebbe seguire i flussi di denaro (dei sospettati), monitorare il traffico dati dei siti che inneggiano alla jihad, creare dei siti civetta che confondano le acque.
Anziché puntare alle espulsioni facili, per calmare il popolino, andrebbero tenuti d'occhio, sapere chi incontrano, da chi ricevono aiuti, quali i contatti della loro struttura.

La realtà è che viviamo in un'epoca di estrema fragilità, costretti a prendere decisioni in fretta e con poche informazioni, sotto la paura dell'immigrazione da una parte e la crescita dei gruppi xenofobi dall'altra.

Tirando le fila
Riassumendo, la nostra indagine ci ha portato a queste conclusioni: c'è in atto un conflitto pluridimensionale, che oppone quanti mirano alla costruzione di una superpotenza imperialistica a carattere tecnocratico, di ispirazione islamista, tanto alle potenze occidentali quanto alle classi dirigenti nazionali islamiche e in particolare arabe. Questo disegno trova consenso in una base sociale prevalentemente di ceto medio .

Il vero fine del Califfo non è conquistare Roma, dunque, nessuna invasione ci aspetta. Ma piuttosto il fine è destabilizzare (socialmente, economicamente, militarmente) i paesi del ME per stabilizzarli in senso autoritario e imperialista, e nel frattempo creare delle tensioni sociali col rischio di arrivare a delle rivolte, nel cuore dell'Europa.
In questo libro Aldo Giannuli indica il necessario cambio di rotta di una lotta che interessa tutti, dall’uomo comune al decisore politico; una lotta in cui, se oggi è troppo presto, domani sarà troppo tardi.

Altri post sul libro sul libro:
- Isis e Al Qaeda a confronto
- Le “carte” dell’Isis: la strategia della “Fitna” e l’operazione “Daquib”

Il book trailer:


L’indice del libro:

1. Cosa vogliono gli jihadisti?
2. Gli errori storici dell’Occidente
3. Lo scenario attuale
4. L’ISIS e il Califfato
5. Gli errori dell’intelligence occidentale
6. Le fragilità dell’Occidente
Conclusioni. Tirando le fila

La scheda del libro sul sito dell'autore Ponte alle Grazie.
Il blog dell'autore e un capitolo del libro, qui invece l'indice

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