La città di cui non si dice il nome è
Torino. Le industrie nel vecchio e glorioso passato sono ora dei
cimiteri di cemento e acciaio, al cui interno di nascondono, dagli
occhi dei benpensanti e dalle mire dei costruttori, gli immigrati.
Che, la notte, di nascosto, saltano dai muri per entrare nella città,
per lavoro o per far finta di farne parte.
Dalla strada non si vedono i fuochi, frustati dal vento che batte gl scheletri d'acciaio. Prima erano i trempli del lavoro, capannoni alti come basiliche o grattacieli, centrali d'energia al servizio di un sogno d'industria, officine, luoghi della fatica feriale difeso con orgoglio da quelli che dentro sbuffavano e smadonnavano almeno otto ore al giorno almeno, su tre turni, ogni giorno che Dio posava sulla terra. Luoghi dannati eppure desiderati. Ora la città vive una sua vita sghemba da insetto, o da serpe bastonata, un nuovo sogno sognato con meno tenacia, che moltiplica i cantieri, parassiti di un futuro terziario promesso ogni sera e rimandato, e la sua gente ora cammina di lat, scarta ad ogni passo cambiando preghiera. Il sogno ha la forma di scatole di calce a poco prezzo, arancione e azzurro a sedici piani, da tirare su in fretta perché arrivano le olimpiadi e allora tutto cambierà.
Si muovono veloci, come fanno i tarli nel legno o i castori quando costruiscono in mezzo all'acqua, ma su un territorio vasto, e tanta parte rimane inesplorata, protetta per decenni dalle mura delle fabbriche, accessibili solo ad orari precisi a livelli diversi, da persone con diversa qualifica. Adesso quel territorio è aperto, gli spazi un tempo inviolabili se ne stanno violati, sventrati a ridosso delle strade, la vegetazione li invade, oscena anche d'inverno, e si aprono trappole proprio vicino ai piedi di chi passa. La vecchia industria ha perso il suo pudore e si offre a chiunque, per un'ultima emozione segreta prima delle ruspe: rimane sempre qualche angolo selvatico, fra le macerie e i rovi, dove sopravvive un intero popolo alla macchia, come le blatte nelle crepe dei muri, in lenta fuga dalla colonizzazione immobiliare.
Sono i saltatori di muri. Sono loro che accendono i fuochi la notte, per scaldare buchi provvisoriamente scampati al progresso: amano le erbacce, bruciano bene quando l'inverno le ha seccate, se sono abbastanza folte ricoprono le loro case alla vista delle avanguardie nemiche , assi e putrelle abbandonate nei cantieri. Sono lenoni e lavoranti in nero, badanti, aspiranti puttane, piccoli ragazzi con le idee confuse, gente che chiede elemosina e gente che sfrutta e gente che fa le pulizie negli uffici vuoti la notte. E poi intere famiglie, con i vecchi: arrostiscono ali di pollo rimediatea chiusura dei mercati all'ingrosso, dove arrivano a piedi o sui pullman, pronti a piangere o saltare alla vista dei controllori.
Non andarli a cercare: la loro è una terra pericolosa, sottratta alle abitudini della città. Basta appostarsi la sera sul marciapiede e guardare le murate delle vecchie fabbriche, e allora li vedi saltare. Volano al di sopra dei muri e atterrano sul marciapiede flettendo le ginocchia, scarpe da ginnastica o talloni nudi: iniziano il turno oppure hanno due soldi da spendere e vogliono per sé almeno una fetta della grassa notte di questa città occidentale. Saltano a uno a uno, per non farsi vedere troppo, hanno capito la mente del luogo che rifiuta quel che si nota e apprezza chi tace. Hanno addossato pedane di fortuna alle mura die loro fortini, sul lato interno, e le usano come trampolini. Sono pochi a vederli, per ora: la città ha gli occhi impastati del suo magnifico futuro, pattini d'argento, sorrisi di architetti, la cravatta dell'assessore ottimista.[..]Pagano anche l'affitto: di tanto in tanto arrivano i mediatori, uomini esperti, con la giacca, e tengono lo sguardo un po' di lato, per assicurarsi che non venga nessuno ad interrompere. Portano sempre la stessa notizia: i costruttori si avvicinano, bisogna togliere le tende, smontare le mensole, ma c'è un altro piccolo spazio un po' più in là, più in fondo, appena al di là dei rovi. E allora gli abitanti delle vecchie fabbriche riprendono la ritirata del fango, come fanti slavi di un imperatore già morto. Magari c'è posto anche dietro il carroponte, è solo questione di soldi, pochi per altro. E intorno fioriscono ancora nuovi parallelepipedi arancioazzurri per classi medie, disposte alla proprietà a prezzo contenuto, che per ora non esistono. Verranno su anche loro, come i rovi, l'assessore e l'architetto a ricordargli di esistere, accordarli sul diapason del brillante futuro cablato, terziario e fluido. In città il denaro gira soltanto attraverso le mani dei costruttori.Pagina 54-55
La descrizione di
questi “saltatori di muri” è di Luca Rastello, nel libro
“I buoni” (Chiarelettere
editore): tra questi saltatori, anche Raza, la protagonista
del libro. Che dalle sottofondi di una città dell'est, finisce
dentro la onlus I piedi in terra, di don Silvano, il santo. Il prete
impegnato nell'antimafia, nel sociale, nel fare del bene. Assieme a
tutti i suoi volontari. O almeno, questa è l'immagine che viene
proiettata all'esterno, dalle televisioni, dai comunicati stampa.
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