27 maggio 2014

Vista dalla Francia la mafia è più lontana ...

Forse vista dalla Francia la mafia è diversa. Oppure sono passati tanti anni dall'ultima volta che se ne è occupata.
Altrimenti non saprei come spiegarmi l'uscita della giornalista francese Padovani in polemica contro i magistrati di Palermo che hanno istruito il processo sulla trattativa stato mafia:

“Se Falcone era un magistrato solitario, oggi parecchi suoi colleghi pur dicendo di sentirsi isolati sono invece molto più vicini alla politica e ai mass media. Si sono lasciati prendere per mano dal protagonismo. E spesso hanno contribuito a costruire una autorappresentazione sacrificale del proprio lavoro diventando quello che mi son permessa di chiamare nuovi protagonisti dell'antimafia aiutati in questo dai media. Si sono orientati sulle teorie del complotto, dei retroscena e vorrei dire delle trame che probabilmente sono solo sulla carta”.
Sono passati tanti anni dall'articolo di Sciascia, che pure l'autore riconobbe frutto di valutazioni errate. Eppure la tendenza ad accusare i magistrati di farsi pubblicità da soli non passa.
Risponde oggi alla giornalista il magistrato Gian Carlo Caselli sul FQ:

PRIMA E DOPO CAPACI
Falcone, tradito da vivo e da morto
di Gian Carlo Caselli
   Povero Falcone... In vita, coperto di calunnie tipo professionista dell’antimafia, uso spregiudicato dei pentiti e torsione della giustizia a fini politici (comunista!). Al Csm, tradito dai “giuda” che non lo avevano designato come successore di Caponnetto, nonostante avesse insegnato a tutti il metodo giusto per sconfiggere la mafia (di “giuda” parlò Borsellino nel trigesimo di Falcone, aggiungendo che aveva cominciato a morire proprio per l’infausta scelta della maggioranza del Csm).

   POI A CAPACI, massacrato dalla feroce violenza mafiosa insieme alla moglie e ai poliziotti di scorta. E dopo la strage, sacrosantamente celebrato come un eroe, ma spesso strattonato con l’obiettivo – parlando bene di lui – di colpire i magistrati ancora vivi che risultassero sgraditi. Qualcosa di simile (e inatteso) è successo il 23 maggio scorso nella ricorrenza della strage di Capaci, quando una voce autorevole

   – Marcelle Padovani – ha sostenuto che “Giovanni (Falcone) non avrebbe mai messo la sua firma in un’inchiesta come quella sulla trattativa”. Ora, come finirà questa inchiesta non è dato sapere, posto che è appena cominciata la delicatissima fase delle verifiche dibattimentali. Avranno ragione i colpevolisti o i negazionisti? Non si sa. E penso che entrare nel merito – oggi come oggi – serva soprattutto a togliere al processo un po’ di quella serenità che dovrebbe essere obiettivo di tutti. Ma non tocca il merito sostenere che nessuno – proprio nessuno – può arrogarsi il diritto di stabilire come si sarebbe comportato Falcone. Prima di tutto (ed è tragicamente ovvio) perché Falcone è morto. Ma soprattutto perché dopo le stragi è cominciato – letteralmente – un mondo nuovo, quasi una nuova era geologica, che rende quantomeno avventata ogni ipotesi basata sul passato. Tutto, proprio tutto, è cambiato. In particolare sul versante delle indagini relative ai rapporti fra mafia e politica. Una prova concreta? Su questo tema, Buscetta (pur avendone già ampiamente riferito in Usa) aveva opposto un rifiuto a Falcone, perché altrimenti lo avrebbero preso per matto e tutta la sua inchiesta sarebbe abortita. Invece, dopo le stragi, Buscetta si è sentito come obbligato a saltare il fosso, anche nel ricordo di Falcone, rivelando quel che sapeva su mafia e politica.

   COSÌ SPALANCANDO – appunto – le porte di un nuovo mondo. E in un mondo stellarmente diverso da quello tramontato col suo sacrificio, nessuno può presumere di poter dire come Falcone avrebbe agito. Tanto più che il mondo stava cambiando non solo per effetto di “mafiopoli” ( i tanti, doverosi processi a imputati eccellenti “sdoganati” dalle stragi, in un quadro di risposte vigorose sul piano “militare”), ma anche per effetto di “tangentopoli” e di una conseguente esplosione – senza precedenti – dell’indipendenza di una giurisdizione rafforzata. Certo è che Falcone aveva la schiena ben dritta e non era certo un magistrato capace di privilegiare, tra le varie opzioni, quelle “comode”. Com’è certo che egli aveva il pregio della coerenza e che per lui non erano vuota retorica le parole che denunziavano: “Una singolare convergenza tra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica... un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti, se si vuole davvero voltare pagina”.

   Dunque, logica vuole che ci si fermi prima di oltrepassare la soglia della evocazione dei morti per trarne elementi da proiettare sul presente. Lasciamo ad altri e alla loro infinita diversità certe performance. Non dimentichiamo quel direttore sul cui giornale – pochi mesi prima di Capaci – fu scritto che semmai Falcone fosse riuscito a diventare Procuratore nazionale antimafia ci sarebbero state due cupole mafiose, una a Palermo e l’altra a Roma, per cui era conveniente tenere a mano il passaporto.

   LO STESSO GIORNALISTA

   che dopo le stragi si convertì, proclamando che Falcone si era sempre ispirato a un metodo esemplare basato sul “rigore della prova”. Ma con l’evidente proposito di piegare questo (tardivo) riconoscimento della verità al vero obiettivo di infierire sulla Procura di Palermo del dopo stragi, diretta dal sottoscritto: con la tesi strumentale e strampalata di un ufficio che tradiva sistematicamente il metodo Falcone, privilegiando i “teoremi” politici e rendendosi “schiavo di un’impostazione ideologica e moralistica” che puntava “esclusivamente sui rapporti tra mafia e politica”, mentre Falcone non avrebbe neppure mai creduto all’esistenza di un “terzo livello”. Balle, ma comode per svalutare l’azione di chi stava cercando di provare, per fatti di mafia, una responsabilità penale di Andreotti e Dell’Utri che sarà alla fine confermata dalla Cassazione. 


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