28 marzo 2014

La febbre del gioco – Maurizio de Giovanni

Molte febbri però non si vedono.
Eppure non sono meno mortali. Io lo so bene. Li vedo, gli effetti delle altre febbri; l'amore, la fame. La fame di futuro, soprattutto, che troppo spesso il futuro finisce per seppellirlo. Una tra le febbri più strane è il gioco. Il gioco del lotto, per la precisione.
Non che si giochi solo a quello. Le bische clandestine prosperano, i salotti dei ricchi fervono di carte e di fumo, agli angoli delle strade, su banchetti improvvisati, piccoli malviventi spostano assi con destrezza, pronti a scappare al primo fischio che avverte dell'arrivo di una guardia. Ma l'abitudine che lega la speranza di futuro al sogno è quella che si unisce a un biglietto colorato sul quale sono scarabocchiati tre numeri; un messaggio in bottiglia che il naufrago affida alle onde prima di affogare.
E giocano, giocano.
Giocano le serve, che sperano di non essere più serve, di non dover più salire e scendere mille volte le scale, di non vedere più la pelle delle mani spaccarsi dal freddo, il caldo e l'acqua, con tutti i panni che sono costrette a maneggiare. Giocano le mogli per togliere i mariti dall'abbrutimento del lavoro, scambiandosi i numeri agli angoli delle strade, vicino alle botteghe acide dal fetore di tinture, piombo fuso, frutta marcia.
Giocano le sarte, gli occhi accecati dai mille punti infilati nelle candele consumate, succhiandosi le gocce di sangue dai polpastrelli. Giocano le capere, le sorridenti parrucchiere che girano con la borsa dei pettini e delle spazzole di casa in casa, sognando un tetto e un marito, e magari di farsi lavare i capelli, una volta.
Giocano gli operai, commentando gli eventi da cui trarre i numeri nelle officine, la pelle ustionata dal riverbero del metallo fuso, gli occhi rossi come braci, allucinati dal calore che li consuma.
[..]
Giocano anche, e talvolta inutilmente vincono , i signori dell'aristocrazia, per scherzo o per dimostrare di saper ben interpretare i sogni; in certi casi vengono divorati dalla febbre perfino loro, e distruggono i loro patrimoni.
E giocano gli stessi postieri, impiegati i proprietari dei banchi lotto. Perché non resistono alla tentazione di governare la materia di cui vivono, vittime del contagio che hanno essi stessi interesse a propagare.
Tutti giocano, e alla lunga nessuno vince. Tutti sperano, e tutti muoiono disperati. Il banco vince sempre. Vince lo Stato e vincono gli strozzini, che prosperano a decine e centinaia, succhiando il sangue di questa massa di cuori, sospesa tra un presente soffocato e un futuro inesistente.
Una delle cose che mi fanno più paura, il gioco. Un demone che striscia e ammalia, una sirena che canta nella nebbia. Per il gioco ho visto scorrere sangue da gole tagliate, colare cervelli da teste spaccate, e volti bellissimi irrimediabilmente sfregiati.
Dal racconto “La febbre” di Maurizio de Giovanni, nella raccolta “Giochi criminali” Einaudi editore.
La febbre è quella del gioco (del lotto, in questo racconto): una febbre che consuma e che uccide pure.

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