Incipit
Il bambino morto stava all’impiedi, fermo sull’incrocio tra Santa Teresa e il Museo. Guardava i due ragazzi che, seduti a terra, facevano il giro d’Italia con le biglie. Li guardava e ripeteva: “Scendo? Posso scendere? ”L'uomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo: sapeva che il lato sinistro, il primo che i suoi occhi avrebbero incontrato, era intatto; mentre a destra, il cranio era stato cancellato dall'impatto, la spalla era rientrata nella cassa toracica sfondandola, il bacino era ruotato attorno alla colonna vertebrale spezzata. E sapeva anche che al terzo piano del palazzo d'angolo che gettava in quel prima mattino di mercoledì una fascia d'ombra fredda sulla strada, un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero.
L'uomo senza cappello è il commissario
Luigi Alfredo Ricciardi
“..commissario di pubblica sicurezza presso la squadra Mobile della Regia Questura di Napoli. Aveva trentun anni, quanti erano gli anni del secolo. Nove dell'era fascista”.
Preso dallo sconforto per la prossima
fine della serie del commissario Ricciardi, ho voluto rileggermi “Il
senso del dolore”, il primo romanzo dove compare l'enigmatico
commissario di polizia, dove tutto è cominciato, con le prime
quattro stagioni di Ricciardi. In questa, ci troviamo in una coda
fredda dell'inverno, in pieno marzo, dove il vento ancora freddo
spazza le vie della città.
Una città dove, per decreto del
presidente del Consiglio, Benito Mussolini, non avvengono crimini e
nemmeno vengono raccontati fatti di cronaca sui giornali.
A meno che non si tratti di fatti che
non è proprio possibile tenere sotto traccia: come l'omicidio del
tenore Arnaldo Vezzi, il tenore preferito del Duce, un'artista
eccelso come voce e come capacità di entrare nei panni dei
personaggi delle opere, quanto egoista e narciso nella vita reale.
Del caso se ne occupa proprio quel
commissario Ricciardi, un poliziotto con cui nessuno vuole lavorare,
per quel carattere chiuso, mai una risata, mai visto in occasioni
mondane.
L'uomo che vede i morti, le persone
uccise in modo tragico, nei loro ultimi istanti di vita: il Fatto,
così si chiama questo dono. Che in realtà è una dannazione.
"Luigi Alfredo si abituò a pensare alla cosa che gli era successa proprio con quel nome: il Fatto. Da quando gli era capitato il Fatto, come aveva capito del Fatto. Il Fatto che aveva orientato l'esistenza. [..] E lui aveva compreso che non avrebbe mai più potuto parlarne con nessuno, che con questo marchio sull'anima ce l'aveva solo lui: una condanna una dannazione. Negli anni che seguirono, lui andò definendo i confini del Fatto. Vedeva i morti. Non tutti e non a lungo: solo quelli morti violentemente, e per un periodo di tempo che rifletteva l'estrema emozione, l'energia improvvisa dell'ultima emozione. Li vedeva come una fotografia [..] anzi come una pellicola, di quelle che aveva visto qualche volta al cinematografo, che però replicava sempre la stessa scena. L'immagine del morto con i segni delle ferite e l'espressione dell'ultimo atto prima della fine."
Costretto a
convivere col suo dolore interno che non può raccontare a nessuno e
che lo porta a respingere ogni contatto intimo, specie con le donne.
Costretto a sentire i lamenti, le
imprecazioni, i sentimenti e il dolore delle persone, finché questo
ultimo barlume di vita non si consuma.
Per le strade, agli angoli delle
piazze.
O nel camerino del famoso tenore
Arnaldo Vezzi, che al San Carlo doveva intepretare Canio,
protagonista de I Pagliacci di Leoncavallo.
“io sangue voglio, all'ira mi
abbandono, in odio tutto l'amor mio finì ..”
Queste le ultime parole dell'immagine
del tenore, un pagliaccio che ride, ma con una lacrima che scorre
dall'occhio. Ucciso con una scheggia di vetro conficcata nel collo,
il suo sangue per tutto il camerino, eccetto che sul cappotto e sulla
sciarpa.
Prima stranezza.
E poi quella finestra aperta, seconda
stranezza.
Chi è entrato in quel camerino per
uccidere Vezzi? Ci sono alcune cose che non tornano.
Il tenore aveva saputo farsi odiare da
tutte le maestranze, dai maestri e dai musicisti del San Carlo.
Perfino il suo agente e il suo segretario non avevano con lui un buon
rapporto.
Il delitto Vezzi, per le amicizie del
morto, è un caso che interessa da vicino sia i vertici della
Questura (il suo superiore, l'arrivista Garzo) che la politica a
Roma.
Si pretende un'indagine veloce, ma dove
cercare il movente?
"Che belli, ironizzò tra se Ricciardi, con un mezzo sorriso. Il piccolo re senza forze, il grande comandante senza debolezze. I due uomini che avevano deciso di cancellare il crimine per decreto. Ricordava sempre le parole del questore, un azzimato diplomatico che improntava la propria vita al compiacimento assoluto dei potenti.: non esistono suicidi, non esistono omicidi, non esistono rapine e ferimenti, a meno che non sia inevitabile o necessario. Nulla per la gente, soprattutto per la stampa: la città fascista è pulita e sana, non conosce brutture. L'immagine del regime è granitica, il cittadino non deve avere nulla da temere; noi siamo i custodi della sicurezza.Ma Ricciardi aveva capito, ben prima di studiarlo sui libri, che il delitto è la faccia oscura del sentimento: la stessa energia che muove l'umanità la devia, fa infezione e suppura esplodendo poi nell'efferatezza e nella violenza. Il Fatto gli aveva insegnato che la fame e l'amore sono all'origine di ogni infamia, in tutte le forme che possono assumere: orgoglio, potere, invidia, gelosia. Sempre e comunque la fame e l'amore. Li trovavi in ogni delitto, una volta semplificato all'estremo, eliminati gli orpelli dell'apparenza: la fame e il dolore, o entrambi, e il dolore che generano"
La fame e l'amore.
E, arrivato alla
soluzione del caso, Ricciardi scoprirà la presenza di entrambi nelle
ragioni del delitto.
E perché quel
pagliaccio ride, cantando un'aria famosa (ma di Cavalleria
rusticana), con una lacrima che scende dal trucco pesante..
In questo romanzo
scopriamo tutto il mondo ricciardiano. Le donne, per esempio: la
dolce Enrica che osserva dalla finestra della sua camera, mentre
ricama la sera e che, seguendo i suoi movimenti, gli darà un
intuizione importante per risolvere il caso.
La vedova del
tenore, Livia, una donna bellissima e sfortunata, per il rapporto col
marito andato in frantumi anni prima. E che proprio negli occhi di
Ricciardi, quegli occhi verdi così pieni di dolore, troverà
nuovamente la forza per vivere e per innamorarsi ancora.
E poi Maione, il
fidato brigadiere, forse l'unica persona oltre al dottor Modo che può
considerare come un amico.
Bambinella, il
femminiello che è anche la voce dei quartieri popolari e che per
questo è un confidente di Maione.
Infine c'è Napoli,
che viene raccontata andando oltre l'immagine da cartolina anche
nella descrizione dei suoi quartieri, dove separati da una via, trovi
la ricchezza e la povertà:
“... i quartieri dei ricchi e dei borghesi, della cultura e del diritto. A monte la Napoli dei quartieri popolari dove vigeva un altri sistema di leggi e norme, altrettanto o forse ancora più rigido.La città sazia e quella affamata, la città della festa e quella della disperazione. Quante vole Ricciardi era stato testimone del contraddittorio tra le due facce della stessa medaglia. Il confine: via Toledo, palazzi antichi, muti sulla strada ma già rumorosi sul retro, le finestre spalancate sui vincoli, i primi canti delle massaie.”
La scheda del libro sul sito
dell'editore Fandango
e sul sito di Einaudi
(che ha ripubblicati tutti i primi romanzi di De Giovanni).
Ricciardi a fumetti, edito da Bonelli