«S’arrisbigliò malamente: i linzòla, nel sudatizzo del sonno agitato per via del chilo e mezzo di sarde a beccafico che la sera avanti si era sbafàto, gli si erano strettamente arravugliate torno torno il corpo, gli parse d’essere addiventato una mummia. Si susì, andò in cucina, raprì il frigorifero, si scolò mezza bottiglia d’acqua aggilàta. Mentre beveva, taliò fòra dalla finestra spalancata. La luce dell’alba prometteva giornata bona, il mare una tavola, il cielo chiaro senza nuvole. Montalbano, soggetto com’era al tempo che faceva, si sentì rassicurato circa l’umore che avrebbe avuto nelle ore a venire. Era ancora troppo presto, si ricurcò, si predispose ad altre due ore di dormitina tirandosi il linzòlo sopra la testa. Pensò, come sempre faceva prima d’addormentarsi, a Livia nel suo letto di Boccadasse, Genova: era una prisenza propiziatrice a ogni viaggio, lungo o breve che fosse, in «the country sleep», come faceva una poesia di Dylan Thomas che gli era piaciuta assà...» .
Rileggere Montalbano è come ri
incontrare un caro amico: uno di quelli con cui ti capisci con uno
sguardo, per cui non c'è bisogno di dirsi troppe parole.
Il ladro di merendine è uno dei primi
Camilleri, dopo La forma dell'acqua e Il cane di
terracotta , quando ancora Catarella era messo ai telefoni per
non fare danno, il vice Augello uno che voleva fargli le scarpe.
Come tutti i romanzi con Montalbano,
siamo a Vigata, il centro più inventato della Sicilia più
autentica, quando un tunisino imbarcato su un peschereccio di Mazara
viene ucciso da una motovedetta al largo.
Nella mattina seguente, mentre
Montalbano soffre il nervoso per il malo tempo e perché al porto, a
seguire il caso, è andato il vice, Catarella gli comunica che c'è
un uomo in un ascensore.
Scansato il portapenne e la morte
prematura di Catarella, si scopre che quell'uomo è stato ucciso
dentro l'ascensore.
Due morti: l'ennesimo pescatore ucciso
in quella guerra coi tunisini nelle acque del golfo di Sicilia e un
anziano signore ucciso da una coltellata alla schiena.
Del primo se ne occuperà la
capitaneria di porto di Mazara (con gran piacere del commissario,
nella sua guerra con Augello), del secondo se ne occuperà lui.
Saverio Lapecora, commerciante in
pensione che, da pochi anni aveva deciso di riaprire l'attività:
ucciso con una coltellata alla schiena in ascensore e scoperto dalla
guardia giurata Cosentino, dopo che il medesimo cadavere aveva fatto
su è giù per i piani.
Un delitto senza movente,
all'apparenza: persona perbene, nessun problema con la legge, chi
poteva volerlo morto?
La sua amante, la risposta secca della
vedova, alla fine di un'interrogazione con Montalbano che sembra una
partita di ping pong
«Gli spararono?»
«No.»
«Lo strangolarono?»
«No.»
«E come fecero ad ammazzarlo in ascensore?»
«Coltello.»
«Di cucina?»
«Probabile.»
L'amante si chiama Karima, tunisina
(pure lei), che faceva finta di fare le pulizie nello scagno
(l'ufficio) di Lapecora.
I due delitti proseguiranno separati
per un bel pezzo della storia, che passerà per la scoperta di una
serie di lettere anonime che il morto si sarebbe mandato, per quella
società di import export che non faceva nessuna transazione
d'affari, per la scoperta che oltre a Karima, lo scagno era
frequentato da un finto nipote di Lapecora che non era nipote ma un
tipo molto misterioso.
Che fine ha fatto Karima? Come tanti
connazionali, vive nella zona antica di Vigata, Villaseta, dove
incontra una sua vicina, Aisha, che oltre a ribattezzarlo “zio”,
gli racconta del figlio della donna, Francois, pure lui sparito, di
un libretto al portatore da 500ml e delle visite di quel misterioso
nipote che non era nipote, con cui ogni tanto andava a letto.
«Commissario, è una cosa da ridere» fece la guardia di prima.
«Pare che da aieri matina c'è un picciliddro che assale gli altri picciliddri che vanno a scuola, gil ruba il mangiare e se ne scappa. Magari stamatina fece l'istisso»
Casualmente Montalbano si imbatte pure
nel caso del “ladro di merendine”, un bambino che deruba gli
alunni della scuola elementare.
Uomo di intuizioni fulminanti, il
commissario comprende che quel ladro non può essere che il piccolo
Francois, che cattura dopo una notte di appostamenti nella casa a
Villaseta, grazie all'aiuto della zita, Livia.
Sarà Francois a collegare assieme le
due storie e ad aiutare Montalbano a mettere assieme tutte le tessere
del puzzle. Un puzzle dove le tessere si possono incastrare in più
modi diversi.
Gelosia e avarizia, traffici sporchi in
cui sono immischiati pure i nostri servizi, che non si fermano di
fronte a niente pur di coprire i loro giochetti: in questo Moltalbano
troviamo dentro tutte le intuizioni da sbirro, l'istinto della caccia
di cui parla Hammett in un so libro.
C'è anche spazio per raccontare del
suo rapporto con Livia e anche del suo rapporto col padre, rapporto
difficile dopo la morte della madre, persa da Montalbano che era
ancora piccolo.
Come Francois:
Il picciliddro non piangeva, gli occhi erano fermi, taliavano al di là da Montalbano. “Je veux maman” disse. Vide arrivare Livia di corsa, si era infilata una sua camicia, la fermò con un gesto, le fece capire di tornare a casa. Livia obbedì. Il commissario pigliò il picciliddro per mano e principiarono a caminare a lento a lento. Per un quanto d'ora non si dissero una parola. Arrivati a una barca tirata a sicco, Montalbano s'assitò sulla rena, Francois gli si mise allato e il commissario gli passò un braccio attorno alle spalle.
“Iu persi a me matri ch'era macari cchiù nicu di tia” esordì. E iniziarono a parlare, il commissario in siciliano e Francois in arabo, capendosi perfettamente. Gli confidò cose che mai aveva detto a nessuno, manco a Livia.
Il pianto sconsolato di certe notti, con la testa sotto il cuscino perché suo padre non lo sentisse; la disperazione mattutina quando sapeva che non c'era sua madre in cucina a preparargli la colazione o, qualche anno dopo, la merendina per la scuola.
Quella storia inizia a “fetiri”
a puzzare, per la presenza dei servizi deviati (“che non
esistono. Sono sempre loro, per natura e costituzione, ad essere
deviati”):
«Se lo metta in culo» fece piano Montalbano.
«Non ho capito».
«Ripeto: il nostro Stato comune, se lo metta in culo. Io e lei abbiamo concezioni diametralmente opposte su cosa significhi essere servitori dello Stato, praticamente serviamo due stati diversi».
L'inchiesta diventa così rifugio per
il commissario per scappare dalle paure e dalle responsabilità: di
novello padre, della morte, di un trasferimento che lo allontanerebbe
da Vigata e dal suo mondo.
“Il suo è stato un modo finissimo e intelligente di continuare a fare il suo non piacevole mestiere scappando però dalla realtà di tutti i giorni. Evidentemente questa realtà quotidiana a un certo momento le pesa troppo. E lei se ne scappa”
La
scheda del libro sul sito di Sellerio.
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