23 febbraio 2016

Noi che gridammo al vento - per un pezzo di terra

Gottuso - L'occupazione delle terre incolte
A raccontare la festa che ogni anno si celebrava a Portella della Ginestra, prima di quel 1 maggio 1947, è Omero, uno delle voci del romanzo "Noi che gridammo al vento". Potrebbe avere novant'anni o forse duemila e più. Cieco per aver visto troppo. Le guerre, la miseria, la fame, il latifondo, i soprusi, il fascismo.
E la strage di Portella della Ginestra:
Ne ho sentite di campane da quando Kola Barbati portò quassù i contadini. Una guerra, quella che hanno chiamato Prima e che prima  non era, aveva finito di uccidere e per tre anni qui abbiamo festeggiato il Primo maggio. Salivano da Piana, da San Giuseppe Jato e da Cipirrello con tanta fame addosso, perché dalla guerra i ragazzi erano tornati, quelli che erano tornati, portando nei paesi altra miseria.Soccpiò il fascismo e decretò a Purtelja e Jinestres un'accozzaglia di sovversivi grandi e piccoli, uomini e donne, avrebbero turbato l'ordine pubblico, così proibì la festa e bandì i contadini. Lasciò la fame.Quel Primo maggio, la nostra gente lo utilizzò marciando nei campi e per sentieri e per valichi. Davanti, zappa sulle spalle, gli uomini. Dietro, le donne portavano il cesto del cibo. Vuoto.Perché chi doveva sapere sappesse: il Primo maggio non si lavora. Sciopero!Solo le donne. Per gli uomini che scioperavano c'era il confino. Ci finirono in molti.Ho visto la bandiera che quelle donne fecero sventolare nell'occasione. C'è ancora.Lo sai, professore? Al suo cane il podestà dava i biscotti, alle donne e ai bambini mandati nei campi a lavorare dava erba.Il regime ci soffocò e ci portò a un'altra guerra, che la storia chiama Seconda e noi .. noi abbiamo perso il conto.I giovani (e chi se no?) vennero richiamati a conquistare lo spazio vituale per un futuro che sostenevano essere il nostro. Era il loro.«I contadini hanno bisogno di terra», ci spiegavano.Molti la trovarono la terra. Larga un metro e profonda due. Lontano da qui. Chi potrò portò a casa, nello zaino, la stessa antica miseria con la quale era partito.Di nuovo la patria chiamò gli eroi a difendere i sacri confini. In pochi andarono. Avevano sedici anni. In molti risposero che non era più tempo di eroi e, se c'era da versare altro sangue, lo avrebbero fatto sì, per un pezzo di terra, ma doveva essere la loro, stavolta. Così riprese una lotta che non era mai terminata.A undici anni i bambini pascolavano le pecore e lavoravano i campi con i padri.Giovani che non sono mai stati giovani. Io, uno di loro.Riprendemmo la festa del Primo maggio. E, almeno per quel giorno, a Portella si doveva poter mangiare. [..]Festa grande a Portella. Non sempre.«Chi mi leva il pane, io gli levo la vita», e a Salvatore Giuliano levarono un sacco di grano. Lui levò la vita a chi glielo aveva tolto.Levò la vita anche ad altri che nulla gli avevano tolto. Che volevano solo far festa. Fu massacro vigliacco. E vigliacco fu lui, nascosto dietro la mitragliatrice.Un mese dopo, il 1 giugno del '47, Girolamo Li Causi, in piedi sulla pietra dove ora io siedo, commemorò i morti. Gridò:«Il fischio per la strage di Portella è del ministro Scelba e del cardinale Ruffini!»
Noi che gridammo al vento, pag. 77-78 , di Loriano Macchiavelli - Einaudi

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