«E tua moglie?»
«Sempre uguale.»
G. Simenon, I fantasmi del cappellaio
Lunedì 12 marzo 17.50
Chiesa della Santissima Trinità
Il rumore dei passi e il fruscio della veste producevano un’eco soffocata. Quasi un brusio che riverberava dal colonnato fino in fondo, verso l’abside. Vicino a uno degli inginocchiatoi accantoal confessionale una donna pregava.
«… cognovimus, per passionem eius et crucem, ad resurrectionisgloriam perducamur. Per eundem Christum Dominumnostrum. Amen.»
Don Costantino non le badò, era di fretta, sfilò a passo svelto nella penombra, fece un inchino davanti all’altare e sparì dietro al coro.
Nella chiesa tornò un silenzio immobile, appena velato dall’eco dell’altissima volta. Nell’aria stagnava il sentore di frescura umida, di incenso, soltanto un accenno degli odori della mensa nell’edificio confinante. Del resto, a quell’ora cominciava la coda di disgraziati in cerca di un pasto caldo, e i fornelli della cucina giravano al massimo.La donna strascicò i piedi fino alla cappelletta di San Giovanni Battista, accese una candela, sistemò il velo e si raccolse.
«Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum,adveniat regnum tuum.»
Sono sempre contento quando mi capita
di incontrare nuovi scrittori, in special modo nuovi giallisti, come
successo ora con Carlo De Filippis, padre del commissario Vivacqua,
siciliano trapiantato al nord, prima a Bergamo poi a Torino.
Come il più celebre commissario
Santamaria, nato dalla fantasia della coppia Fruttero e Lucentino,
che ha raccontato in modo lucido della Torino che cambiava a metà
anni settanta, con la borghesia torinese con la puzza sotto il naso,
che si scannava per una parola inglese pronunciata male, ma che non
si faceva scrupoli di lottizzare i loro terreni per costruire le case
destinate per i terroni dal sud..
Anche il commissario Salvatore
Vivacqua, siciliano verace, in questo giallo dovrà investigare nel
mondo della ricca borghesia, scoprendo i loro altarini e i loro
segreti.
Come Montalbano, Vivacqua è un
siciliano verace, sebbene sia sposato con prole con una moglie che
forse è pure una santa, per quanto è disposta a sopportare i suoi
orari, i rischi del suo mestiere, il suo essere poco loquace nei
riguardi del lavoro di poliziotto.
Salvatore Vivacqua. Cinquant’anni, quasi cinquantuno. Nato a Palermo, secondo di cinque figli. Un cubo di un metro e settantacinque per novanta chili, non un filo di pancia. Laurea in giurisprudenza presa lavorando sulle volanti. Commissario di polizia. Capo della Omicidi. Medaglia al valore nel 1999 a Bergamo. Tre lettere di encomio del ministero. L’ orecchio sinistro tranciato a metà da una pistolettata. Cicatrice da arma da fuoco al torace. Ferite diverse da arma da taglio. Costole del lato sinistro fratturate a causa di una pallottola di magnum contro il giubbotto antiproiettile: vivo perché non toccava a lui. Soprannome Niky Lauda, o Siciliano di merda, o Scassacazzi; per pochissimi Totò. Sposato da ventidue anni con Assunta Bellomo, psicologa dell’età evolutiva part time e casalinga. Padre di Fabrizio e Grazia. Capobranco del setterdi casa: Tommy. Nessun hobby. Il questore, dottor Vincenzo Renier, detto il Doge, parlando con il Prefetto aveva descritto Vivacqua dicendo: un uomo atipico che vede le cose per quelle che sono, anziché come dovrebbero essere. E questa era forse la miglior definizione.
Poliziotto atipico, abituato a girare
senza pistola, nonostante le cicatrici sulla pelle e abituato pure a
prendere le sue decisioni senza passare per le vie gerarchiche,
ovvero per il “doge”, il Questore veneziano che, come tutti gli
alti dirigenti della Polizia, si deve preoccupare più delle rogne e
dei piedi che si vanno a pestare nelle inchieste.
In questa inchiesta i piedi che
Vivacqua e i suoi uomini andranno a pestare porteranno diritto alla
curia torinese: il primo morto è appunto un prete anziano, don
Corrado, ucciso dentro la chiesa della Santissima Trinità all'uscita
del confessionale.
Picchiato a sangue da una persona che è
rimasto dentro la chiesa ad osservarlo e che non lo voleva solo
spaventare, voleva proprio ucciderlo.
«Cosa mi sai dire di questo poveraccio?»
«Come prima impressione direi che l'aggressore non voleva dargli una lezione. Perché, se proprio ti è rimasto qualcosa sullo stomaco, un credito da riscuotere supponiamo, gli dai una botta, una sprangata, e te ne vai, mi segui? Questa sembra più una vendetta. Come dite voi vendetta?»
«Dalle mie parti i vecchi dicono: 'a scurdata.»
«Sarebbe?»
«Che una vendetta si serve fredda, quando il debitore non se ne ricorda più, 'a scurdata, appunto: quando l'altro se n'è dimenticato.»
Quali piste seguire? Don Corrado era
riconosciuto da tutti come un prete integerrimo, non aveva nemici. O
forse no: aveva allontanato dalla struttura, che ospitava anche un
refettorio e un dormitorio che accoglie anche immigrati, proprio due
di loro, per un litigio.
Un albanese e un senegalese.
Ma è una pista difficile da seguire,
perché i suoi uomini, che hanno imparato da Vivacqua a preoccuparsi
poco delle procedure, finiscono in un brutto agguato, in un locale
dove dovevano seguire proprio questo albanese. Agguato in cui due di
loro finiscono feriti e pure sotto inchiesta da parte della
commissione interna.
Ma pure la curia e il vescovo si
dimostrano poco inclini a collaborare, tanto da contattare il
prefetto (che non vede di buon occhio la squadra omicidi e i suoi
uomini).
Il secondo omicidio riguarda una donna,
Jolanda Petrini, morta soffocata nel suo appartamento forse a
seguito di una rapina. Rapina che in realtà è solo una messinscena
dell'assassino: la Petrini, brillante musicista con la paura del
palco, era una donna che amava incontrare altri uomini, senza però
voler instaurare con nessuno di loro alcun vero rapporto.
« Piuttosto tu, con la faccenda Petrini?»
«Siamo che la signora Jolanda Petrini non l’ha ammazzata nessuno: è morta trattenendo il fiato.»
«Santandrea ti sparo. Poi dico come sono andate le cose e mi assolvono di sicuro.»
Se non è stata una rapina, cosa
potrebbe essere? Un gioco erotico finito male? E quale delle sue
amicizie potrebbe essere l'assassino.
Vivacqua è un investigatore non troppo
pacato, come Maigret, ma è uno sbirro razionale: sa che dietro ogni
delitto, dietro ogni assassino si devono cercare le molliche, le
tracce che l'assassino ha lasciato dietro.
“Un pazzo se è lucido non fa molliche. È l’assassino peggiore. O lo pigli subito perché in quanto fuori di testa sbaglia le mosse, oppure rischi di girare a vuoto per molto tempo, perché mangia e non fa molliche.
Ma una, magari piccola, c’è sempre. Si tratta di avere occhi buoni per trovarla.
Cu mancia fa muddiche! Per forza.Dove hai lasciato le molliche? In chiesa?”
L'importante, dunque, è saperle
vederle queste molliche: così, per non perdersi nulla, il
commissario è abituato a scrivere i suoi pensieri su dei “pizzini”
di carta, cercando di dare loro un senso.
Magari mettendoli in un ordine
apparentemente casuale. E vedere l'effetto che fa:
“Iniziò con Donna anziana che prega in latino e lo sistemò al centro della scrivania; proseguì con vittima morta vicino al confessionale e affiancò il ritaglio.Prima congettura ..”
Ma nonostante tutto, i pizzini non
riescono ad incastrarsi in uno schema che porta qualche spiraglio di
luce nell'indagine, né quella del prete, che forse potrebbe
riguardare una questione di spaccio, e nemmeno quella della bella
musicista dove in casa, addirittura, viene trovata l'impronta di un
morto.
Come è possibile?
Devono muoversi con cautela, Vivacqua e
il suo vice, il “giraffone” Santandrea: senza i due ispettori
feriti nell'agguato, con l'indagine interna portata avanti (anche per
una questione personale) dal prefetto e con la stampa. Lo sguardo
della moglie che sembra rimproverargli quel lavoro così pericoloso
“Tutti prendevano esempio da lui, e adesso era suo dovere toglierli dai guai. A se stesso non poteva mentire: le lamentele di Santandrea, la paure di Gargiulo, l'ansia di Assunta che sobbalzava ogni volta che una telefonata piombava in casa senza una ragione apparente, non erano isterismo. Ma sarebbe riuscito a cambiare se stesso?
Poi c'erano i due casi aperti.
«Cacciatori ca assicuta a ddu cunigghia unu ci scappa e l’autru n’u pigghia!»”
Ma
il cacciatore riuscirà, seguendo le molliche e le sue intuizioni, a
trovare il filo dei due delitti, che forse dietro hanno qualcosa in
comune, come verrà svelato nel finale: una storia di ricatti, di
avidità e di crudeltà, che lega assieme un parroco, una donna bella
e indipendente e una donna anziana, che rivive nei suoi ricordi le
bambine con cui passava le estati tanti anni prima.
Tutto
troverà una sua spiegazione.
Anche
quella frase all'inizio, un omaggio a Simenon e al romanzo “Ifantasmi del cappellaio”. Uno scrittore che aveva saputo raccontare bene quanto fosse sottile la linea che separa la pazzia dalla normalità ..
La scheda del libro sul sito di Giunti
editore
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