Ecco un libro che sarebbe piaciuto a
Sciascia perché ricalca molto dello stile del maestro di
Racalmuto: un caso di sparizione di un agente di pubblica sicurezza
che finisce sulla scrivania di un commissario perbene, che rivela,
man mano che l'investigatore si addentra nel caso, una verità
scomoda, perché lega assieme mafia e politica.
Un'indagine che viene bloccata sia per
pressioni dai piani alti, sia con minacce e violenze.
Fino ad arrivare all'amaro epilogo
dove, appunto come nei romanzi di Sciascia, l'investigatore che ha
cercato con coraggio e anche un pizzico di incoscienza di andare
avanti per cercare verità e giustizia, viene allontanato.
In questo romanzo, la sicilianità
viene raccontata dagli occhi disincantati del protagonista, il
commissario Garbo, commissario
di polizia a Palermo, separato in modo consensuale dalla moglie (da
brevi accenni, si intuisce di religione ebraica).
Un popolo che si esprime più col non
detto che con quanto si dice. Ostile alla vista delle uniformi, di
qualunque colore, perché simbolo non di una giustizia a tutela dei
più deboli. Ma della difesa degli interessi del più forte. E anche
la mafia, che era una mafia rurale ma anche capace di fare impresa,
per le sue capacità di attaccarsi al potere. Che sia quello dei
Borbone, o anche quello del nuovo governo dei Savoia.
“L'ultima indagine del
commissario” è ambientata nella Palermo di inizio secolo, nel
maggio 1911: siamo alla fine della bella Epoque, la fine di un epoca
felice anche per Palermo, non più capitale del regno e su cui ora si
vedono i segni dei tempi che cambiano.
Da una parte lo sfarzo dei palazzi
legati ad una aristocrazia che fu, dall'altra la miseria della povera
gente, che misera era col vecchio governo e povera rimane ancora col
regno sabaudo.
Il cavaliere Garbo, una mattina
si ritrova sulla sua scrivania il fascicolo riguardante la scomparsa
dell'agente di pubblica sicurezza La Mantia, scomparso in una
notte a casa sua a Monreale, dove viveva recluso da giorni, dopo un
delicato incarico da infiltrato nel mondo della mafia.
"Il breve
curriculum del La Mantia, tre pagine appena, era fitto di richiami ad
indagini relative alla cosca mafiosa del monrealese: mafia di
campagna e tuttavia pronta ad impegnare i suoi ingenti guadagni -
frutto della rivendita dei feudi comperati ad un boccone da
aristocratici in disgrazia - nella costituzione di società anonime
di mutuo soccorso per l'emigrazione negli Stati Uniti d'America."
Il La Mantia era fuggito in America o
era stato ucciso per vendetta dalla mafia?
Perché nel suo fascicolo non si faceva
cenno a queste ipotesi?
Chi erano i due ufficiali della
Questura che si erano presentati, prima della scomparsa, a casa sua?
C'è un collegamento tra la scomparsa
dell'agente La Mantia e la morte (per un incidente, o forse
per omicidio fatto passare come tale) dell'agente Agnello, che
aveva fatto da guardia al procuratore Diotallevi, mentre
questi stava seguendo una indagine sulle società anonime, che andava
a toccare gli interessi della mafia e i suoi collegamenti con la
politica?
"I crimini più
odiosi si realizzano in silenzio tra un omicidio e un altro: le morti
violente segnano la soluzione di complesse ostilità sotterranee tra
chi comanda, i nuovi equilibri per il dominio dei commerci. Era
proprio nei tempi di quiete che occorreva occuparsi di quelle
ostilità e di quei commerci, se si voleva dare un senso al sangue
che di tanto in tanto colava sui marciapiedi".
Questi commerci riguardavano il fiume
di denaro che andava e veniva dall'Italia all'America, per i ricatti
e le estorsioni e dalla compravendita di terreni e immobili
sottratti con violenza, soldi che finanziavano la deportazione degli
abitanti di interi quartieri poveri verso le due Americhe.
La storia, vera non frutto di una
invenzione letteraria, è quella della ristrutturazione del centro,
con la distruzione delle tracce del passato di Palermo e la modifica
del tracciato di via Roma. Con la corruzione che ne derivò.
Corruzione cui non era estranea la
mafia:
"La mafia,
intanto, prosperava: aveva resistito ad ogni dominio, sempre
comperandosene un poco, evolvendo e pagando pegno ai tempi nuovi. Se
fosse tornato Ferdinando, la mafia sarebbe stata con Ferdinando, così
come ora stava col nuovo governo: il capo chino e un leccasapone
sotto lo scapolare."
Quanti di quei soldi, la corruzione, i
proventi delle società anonime, arrivavano a Roma? A uomini dello
stesso partito di governo, di Giolitti ("che un libro
aveva appena ribattezzato il ministro della malavita")?
Su questo scandalo, la speculazione
nata a seguito dei lavori pubblici per il tracciato di via Roma,
stava indagando il procuratore Diotallevi, che intendeva dopo
i primi arresti, alzare il tiro.
Passare dai semplici mafiosi, i
figuranti, ai primattori.
Diotallevi fu bloccato, da un vero (o
presunto come dissero poi per calunniarlo) attentato. Sventato dai
due agenti La Mantia e Agnello. Attentato che ebbe come conseguenza
il suo trasferimento all'Aquila.
"Eroi erano i rari
sopravvissuti a questa città, capaci come Ulisse di raggirare il
nemico, di andare in battaglia e di tornare a casa, sia pure al
prezzo di un temporaneo esilio[..]. I molti che cedevano, invece, per
vanità di cose terrene, e s'affiliavano ai potenti, o che restavano
sospesi in un purgatorio di incertezze, di paure, o che finivano
dimenticati e uccisi: costoro erano tutti egualmente sconfitti. I
peggiori, erano i pochi vincitori. Grassatori, ricattatori,
assassini".
L'indagine quasi in solitaria,
dell'onesto cavaliere Garbo, eroe malinconico di questa storia, si
arresta sulla soglia che porta, a partire dalle carte della vecchia
inchiesta di Diotallevi, verso un giro più alto d'affari e
interessi.
Interessi che legano potere e mafia,
usata dai potenti come agenzia del crimine.
Anche Garbo (come il professor Laurana,
come il capitano Bellodi ..) si dovrà rassegnare alla sconfitta per
la sua ultima inchiesta e alla giustizia di comodo cui approderà la
sua inchiesta: una giustizia che non è il giusto risarcimento per un
danno subito, ma bensì una giustizia ridotta ad una contrattazione
tra opposti interessi, come dentro un mercato
"Diede ad ognuno, persino a se
stesso, la verità che poteva essere tollerata e confidò che quella
ristretta misura l'avrebbe salvato. Eccolo - si disse, sdegnato
dalla sua stessa scelta, il cavalier Garbo -, quell'imprevedibile
comporsi d'interessi e non di ponderate decisioni che era
contrattazione, e non sanzione. La Giustizia, in altre parole."
Una storia del passato per raccontare
la Sicilia che era, ma anche la Sicilia di oggi.
Difficile non fare il parallelo con la
vicenda del fallito attentato all'Addaura, del 1989, destinato ad
uccidere il giudice Falcone e i procuratori svizzeri che erano suoi
ospiti.
Anche Falcone, che stava puntando sugli
appalti pubblici finiti ad aziende mafiose (e alla mafia che era
entrata in borsa) dovette lasciare la procura di Palermo per andare a
Roma dopo gli attacchi subiti, anche dall'interno della magistratura,
per le lettere del corvo, dopo l'attentato de l'Addaura. Anche per
Falcone si disse quella bomba, frutto di menti raffinatissime, se lo
era messa da solo.
Due angeli, che forse lavoravano per i
servizi, ebbero un ruolo nello sventare l'attentato: erano Emanuele
Piazza e Nino Agostino, uccisi dalla mafia, e forse non solo dalla
mafia.
Da quella parte dello stato che non si
vergogna di fare affari e ricorrere ai servizi della mafia.
La scheda del libro su Sellerio.
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