02 novembre 2022

Pasolini. Il corpo della città di Gianni Biondillo

 


Oh Marx – tutto è oro – oh Freud – tutto è amore – oh Proust – tutto è memoria –
PIER PAOLO PASOLINI
Avevo nove anni quando sentii nominare per la prima volta Pier Paolo Pasolini. Ne ho un ricordo a modo suo preciso (io che ricordo sempre così poco della mia infanzia). Mi rivedo bambino, durante un intervallo a scuola: un compagno di classe davanti a me che ne prende in giro un altro, affibbiandogli l’epiteto di «pierpaolo», come fosse una parolaccia indicibile.
 
Ricordo i miei compagni che ridevano, e io che mi accodavo, senza capire che cosa ci fosse di così divertente. Vivevo in una di quelle periferie anomiche che negli anni ho raccontato più e più volte, scenario naturale dei miei romanzi e punto di partenza inevitabile dei miei ragionamenti sulla città, la metropoli, il territorio.

A cento anni dalla nascita del poeta, regista, pittore, scrittore PierPaolo Pasolini e a 47 dalla tragica fine all’Idroscalo di Ostia, la casa editrice Guanda ripubblica un vecchio saggio dello scrittore (e architetto) Gianni Biondillo uscito per la prima volta nel 2001: il figlio di uno di quei ragazzi di vita (come racconta l’autore stesso nella prefazione) che racconta lo scrittore che quei ragazzi aveva tanto amato da renderli protagonisti dei suoi romanzi. Un bambino cresciuto nella periferia della grande città del nord che per la prima volta scopre in quel “pierpaolo” un insulto su cui ridacchiare, per insultare quello scrittore omosessuale, ucciso nel corso di una lite con un minorenne. Almeno questa la versione che la giustizia, una parte del mondo dell’informazione e della politica ha consegnato al paese, andando così ad infangare e rovinare l’immagine di un intellettuale scomodo.
Non è un paradosso che sia un architetto, una persona abituata ad osservare i paesaggi urbani, a scrivere un saggio su Pasolini perché, diversamente da altri intellettuali, quest’ultimo aveva un modo di “guardare la realtà non dall’iperuranio delle mappe urbanistiche ma da «quota zero», dal marciapiede, dalla strada.”

Guardare la realtà dalle periferie delle città, dalle baracche dove vivono gli esclusi, il sottoproletariato (come veniva chiamato una volta) ancora non contaminato da quella “cultura borghese” che, negli anni sessanta – settanta, stava trasformando in modo irreversibile il paese.
Lo sguardo dell’architetto Biondillo diventa una chiave per raccontare Pasolini e la sua produzione letteraria, dagli anni della giovinezza in Friuli, a Casarsa, il paese della madre dove andò a rifugiarsi negli anni della guerra, fino al trasferimento a Roma, col suo pellegrinaggio da quartiere a quartiere al crescere della sua fama: “Io scelsi di parlare di un Pasolini poeta della città, lettore della metropoli, convinto che lo spazio urbano non fosse un argomento periferico della sua produzione artistica”.

Ecco, questo è il punto di partenza di questo saggio: raccontare Pasolini attraverso il suo sguardo sulla città, sulle case, sulla trasformazione (o distruzione) del paesaggio. Sulla perdita di una cultura, una a-cultura come la chiamava Pasolini, perché pre-esistente alla cultura della classe borghese (intesa come quella imposta dalla società dei consumi, dalla televisione medium di massa che poco amava, dalla classe dirigente democristiana).

Un saggio che non ha la pretesa di essere una antologia completa del poeta-scrittore: non si parla del mistero della sua morte (“di misterioso in un poeta dovrebbe esserci solo la comprensione della sua poesia” – raccontava in una puntata di BluNotte lo scrittore bolognese Carlo Lucarelli), nemmeno della persecuzione giudiziaria che subì per i suoi libri e dei suoi film, scandalosi perché raccontavano il vero, quei ragazzi e quel mondo che il modello di sviluppo in voga non voleva vedere.

[...] gli intellettuali italiani non si son mai posti il problema della «cultura» popolare, e non sanno nemmeno cos’è. Credono che il popolo non abbia cultura perché non ha cultura borghese;
Era il Pasolini che si scagliava contro questo modello di sviluppo, basato su consumismo, sull’omologazione del linguaggio, che aveva causato lo spopolamento dal sud con l’emigrazione, con lo spostamento delle persone dai borghi della sua Roma verso quelle periferie grigie, costruite dai palazzinari, tutte uguali, disumane, alienanti.
Col passaggio al cinema Pasolini riesce ad affinare meglio il suo linguaggio, scoprendo in quel mezzo di comunicazione una forma più immediata, più realistica per lasciare il suo messaggio.

È il messaggio dei film come “Accattone”, dove il personaggio si muove tra le periferie di Roma, e poi nel film “Mamma Roma” con l’imborghesimento della madre (Anna Magnani) che dalla campagna verso le case del quartiere Cecafumo, “la tanta agognata casa nel quartiere di Cecafumo, simbolo fisico, ma illusorio, di una mutazione sociale”, con quell’immagine onirica dei ruderi romani sullo sfondo delle case dell’INA.
La periferia abbandonata, l’incuria del territorio e dello stato delle periferie, lo scempio del paesaggio italiano raccontato nel suo celebre documentario sulla città di Orte “e della speculazione edilizia che ne sta deturpando il puro profilo”. L’indifferenza della classe politica nei confronti dei “poveri”, costretti a vivere in moderni campo di concentramento dove si perdono le loro tradizioni: in una celebre intervista sul litorale di Ostia Pasolini puntava il dito contro “l’attuale regime democratico ha perpetrato quella omologazione, quella distruzione di varie realtà particolari che neanche il fascismo storico ha saputo ottenere”.

Da Roma al sud del mondo, Pasolini aveva visitato l’India, che aveva cercato di raccontare senza usare i paraocchi di occidentale, chiedendosi ancora una volta, in questo enorme paese pieno di contrasti come la sua amata Roma, se “per modernizzarsi bisogna occidentalizzarsi”.

Quest’uomo moderno, che parla con le stesse parole, che desidera le stesse cose, che vive nelle stesse case, è un uomo che fa paura al Pasolini intellettuale osservatore della sua società.
Se non possiamo salvare quei “figli del sottoproletariato”, almeno possiamo salvare il passato per poterlo tramandare al futuro. Il Pasolini di sinistra potrebbe essere considerato come un conservatore, reazionario, per le sue posizioni: ma se il moderno è lo scempio delle città, la fine di quella cultura contadina dentro cui trovava rifugio (gli anni di Casarsa della sua gioventù), “allora è meglio non costruire, meglio conservare ciò che il passato ci ha lasciato”.

Il saggio, breve ma intenso, si conclude con l’ultima opera che Pasolini ci ha lasciato, seppur incompleta e pubblicata dopo la sua morte: si tratta di Petrolio, un’opera letteraria “mostruosa” per la mole delle pagine, per l’idea dietro questa opera, raccontare questo paese e la sua classe dirigente così bigotta, chiusa, fintamente cattolica e questo paese “eternamente controriformistico divenuto una immensa, squallida borgata, un Agrigento di abusivismo”.

Fontàne d’àghe del mie pais
A no è àghe pi frescie che tal mè pais..

aveva cantato. Ora anche le lucciole sono scomparse. Ora non è che inquinamento, degrado urbano, non è che triste, anonima periferia, squallida borgata, uniforme agglomerato dove i ragazzetti del sottoproletariato, ancora dialettale, consumano rapidamente la loro vitalità, innocenza, grazia, la loro tragedia

(Dalla prefazione di Vincenzo Consolo alla prima edizione della prima edizione)

La scheda del libro sul sito di Guanda, le prime pagine del libro

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