La vicenda dell'Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l'esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.
Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l'esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell'Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.
Chi se ne frega che a Taranto ci si ammali e si muoia pure, non importa. Come dicevano i Riva, "due tumori in più, una minchiata".
Che i Riva non abbiano rispettato nessuna prescrizione imposta dalla magistratura e dal governo.
Dei soldi all'estero, che non sono stati usati per mettere in sicurezza il territorio.
Il problema è l'esondazione del diritto penale. Cioè quando la magistratura si permette di entrare dentro il lavoro dei padroni delle ferriere perché riscontra dei reati.
Come se in Italia non ci fosse alternativa, non si possa fare un'industria pulita e rispettosa del lavoro e dell'ambiente.
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