Un sasso è caduto in un bicchiere, l'acqua è uscita dal bordo, ed è finita sulla tovaglia.
Tutto qua. [..] E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi ha costruito il bicchiere perchè il bicchiere era fatto bene, a regola d'arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro.
Questo scriveva pochi giorni dopo la tragedia del Vajont, avvenuta il 9 ottobre 1963, Dino Buzzati sul suo giornale Il Corriere della Sera.
No, non è tutto qui: la storia della tragedia del Vajont (quasi 2000 morti, come due bombe atomiche in una valle chiusa) è iniziata molto anni prima, come ha raccontato Marco Paolini nel suo teatro civile e nel libro "Il racconto del Vajont".
Come scriveva Tina Merlin nel suo libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe”.
Perchè a prescindere dalle responsabilità stabilite dalla giustizia, dai rimborsi alle persone, all'accordo tra Enel Montedison e Stato sulla divisione delle colpe, la storia della più grande catastrofe civile italiana è semplice basta leggerla.
Il mancato rispetto della natura; il mito del progresso a prescindere da costi e problemi; un capitalismo (quello della Sade) che non tollerava controlli, vincoli, che non accettava smacchi né dalla popolazione (preoccupata della frana, della montagna che si muoveva vista d'occhio) né dal Monte Toc.
Non importava se la frana del Monte Toc fosse stata scoperta anni prima; poco importa se una simulazione della frana fatta dall'università di Padova avesse già fatto emergere i rischi per Longarone; poco importa se ci fosse già stata una frana.
Poco importa se la raccomandazione dei tecnici dell'istituto di idraulica (quelli della simulazione) avessero raccomandato di non superare una certa quota, dal margine della diga.
Il profitto. Bisognava inseguire il profitto.
Bisognava fare l'Italia, l'Italia del boom, delle autostrade, delle industrie, dei nuovi quartieri per gli immigrati, del nuovo benessere.
Il prezzo sono stati 2000 morti.
Tutto qua. [..] E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi ha costruito il bicchiere perchè il bicchiere era fatto bene, a regola d'arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro.
Questo scriveva pochi giorni dopo la tragedia del Vajont, avvenuta il 9 ottobre 1963, Dino Buzzati sul suo giornale Il Corriere della Sera.
No, non è tutto qui: la storia della tragedia del Vajont (quasi 2000 morti, come due bombe atomiche in una valle chiusa) è iniziata molto anni prima, come ha raccontato Marco Paolini nel suo teatro civile e nel libro "Il racconto del Vajont".
Come scriveva Tina Merlin nel suo libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe”.
Perchè a prescindere dalle responsabilità stabilite dalla giustizia, dai rimborsi alle persone, all'accordo tra Enel Montedison e Stato sulla divisione delle colpe, la storia della più grande catastrofe civile italiana è semplice basta leggerla.
Il mancato rispetto della natura; il mito del progresso a prescindere da costi e problemi; un capitalismo (quello della Sade) che non tollerava controlli, vincoli, che non accettava smacchi né dalla popolazione (preoccupata della frana, della montagna che si muoveva vista d'occhio) né dal Monte Toc.
Non importava se la frana del Monte Toc fosse stata scoperta anni prima; poco importa se una simulazione della frana fatta dall'università di Padova avesse già fatto emergere i rischi per Longarone; poco importa se ci fosse già stata una frana.
Poco importa se la raccomandazione dei tecnici dell'istituto di idraulica (quelli della simulazione) avessero raccomandato di non superare una certa quota, dal margine della diga.
Il profitto. Bisognava inseguire il profitto.
Bisognava fare l'Italia, l'Italia del boom, delle autostrade, delle industrie, dei nuovi quartieri per gli immigrati, del nuovo benessere.
Il prezzo sono stati 2000 morti.
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