L'intervista del professor Ponti a
Radio popolare mi ha dato lo spunto per questo post di fine anno, per
stilare una sorta di bilancio. Cosa è stato questo 2015? Secondo me
l'anno degli annunci e della memoria corta, che hanno contraddistinto
tutti gli eventi dell'anno: Expo, il terrorismo dei
fondamentalisti islamici, l'emergenza profughi e l'ultima emergenza
ambientale dovuta a questo lungo periodo di siccità.
Nell'intervista il professor Ponti era
molto critico nei confronti dei provvedimenti presi dal ministro
Galletti, a seguito degli incontri con gli amministratori. La
riduzione della velocità, la riduzione della temperatura, lo stop ai
camini a pellet.
Peccato che a far circolare le auto
sotto i 50 km ora queste inquinano di più. Non solo quei pochi
milioni per il trasporto pubblico non sono sufficienti, ma in questi
anni la percentuale di popolazione che usa il trasporto pubblico non
sia cambiata di molto.
È migliorata invece la qualità
dell'aria in questi anni, e questo grazie alle nuove tecnologie sui
motori e ai controlli più stringenti (Euro 1,2,3..).
Quello che stiamo vivendo è una
situazione eccezionale e rischiamo così di prendere decisioni
sull'onda dell'emotività. Ovvero, quelli del ministero rischiano di
essere i soliti annunci.
Che non incideranno in modo
significativo sulla qualità dell'aria in assenza di una seria
politica sul trasporto pubblico: bus ecologici, treni per i pendolari
e non solo freccia rossa, rivedere le tariffe che sono le più basse
d'Europa (e far pagare tutti), aumentare la capillarità del
servizio.
Qualche mese fa, l'attuale primo
ministro si era detto contrario alle grandi opere, ai grandi
cantieri. Quello che serve al paese sono le tante piccole opere di
messa in sicurezza.
Non il ponte sullo stretto, ma un
servizio ferroviario regionale decente al sud.
Qualcuno se li ricorda ancora queste
promesse?
E come siamo messi con i controlli dei motori (e degli impianti industriali) dopo gli annunci dello scandalo Volkswagen?
Il miracolo Expo: prima ancora
che finisse Expo erano già partiti gli annunci sul dopo-Expo, il
cronoprogramma dei lavori. Venivamo rassicurati che tutti i
padiglioni sarebbero stati riciclati e non buttati via. Non solo
aspettiamo il piano, ma si aspetta anche i soldi del governo: doveva
entrare in Arexpo a settembre ma forse ci entrerà a gennaio.
Tanti annunci: lo stadio, no la
cittadella universitaria, la nuova silicon valley...
L'Expo dei miracoli è stato un
continuo spot elettorale, che ha fatto da trampolino di lancio
per i due tecnici politici, Tronca e Sala. Che ha fatto lustro al
governo che sull'esposizione milanese ha puntato tutto.
Eppure siamo ancora qui ad aspettare un
piano operativo che spieghi come verranno riempiti gli spazi.
I padiglioni, per una questione di
costi, non verranno riciclati.
Sui costi e sul ritorno economico, il
cda (nel suo breve comunicato) non spiega nulla: solo tre numeri in
croce senza dare altre risposte alle domande dei giornalisti.
I meriti di Sala, gonfiati dai
giornali, sono in realtà in capo ad altri: per esempio Pisapia che
ha risolto il problema delle aree (e ceduto le sue competenze a
Formigoni).
La nostra memoria a breve ci ha fatto
dimenticare tutti gli scandali e le inchieste sulla corruzione: la prima gara (per la pulizia dell'area dagli ingombri) nel 2012 è stata fatta
al massimo ribasso, dopo che si era detto che non si sarebbe mai
proceduto così, ed è da lì sono partite le tangenti. E tutto
questo è imputabile a Sala. Il candidato sindaco di Milano, perché
ha così ben operato.
Ma sala è quello dei 21 milioni di
ingressi, dei 14 ml in attivo: ma non si capisce se le cifre
comprendono i costi di smantellamento, gli investimenti, gli eventi,
semplicemente perché questi bilanci non sono stati fatti.
Trasparenza zero.
Chi pagherà costi occulti? bonifiche,
smantellamento padiglioni (a carico di Arexpo e non di Expo), è
impossibile pensare al futuro.
L'immagine di Aylan, il bambino
siriano morto nel tentativo di arrivare in Europa, avrebbe dovuto
risvegliare molte coscienze sulla reale portata del problema dei
profughi, famiglie che scappano dalle guerre in Siria o dalle
carestie in Africa. Tutti clandestini, chiaramente, che affrontano il
rischio di un viaggio di migliaia di km, nella speranza di un futuro
migliore.
Anche dopo quell'immagine, che non si
doveva usare per fare speculazioni, altri annunci.
Blocchiamo gli sbarchi, affondiamo le
navi. Basta con questa invasione.
Aiutiamoli a casa loro: ma a
casa loro ci sono solo macerie, fame, siccità, malattie.
E altri persone stanno morendo in quel tratto di mare tra l'Asia e l'Europa. Senza clamore. Senza altri annunci.
L'Emergenza profughi, si è poi
intrecciata all'emergenza sul terrorismo. Il 2015 si è aperto è
chiuso con le sue stragi a Parigi. A gennaio alla redazione di
Charlie Hebdo e a novembre contro i ragazzi al concerto rock
al Bataclan o che si divertivano per strada.
Altri annunci, altra memoria a breve.
Dopo la strage nella redazione della
rivista satirica eravamo tutti Charlie, anche quei leader europei e
locali che hanno spesso dimostrato scarsa considerazione della
libertà di stampa (e dello sberleffo del potente).
È poi arrivata la seconda strage di
novembre, con tutte quelle morti giovani, ragazzi innocenti presi
mentre erano in luoghi pubblici, per creare terrore.
Finché le bombe e le morti avvenivano
lontano dall'Europa non ci toccavano: Ankara, Beirut, in Nigeria.
L'attacco al Bataclan ha fatto scattare
gli allarmi, i controlli, i piani per spiare i terroristi. Altri
annunci.
Abbiamo scoperto non solo la nostra
vulnerabilità, ma anche l'inadeguatezza degli organi nazionali e
sovranazionali. L'Europa che pochi mesi prima aveva messo alle corde
il governo Tsipras, si rivela inutile di fronte al terrorismo.
L'unica risposta che abbiamo saputo
dare è la chiamata alla guerra.
Peccato che questa sia una guerra
contro un nemico che non si vede e dove non esista una prima linea.
L'efficacia dei bombardamenti è da verificare e l'unico esercito in
campo è quello curdo, che deve combattere anche contro l'alleato
Erdogan, il sultano che ha usato l'arma dei profughi per avere
miliardi e corda lunga dall'Europa.
Il nostro governo non si è unito al
grido di guerra, sebbene noi forniamo i droni per intercettare i
bersagli.
Renzi ha promesso un euro di cultura (o
un centesimo) per ogni euro in sicurezza.
L'annuncio dovrebbe servire a ridare
fiducia al paese (e a dare i benefici elettorali degli 80 euro ad
essere maliziosi).
Ma il nostro paese è stanco di
annunci e di guerre ne sta già combattendo già altre.
La guerra ai diritti. Sul lavoro, per
il diritto alle cure, per il diritto allo studio. Per l'accesso ai
servizi pubblici: mentre si discute di Ponti e di Varianti, ci si
dimentica di come Messina sia rimasta senz'acqua per
settimane.
Il diritto a vivere una vita serena,
senza doversi preoccupare di cosa si respira, dell'incertezza del
posto del lavoro perché c'è sempre qualcuno che prende uno
stipendio inferiore al tuo.
A Mirafiori e Grugliasco ci sarà un
altro anno di cassa integrazione. A Melfi la produzione è a pieno
regime ma gli operai (assunti con gli sgravi) devono lavorare su
turni pesanti.
Nella Valle del Reno (Bo) la Philips Saeco ha deciso di spostare
fuori dall'Italia la produzione di macchine per il caffè, col rischio di 240 esuberi. Meno
salari, meno diritti, maggiori profitti.
Ci stanno mettendo l'uno contro
l'altro, in una guerra tra poveri. Italiani contro rom, profughi,
immigrati, clandestini.
Parlano di difesa dei nostri valori,
che non si riducono però ai canti di Natale o al presepe.
Se ve lo siete dimenticati, rileggetevi
la Costituzione, è tutto scritto lì.
Quello che separa questo ultimo anno
ormai agli sgoccioli dal prossimo, è solo una notte di
festeggiamenti e di brindisi.
Ma quello che separa il cupo presente
dove l'eco degli annunci risuona a vuoto, da un futuro con maggiore
serenità, è un soldo ben più profondo.