Dunque volevano vendetta. Colnaghi annuì un paio di volte fra sé, come a raccogliere idee che non avevao che ancora erano troppo confuse: poi appoggiò le mani sul tavolo e guardò di nuovo il ragazzino cheaveva parlato.Nell’aula messa a disposizione dalla scuola materna del quartiere c’era silenzio: macchie di sudore sottole ascelle, le pale del ventilatore che giravano piano. Tutti aspettavano una sua risposta, l’ennesima parola buona. I parenti e gli amici della vittima erano una trentina.Vissani era stato un chirurgo, esponente in vista dell’ala più a destra della Democrazia cristiana milanese: cinquantadue anni, biondo cenere, grassoccio. La fotografia deposta sotto la cattedra era circondata da mazzi di fiori. Forse Colnaghi l’aveva visto una volta o due, negli anni precedenti: di lui aveva letto sul «Corriere», magari un articolo di fondo nelle pagine locali, per la posizione che stava guadagnando nel partito. A Colnaghi non piaceva quella Dc, ma chissà: magari tempo addietro si erano persino stretti la mano, presentati da un collega che voleva far carriera: magari in una sera di metà maggio, quando Milano è attraversata dalle rondini e la luce ha un colore inafferrabile: forse entrambi erano felici in quel momento, e forse Vissani aveva riso a una battuta di Colnaghi battendosi una mano sul ginocchio: e altrettanto alla svelta il medico aveva rotto il buon umore del magistrato con un’uscita infelice, una delle tante che lui aveva potuto rileggere nel faldone dell’istruttoria – qualcosa di spiacevole sui giovani o sulla necessità del pugno duro da parte del governo. Sia come sia, poi era andata così: quel tipo volgare, odioso e incolpevole era stato ucciso il 9 gennaio 1981, a tarda sera, dalle parti di piazza Diaz.Ecco, mi trovo qui, a fine lettura di questo splendido romanzo, con un certo imbarazzo nel dover scrivere le mie impressioni. Imbarazzo perché parliamo di un libro che abbraccia tanti argomenti, con una profondità e con una maturità sorprendenti, se si pensa che è stato scritto da un ragazzo nato dal 1981.
Due proiettili calibro 38 SPL. Sei mesi prima. Omicidio rivendicato da Formazione proletaria combattente, una cellula scissionista delle Br. Caso ancora aperto, in mano al sostituto procuratore Colnaghi.
In “Morte di un uomo felice” si parla del senso di giustizia contrapposta al desiderio di vendetta, del terrrorismo e della lotta partigiana (cui i terroristi dicevano pure di ispirarsi). Della difficoltà di portare avanti l'idea di giustizia in un mondo imperfetto, tanto più imperfetto quale era l'Italia degli anni di piombo, dove i terroristi uccidevano magistrati, giornalisti, poliziotti, medici, avvocati ..
La guerra asimmetrica portata avanti nel loro delirio rivoluzionario, compiuto a colpi di pistola.
Questa è la storia di un magistrato, cattolico ma non bigotto, ligio ai suoi doveri ma anche capace di essere flessibile (“errori mai, eccezioni sempre”), con un'idea precisa della giustizia, progressista diremmo oggi.
Giacomo Colnaghi, cresciuto in provincia a Saronno e figlio proprio di uno di quei partigiani che, per un'ideale di Italia più libera e giusta, morì a poco più di venti anni: non ancora quarant'enne è già in prima linea nella lotta al terrorismo.
Assieme a due colleghi del tribunale di Milano, deve indagare sulla morte di un notabile democristiano, ucciso da una piccola cellula del brigatismo rosso, nella Milano del 1981.
Anni terribili, dove il terrorismo rosso in fase calante uccide uno dopo l'altro proprio quei servitori dello Stato che rendevano più credibile la loro funzione nelle istituzioni.
Nel 1980, solo a Milano sono stati uccisi il procuratore Guido Galli da Prima Linea, il giornalista Walter Tobagi dalla Brigata 28 marzo. Le Brigate Rosse uccidono Renato Briano, dirigente dell’impresa metalmeccanica Ercole Marelli, e Manfredo Mazzanti, dirgente della Falck.
L'anno prima era stato ucciso Emilio Alessandrini, altro magistrato milanese.
Ma il romanzo non si sviluppa come un poliziesco, bensì l'indagine sull'omicidio dell'esponente Dc diventa l'occasione per riflettere sull'animo di questi giovani che per un'ideale distorto impugnano una pistola: cosa vogliono veramente, da che spirito sono animati?
Giacomo ha un faccia a faccia intenso con uno di questi (Gianni Meraviglia), catturato dopo un blitz delle forze dell'ordine: lo scontro tra il giudice e il terrorista è indicativo delle due visioni della giustizia. Una, concepita come vendetta per dei torti subiti da una classe sociale (quella della classe operaia), l'altra che vede, nella giustizia dello Stato, il solo modo per sanare i contrasti.
«I mezzi e i fini devono stare alla stessa altezza», disse Colnaghi. «Altrimenti tutto è perduto. E naturalmente non vi è mai passato per la testa che quelle singole persone che giudicate siano persone qualsiasi, vero? Senza connessione alcuna con i centri del potere che volete piegare. Padri di famiglia senza colpe, semplici individui che facevano il loro lavoro. Che cercavano di rendere migliore lo Stato che voi tanto odiate. No, erano tutti dei boia, tutti meritevoli di un proiettile nelle gambe o nello stomaco. E' così, vero? Nessun appello, nel tribunale popolare».
Meraviglia si limitò a fare una smorfia schifata e scuotere la testa: «Se facevano quel lavoro significa che avevano scelto di difendere lo stato di cose: dunque erano corresponsabili. Mi dispiace per loro come esseri umani, anche se so che non mi crederà. Ma questa è una guerra, e in ogni guerra si sceglie da che parte stare. Noi abbiamo scelto quella degli umili. E ogni padrone che cade ripaga del dolore di migliaia di poveri cristi innocenti, di migliaia di disoccupati, di migilaia di persone che fanno la fame. Dà loro speranza che qualcosa cambi. Che non sono soli».«No, si sbaglia. Questa è solo vendetta, e non cambia le cose, vi fa sentire semplicemente meglio. Occhio per occhio, dente per dente, ma dov'è tutta la speranza di cui parla? Sono anni che sparate e la gente ha solo paura di voi: perché di fondo lo sa. Di fondo sa che inseguite un delirio, che non è questa a strada per uscirne».Sostennero lo sguardo. Meraviglia si passò la lingua sulle labbra riarse, poi tossì: «E quindi il problema come si risolve?», disse. «Avanti. mi spieghi un po'».
Colnaghi alzò le braccia per indicare loro due: «Parlando. Trovandoci a metà strada nei bar, nelle chiese, nelle piazze. Così forse finalmente ci si conosce, tutti insieme, e si capisce che siamo in tanti a volere un'altra Italia».[..]«Ma lei cosa cazzo ne sa? Lei parla, parla, ma cosa ne vuole sapere? Ha mai vissuto quello che abbiamo vissuto noi? Ha mai provato quel dolore, quella rabbia - e quella fratellanza che ti da solo la causa? No. Lo sa cosa vuol dire vedere due poliziotti che spaccano denti a una ragazza, durante un corteo? Lo sa quante volte ho difeso un compagno dall'aggressione di un fascista? No. Può giudicarci: si limiti a questo. Capire, non potrà mai, e sa perché?». Indicò la stanza che li conteneva. «Perché lei pensa di avere ragione e vuole parlare, ma mi tiene in catene. E io penso che se il sistema è spietato, ho il diritto sacrosanto di esserlo anch'io; e colpendone i simboli posso indebolirlo fino a spezzarlo. Fine del discorso. Ma si ricordi che da parte sua non c'è ragione o giustizia: c'è solo una differenza di potere[..]»
Colnaghi cominciò a sentire le proprie parole staccarsi dal corpo come particelle di cui non comprendeva la provenienza: eppure non aveva vergogna ,né timore : si stava confessando , non era più lui l'interrogatore - un momento che aveva, forse, atteso da tempo: «No, è proprio questo il punto», disse. «Io non posso considerare gli uomini come dei simboli , o dei mezzi da usare per cambiare le cose. Non ci riesco, e non tollero che questa mostruosità venga chiamata giustizia. E certo, so che la nostra democrazia è piena di ombre, di errori spaventosi. Ma con tutte le sue ombre, se non altro può migliorare: può fermare l'onda dell'odio , può farla finita con i fascisti, può combattere il male che si porta dentro. Invece l'omicidio di un uomo - di un uomo inerme, Dio mio, di un uomo colpito alle spalle - non si corregge: e non serve a nulla. Lascia solo una sofferenza incolmabile, una scia di domande che non trovano risposta».
Alzò la testa, strinse i denti più forte che poteva.«Volete fare la rivoluzione, ma tutto quello che avete ottenuto è ammazzare delle persone».«Gliel'ho detto, è una guerra: e in guerra ci sono sempre dei morti. Cosa crede, che i partigiani ..»«Voi non siete i partigiani!», grigò Colnaghi alzandosi di scatto, e Meraviglia si chinò d'istinto piegando la testa.«Ha capito? Mi ha capito? Non siete i partigiani!»Pagina 197-199Le pagine della storia al presente, la primavera estate del 1981, si intrecciano alle pagine in cui si racconta la storia del padre Ernesto, operaio di fabbrica, che entra nelle file dei partigiani. Prima per distribuire volantini ai compagni in fabbrica, poi per compiere azioni di sabotaggio sempre più pericolose.
C'è spazio, nella storia, anche per riflessioni più intime: l'assenza del padre nella sua giovinezza, che dedicò i suoi ultimi pensieri proprio al figlio.
L'indagine interiore del protagonista prosegue con le difficoltà nel rapporto con la moglie, per il suo lavoro. La lontananza dai figli, specie dal più grande. L'impressione di non essere un buon padre.
E poi c'è la Milano vista dagli occhi del protagonista: i suoi giri in bici, le osterie vecchio stile, i viaggi in tram. Il quartiere del Casoretto col deposito dei tram, viale Porpora, il parco Trotter.
C'è tutto questo nel bel libro si Giorgio Fontana, che costituisce assieme al suo primo libro "Per legge superiore" un dittico dentro il mondo dei Tribunali e dei palazzi di giustizia.
In questo romanzo compare, come personaggio minore, Giorgio Doni che, nel primo romanzo di Fontana, è l'anziano procuratore che indagando su un omicidio tra i migranti di via Padova, riscopre il vero senso del suo lavoro, raccogliendo la testimonianza lasciatagli dall'amico.
In questo romanzo scopriamo che è stato un compagno di studi di Colnaghi ed è in procinto di tornare in Lombardia.
Un secondo dialogo, proprio tra Colnaghi e Doni, merita di essere riportato: si può considerare il testamento spirituale di quest'uomo.
La giustizia non è gridare i numeri
«Ma davvero per te si riduce tutto a questo? A prendere il cattivo e condannarlo, e "giustizia è fatta"?». [..] si sentiva accaldato e confuso, tutti gli eventi degli ultimi due mesi si rincorrevano nella sua testa. «Sai, il mio amico Mario - il libraio, ricordi? - mi ha regalato un libro, Diario di un giudice. L'ha scritto un tale Dante Troisi. L'hai letto?».«Non leggo molto ad essere sincero».«Bé, è la storia di un giudice di provincia, negli anni Cinquanta. Ad un certo punto dice: "La mia funzione è controllare l'ago che indica il peso delle persone che cadono nella nostra bilancia e gridare i numeri". L'ho mandato a memoria, da tanto mi ha colpito. Noi dobbiamo evitare in tutti i modi di essere così, capisci Roberto?». [..]
«Se cominciamo a gridare i numeri, è finita davvero. Forse è quello che la gente vuole da noi, e credo che la stragrande maggioranza dei magistrati, di fondo, la pensi così. Ma allora non vale. Allora non c'è più differenza: dipende tutto da metro che vuoi applicare, dal potere che ci domina in un certo momento», disse pulendosi le mani col tovagliolo.«Un magistrato non dovrebbe mai ridursi a questo. Siamo le uniche persone al mondo che possono rimettere insieme in qualche modo i pezzi di ciò che è andato in frantumi. Una morte, un furto, una qualsiasi violenza: anche la più piccola. E' tutto sotto la nostra responsabilità, Roberto: aiutare le persone, non trattarle come parti nel gioco del processo. Eccezioni sempre, errori mai».Un finale molto toccante, col sacrificio del protagonista. Che è un sacrificio per noi, per le istituzioni, per la giustizia.
Il blog dell'autore e la scheda del libro sul sito di Sellerio.
Scaricate qui il primo capitolo.
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