19 luglio 2020

Borsellino, la trattativa, la credibilità di uno Stato



Immagine presa dal sito Abbanews
Palermo, luglio 1992Preparativi e uccisione di Paolo Borsellino 
Lo prenderanno quando va a trovare la vecchia madre, in via D'Amelio. Lo fa sempre e le modalità sono sempre le stesse. Arriva con la scorta, scende e suona il citofono. Si può parcheggiare un'automobile imbottita di tritolo lì davanti, nessuno ha pensato di vietare il parcheggio per sicurezza. Poi la si a esplodere con il telecomando. Sarà un'esplosione terribile, salteranno i vetri di tutti i palazzi, bisognerà fare attenzione a non rimanere colpiti dai frammenti o dall'onda d'urto.
Una Fiat 126 viene rubata, allestita con l'esplosivo e parcheggiata davanti al portone di via D'Amelio. Nel pomeriggio Borsellino arriva con le modalità previste: oltre a Paolo Borsellino muoiono gli agenti di scorta Agostino Catalano (capo scorta), Emanuela Loi (la prima donna a far parte di una scorta e a cadere in servizio), Vincenzo Li Miuli, Walter Eddie Crosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto è Antonio Vullo.La detonazione si sente in tutta Palermo, così come si vede la nuvola d fumo che ha provocato. Il blocco motore della Fiat 126, sbalzato, viene ritrovato intero e con il numero di telaio. Una ricognizione indica come possibile luogo da cui è stato azionato il telecomando il Castel Utveggio, una struttura alberghiera costruita sul monte Pellegrino negli anni trenta e diventata poi sede del Sisde. I tabulati telefonici mostrano che tra il Castello e i cellulari coinvolti nella strage sono avvenute alcune chiamate. I carabinieri, subito arrivati sul posto, prendono la borsa del magistrato ucciso, che contiene un'agenda rossa su cui Borsellino scriva i suoi appuntamenti e le annotazioni più riservate. L'agenda scompare.
 
Patria - Enrico Deaglio

Quando Deaglio scrisse questo enorme saggio sulla storia italiana recente, alcuni nuovi fatti sulla strage di via D'Amelio dove fu ammazzato Paolo Borsellino assieme alla sua scorta, non erano noti o non del tutto chiariti.
Il pentimento di Gaspare Spatuzza che si è autoaccusato della preparazione della strage, ha raccontato delle strane presente (servizi?) nel garage dove la 126 fu imbottita di esplosivo, ha riportato ai magistrati le parole dei fratelli Graviano, “abbiamo il paese in mano”, grazie a Berlusconi, quello di canale 5 e al nostro compaesano.

Non era ancora del tutto chiaro il quadro della trattativa stato-mafia, dentro cui Borsellino si erano trovato, informato da Liliana Ferraro, la collaboratrice di Falcone che ne prese il posto al ministero dopo Capaci.
Sapeva degli incontri tra esponenti del Ros e Ciancimino per capire “questi” (i mafiosi) cosa volevano, per fermare le stragi e i delitti minacciati ai politici.

Non era ancora emerso, in tutto il suo squallore, il depistaggio di Stato da parte dei poliziotti della squadra di Arnaldo La Barbera, questore di Palermo, che crearono il pentito fantoccio, Vincenzo Scarantino, che si autoaccusò della strage a suon di violenze, per poi ritrattare e infine ammettere tutto.
Il pentito finto che serviva a placare l'ansia di giustizia del paese, ma anche ad allontanare le indagini da persone e trame che dovevano rimanere nascoste.

La strage di via D'Amelio, con le sue false verità, col falso pentito che è stato ritenuto credibile da tanti magistrati (come la procura di Caltanissetta di Tinebra), coi suoi tanti misteri (perché quel secondo botto a soli 55 giorni da Capaci), coi suoi pezzi mancanti (l'agenda rossa di Borsellino sparita, il traffico telefonico del suo cellulare), è una macchia per le nostre istituzioni: perché mette in luce i rapporti tra la mafia e pezzi dello stato, le collusioni, i ricatti e, dall'altra parte, ci ricorda ancora una volta di più il debito che abbiamo nei confronti delle vittime della stagione delle stragi, poliziotti, magistrati, civili, uccisi in una guerra scatenata per fare la pace.
Per trovare nuovamente quell'accordo tra cosa nostra e quella parte delle istituzioni che è sempre andata a braccetto con essa, sin dai tempi della strage di Portella e del caffè avvelenato che uccise Pisciotta in carcere all'Ucciardone.

Ed è qualcosa di poche settimane fa l'uscita, nel corso della trasmissione Atlantide, di Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, sulle menti raffinatissime dietro l'attentato a Falcone all'Addaura, dietro la campagna di discredito fatta ai suoi danni con le lettere del corvo, con gli articoli sui giornali e gli attacchi personali.
Una di queste menti sarebbe l'ex agente del Sisde Bruno Contrada.

La strage di via d'Amelio, e le bombe della stagione stragista della mafia del 1992-1993 ci portano dentro il lato oscuro della nostra storia, portando alla luce mostri che credevamo sepolti nel passato.
Gladio i suoi segreti e i suoi uomini,messi alla porta col crollo del muro di Berlino che reclamavano ai loro padroni una buonuscita per i loro servigi (le telefonate di rivendicazione fatta a nome della sigla Falange Armata, da luoghi dove erano presenti sedi del Sismi.

La nascita delle leghe meridionali, il ruolo della massoneria deviata, la mafia che voleva fondare il suo partito al sud, il crollo dei partiti per mano delle inchieste dei giudici milanesi, della sentenza della Cassazione che metteva nero su bianco l'esistenza di Cosa nostra come struttura unitaria e verticistica, che mandava in carcere i boss mafiosi con fine pena mai o a condanne per decine di anni..
Stava crollando un mondo di potere, di omertà, di carriere politiche costruite sul ricatto, sul compromesso, di ricchezza per quella marea di soldi guadagnati illecitamente con gli appalti pubblici prima e con la droga poi. Soldi riciclati grazie alla compiacenza di finanzieri come Sindona e Calvi, di banche siciliane e non, che non si sono fatti problemi perché pecunia non olet.

Le bombe della mafia, quelle in Sicilia del maggio luglio 1992 e quelle del 1993 sono parte di un dialogo, per condizionare la politica dei governi italiani che si sono succeduti in quegli anni: ammorbidire la situazione nelle carceri, tornare indietro dalle leggi approvate sull'onda delle stragi (il decreto Falcone, l'istituzione delle super carceri a Pianosa e l'Asinara), frenare l'emorragia dei pentiti.
È chiaro che l’eventuale revoca, anche solo parziale, dei decreti che dispongono l’applicazione dell’articolo 41 bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe. (Nota Dia al ministro dell’Interno, 10 agosto 1993, classificazione: RISERVATO)

Trovare nuovi referenti nel mondo politico, per far finta che tutto cambiasse ma per non cambiare nulla.
Ogni anno, ad ogni anniversario delle stragi, seguiamo lo stesso cerimoniale in ricordo delle vittime, con le stesse parole che si ripetono. Ci dovremmo consolare del fatto che i mandanti delle stragi, i boss mafiosi, sono morti o in carcere, che l'ala stragista della mafia è stata sconfitta.
Dovremmo prendere per buona la tesi che, sì, forse la trattativa c'è stata ma lo stato alla fine ha vinto.

E a chi importa se, per quella trattativa, sono morte delle persone..
Quale stato, però ha vinto?
Quello di Berlusconi e Dell'Utri? Quello di Contrada che ancora oggi reclama la sua innocenza?
Quello emerso dalle telefonate tra Mancino, l'ex presidente Napolitano e il suo consigliere D'Ambrosio che, in una intercettazione esprimeva tutti i suoi dubbi su quei giorni “lei sa ciò che ho scritto … episodi che mi preoccupano .. considerato di essere scriba per indicibili accordi”.

Borsellino, come Falcone, come Dalla Chiesa, come Cesare Terranova, come don Pino Puglisi, come Mario Francese e tanti altri, forse avrebbero preferito rimanere vivi e non diventare eroi, specie in questo paese dove spesso gli eroi sono usati come figurine e non come un modello da seguire.
Uno strano garantismo viene usato come arma di difesa nei confronti dei potenti coinvolti nelle inchieste su mafia e politica, i negazionisti della trattativa si ostinano a volerci far credere che a Capaci, in via D'Amelio (e a Firenze alla Torre dei Pulci, al Pac a Milano) sia solo mafia.
Dovremmo fermarci a Riina e Provenzano, senza allargare lo sguardo alle complicità istituzionali che hanno goduto per anni: i figli di Riina fatti nascere alla clinica Noto, i 43 anni di latitanza di Provenzano e i 21 di Matteo Messina Denaro per rimanere ai tempi moderni.

No, se vogliamo veramente tornare a respirare quel “fresco profumo di libertà” (usando le parole di Borsellino) serve uno scatto di coraggio, da parte delle istituzioni, serve uno Spatuzza all'interno dello Stato,
proprio per la salvezza dello Stato.

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